Attualità

Le diaboliche

Irene Brin (celebrata a Roma in questi giorni) e Camilla Cederna, ragazze terribili del giornalismo italiano. Quando scrivere di costume voleva dire raccontare il paese meglio di mille editoriali di economia e politica.

di Michele Masneri

In tempi lontani in cui si riteneva giusto andare in edicola a comprare dei giornali, alcune signorine di ottima famiglia che avrebbero potuto fare le deputate, le ministre, le capitane d’azienda o le diplomatiche, facevano invece finta di scrivere frivolezze inventando uno stile e raccontando il Paese meglio di tanti colleghi maschi, sapendo del resto d’economia e cultura e politica molto di più di loro.

Verrà presentato domani alla Galleria d’arte moderna di Roma L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952 di Irene Brin (Viella editore), uscito quest’estate in sordina e già destinato a diventare classico. Irene Brin, pseudonimo (inventato da Leo Longanesi) di Maria Vittoria Rossi, romana, nata nel 1911, figlia di un generale di corpo d’armata, inventò in Italia un genere, quello del “giornalismo di costume”, genere che allora non osava ancora pronunciare il suo nome; i pezzi “frivoli” si chiamavano allora «cani schiacciati» con metafora poco animalista. Brin scriveva tantissimo, con vari pseudonimi: Mariù, Mariù Rossi, Maria del Corso (di politica) Adelina «certe cronache di massaia», Geraldina Tron (racconti), I.B. (critica cinematografica), contessa «Clara Radjanny von Schewitch» nella rubrica di bon ton per la settimana Incom illustrata; contessa Clara, per altri galatei; ma si occupava anche di architettura, arredamento (su Domus, con Giò Ponti), piccola posta, Lautrec (due saggi), romanzi (tra cui Olga a Belgrado, da poco ripubblicato da Elliot). Trovando nel frattempo modo di scrivere per Harper’s Bazaar come corrispondente dall’Italia (notata da Diana Vreeland per un certo tailleur) e fondare col marito Gasparo del Corso, militare di carriera, la prima galleria d’arte romana fondamentale del Dopoguerra.

«Famiglia eccellente e modesta», erano i Rossi, sempre dalla parte giusta senza posti sbagliati brechtiani; e «capita raramente di trovare medaglie d’oro e d’argento senza trovare qualcuno che ci fu amico, e morì». La mamma, ebrea viennese, ritira presto la bambina dal liceo romano non per okkupazioni ancora scarse ma per il clima poco educativo che porterà poi alle leggi razziali; le insegna cinque lingue. In quanto antifascista in vista, la mamma viene anche intercettata: il marito generale viene chiamato dal prefetto: «eccellenza, venga, ascolti qui le registrazioni della signora. Le distruggiamo sotto i suoi occhi, ma raccomandiamo prudenza!» (in tempi già forse di abuso del mezzo); il padre generale non ritiene di dover giurare fedeltà a Mussolini, avendo già fatto un giuramento più importante, al Re (ma i tedeschi che non sono così sofisticati lo arresteranno).

Tutto un gusto molto inglese e dry: «sapevamo perfettamente che l’Italia entrava in guerra senza la minima possibilità di vincere, ma andavamo ai tè, facevamo l’inchino alle Altezze Reali, utilizzavamo parsimoniosamente le troppo celebri mille lire al mese vestendoci di cotonina come le protagoniste di Via col Vento». Spose felici sotto le bombe di militari pur con la consapevolezza che la vedovanza probabile avrebbe significato «pagar l’affitto, domare il mezzadro, curar la bisnonna».

Poi la passione per il giornalismo. Il primo pezzo lo manda a una testata di Genova, il giorno della nascita del figlio maschio del direttore, sperando in un buonumore. Poi, sempre a Genova, è al Lavoro, diretto da Giovanni Ansaldo (intellettuale antifascista, autore del più importante galateo italiano, con lo pseudonimo di Willy Farnese); e poi con Longanesi a Omnibus, che le inventa quel nome, Irene Brin, «corto, brillante, pungente, come la sua scrittura».

Cartier Bresson che arriva a Roma e vorrebbe fare un servizio nella tenuta di Ninfa dei Caetani; la Brin propone di portare l’elettricità ma il grande fotografo la ritiene una cafonata.

Ne L’Italia esplode, cronache pre-boom con questo stile scintillante. La nascita della moda italiana, casuale e non premeditata e povera, con un certo marchese Giorgini che nel 1952 a Firenze organizza a casa sua la prima sfilata intuendo che l’export oltre a «valorizzare la paglia, il vetro soffiato, il cuoio sbalzato e le porcellane», forse potrebbe puntare «anche sui vestiti»; Cartier Bresson che arriva a Roma e vorrebbe fare un servizio nella tenuta di Ninfa dei Caetani; la Brin propone di portare l’elettricità ma il grande fotografo la ritiene una cafonata. Carmel Snow, capa suprema dell’Harper’s Bazaar, con ritratto vagamente capotiano («verso la fine della sua vita fu necessario tagliarle l’anulare della mano sinistra e lei trasferì al medio il grosso smeraldo del fidanzamento. Fu, chirurgicamente, un’operazione riuscita. Spettò a lei sola il merito di aver inventato, anatomicamente, un arto nuovo. Un artiglio, un uncino, con unghie scarlatte»).

