Attualità

L’Europa a cena

Pensieri finger food sullo stato dei discorsi sull'Unione Europea e su come anche i meglio intenzionati tra noi europeisti...

di Cesare Alemanni

Sono a Berlino da poco più di due settimane e, tramite una conoscenza di queste parti, qualche giorno fa mi hanno invitato a una di quelle cene in piedi con una ventina di persone spiluccanti, da cui tipicamente me ne vado più affamato di quando sono arrivato. Eccetto due canadesi ero il solo a non avere passaporto tedesco e la situazione sembrava virare all’imbarazzo fino a quando, appurato che il duo nordamericano maneggiava anche peggio di me l’idioma del luogo (non so come ma pare sia possibile), molto cortesemente l’inglese è stato eletto a lingua franca delle conversazioni. Dopo un paio di bicchieri mi si è avvicinato uno dei presenti, con un gran sospiro e una maschera di costernazione abbassata sul volto; sembrava stesse per chiedermi a che punto fossero i miei calcoli renali o qualcosa del genere – in realtà voleva “solo” sapere come vanno le cose in Italia. Ho detto quel che secondo me c’è da dire, cercando di suonare il più ottimista e fiducioso possibile, e da lì il discorso è scivolato sulla situazione dell’Europa in generale attirando un altro po’ d’invitati e, “a una certa”, pareva che tutti, canadesi inclusi, non parlassero d’altro . Più tardi, mentre tornavo verso casa e, affamatissimo come da copione, dicevo no a un’infinita sfilata di tentazioni gastronomiche, ho riordinato quanto avevo ascoltato e mi sono segnato il paio di appunti che segue.

1- Con piacere ho constatato che nessuno dei presenti – un campione sicuramente troppo omogeneo, trattandosi esclusivamente di 25/35enni berlinesi (o quantomeno tedeschi domiciliati qui), occupati perlopiù in ambito “creativo”*, di indirizzo liberale e con una discreta posizione socio/economica – riteneva, o quantomeno diceva apertamente quel che invece spesso alcuni politici locali si lasciano scappare: che l’Unione Europea è uno sbaglio, che gli anelli forti farebbero meglio a cacciarne gli anelli deboli, che “il Deutsche Mark! Quello sì che era figo!”. Se mi fossi trovato alla festa della Birra di Recklinghausen avrei sicuramente raccolto pareri “leggermente” diversi ma comunque, per quel che può valere, la compattezza di opinioni che ho riscontrato nel mio minuscolo e viziato campione statistico, ha fatto felice il piccolo europeista ingenuo che è in me.

2 – Con meno piacere ho ricavato l’impressione che, quando parlano di Europa, anche i meglio intenzionati tra noi (definisco noi come: noi che crediamo nell’integrazione europea come passo culturale e politico fondamentale ma che non mastichiamo troppo di economia e mercati), che siano italiani, tedeschi o x, tendono a sottovalutare la complessità e la dimensione del processo storico che hanno di fronte e a ristagnare nel contingente. Si può dire che, pur nel più ampio accordo sull’importanza di “fare l’Europa”, i discorsi che ho ascoltato fossero polarizzati essenzialmente su due posizioni. La prima aveva le tonalità emotive del «Oh mio dio! A quali orrende torture stiamo sottoponendo la Grecia!» (per gigantesche e ben note ragioni storiche – un certo tipo teutonico, più a sinistra dell’SPD, si infiamma fino alla vergogna, fino all’auto-flagellazione non appena sente odore di Wagner). La seconda seguiva un canovaccio ben noto a tutti noi: «La Germania ha già fatto i compiti, è ora che li facciano anche gli altri». Queste due posizioni mi sembrano simili, seppure ovviamente speculari, a quelle che noi europei ed europeisti del sud ci rimbalziamo a casa nostra. Da una parte c’è il coro degli auto-deprecatori del Paese (a volte, lo confesso ci canto insieme) «Mio dio che luogo senza più speranza che siamo! Ah i tedeschi, loro sì che…» mentre dall’altra c’è il fronte degli orgogliosi: «Sì ok, noi avremo i nostri difetti ma anche la Germania, furbetta lei, si sta avvantagiando della situazione». È una descrizione massimalista e caricaturale del funzionamento dell’opinione pubblica nei due contesti, ne sono consapevole, tuttavia credo catturi una cosa sottile ma abbastanza fondamentale, ovvero che – anche i meglio intenzionati tra gli europei europeisti senza patentino da economisti – quando si arriva alla resa dei conti smettono di ragionare da europei e di mettere le cose all’interno di un’adeguata prospettiva storica, e tornano a biasimare o a difendere, a seconda dei casi, pregi e difetti di casa loro, difetti e pregi del vicino. È normale che sia così, sarebbe inumano pretendere che fosse diversamente, specie in un momento difficile come questo. Dubito però che ci porterà molto lontano.