A Roma la Brin vive a palazzo Torlonia a via Bocca di Leone, «un palazzo storico come quasi tutti a Roma», però il suo un po’ più storico di altri, in cortile giocano «i trisnipotini della Regina Vittoria», cioè poi Juan Carlos e la sorella Beatrice, lì vissuta fino al 2002 (e Berlusconi aveva fatto un pensiero sul palazzo, prima di Grazioli, ma i Torlonia han più soldi di lui, e sfrattare l’Infanta non pareva bello). Poi prende voli Alitalia da Ciampino (con la compagnia da poco fondata e diretta da un illustre ambasciatore antifascista, Niccolò Carandini; a bordo «si consegnano le penne stilografiche agli steward» (non sono previste le hostess, ancora in regimi da califfato), perché gli aerei non sono pressurizzati, e altrimenti schizzano l’inchiostro.

L’Italia esplode è anche un self-help molto educativo per chi fa questo mestiere: «in certi periodi avrei scritto anche quattro articoli al giorno, sullo stesso argomento, ma usando termini rigorosamente diversi. Diciamo che raccontavo le novità di Christian Dior sulla Gazzetta del Popolo, su Gazzetta-Sera, sul Giornale d’Italia, cioè tre quotidiani; il quarto pezzo era destinato ai settimanali, ai mensili, alle pubblicazioni occasionali. C’erano giorni in cui, scrivendo dalle nove del mattino alle nove della sera senza interrompermi, allestivo diciotto o venti puntate. Per non morire di noia, ricorrevo alla citazione storica, all’aneddoto incongruo, al riferimento classico. Quando, oggi, mi capita di rileggere questi milioni di parole, sono sempre stupita dagli esordi: perché ho citato madame de Montespan, il duca d’Alba, l’Eresia Catara, il Ballo degli Ardenti, Rasputin, la muraglia cinese, quando dovevo semplicemente adattare un testo descrittivo al servizio fotografico sui mantelli di paglia? Semplicemente, cercavo di riabilitarmi ai miei occhi».

Subito il brinismo – cioè il solito trucco, parlar seriamente di cose frivole e l’opposto, però con background difficilmente alla portata di tutti – diventa appetibile. «Ben presto, tutte le collegiali liguri e lombarde si dedicarono ai ‘cani schiacciati’». Tra le collegiali, lei riconosce una sola alla sua altezza, Elsa Morante (però così diversa, mah), mentre le cattiverie sono naturalmente per l’allieva più promettente e che coltiverà poi questa discendenza di signorine terribili, Camilla Cederna.

Tra le collegiali, lei riconosce una sola alla sua altezza, Elsa Morante, mentre le cattiverie sono naturalmente per l’allieva più promettente e che coltiverà poi questa discendenza di signorine terribili, Camilla Cederna.

«Io non avrei frugato tra la biancheria sporca della principessa Margaret d’Inghilterra a Capri» scrive Brin, e il riferimento è a un articolo del 1949 che fa abbastanza epoca: la Cederna (1911-1997) per un pezzo sull’Europeo si era introdotta nell’albergo “Morgano e Tiberio” in cui alloggiava la sorella di Elisabetta; dopo aver fatto ubriacare due ispettori di Scotland Yard era penetrata nella reale stanza catalogando con occhio da entomologo milanese profumi, smalti per le unghie, libri gialli, librettini di preghiere per la sera, calze di nylon appese in bagno sopra la vasca ad asciugare, bigodini particolari («di cuoio») provocando grande scandalo non per il tono cheap da sciura Pina del reale armamentario ma per la inusuale violazione di privacy in tempi non ancora di selfie.

Cederna, milanese, anche lei di famiglia eccellente antifascista, riusciva a scrivere di moda, di ascensori sociali, di borghesie piccole e medie e grandi, di presidenti (il suo Giovanni Leone un po’ ingiusto ma assai gustoso aveva fatto dimettere il presidente della Repubblica napoletano). Un suo pezzo del 1977, raccolto nel Meglio di Camilla Cederna (Mondadori, 1987), racconta anche di un imprenditore edile in ascesa. Il titolo: “Serve una città? Chiama il Berlusconi”, dove il non ancora Cavaliere è «un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, un nasetto da bambola», e un nome che «sarebbe piaciuto a Carlo Emilio Gadda». Nello stesso volume, reportage goduriosi su: Re Umberto in esilio; le speculatrici di Borsa milanesi; Anna Magnani; il Giro d’Italia, il Festival di Spoleto, il presidente Pertini, Goya.

Indro Montanelli, maschio alfa con lettera 22 sulle ginocchia, la odiava molto, la Cederna, la chiamava «merlettaia del costume», «testimone furtiva o relatrice di trame e tresche salottiere»: non amava neanche Irene Brin. Quando morì, nel 1969, fece un coccodrillo pieno di cattiverie, dicendo che forse era lesbica, che lei e il marito non scopavano ed erano vittime di uno «snobbismo che era stata la loro dannazione». Infine che Brin si era buttata via dietro «ambizioni miserevoli di arbitra di moda». Ma era naturalmente perché sia lei che la Cederna scrivevano molto meglio di lui.

Nell’immagine in evidenza: Irene Brin.