Attualità

Le canzoni del 2015

I brani preferiti dell'anno per la redazione e i collaboratori di Studio.

di Aa.Vv.

Il 2015, musicalmente parlando, è stato un ottimo anno. Almeno a parere dell’anonimo redattore che sta redigendo questa, ennesima, lista di fine anno. Su Studio non parliamo poi così spesso di musica – almeno non quanto parliamo di libri, serie tv e altre cose – ma ogni giorno, in redazione, se ne ascolta molta. Scrivere di musica non è facile: come dice un aforisma molto citato e dalla dubbia origine (secondo quoteinvestigator.com, almeno), writing about music is like dancing about architecture. Per questi ultimi giorni dicembrini, però, abbiamo chiesto a un po’ di redattori, amici e collaboratori di dirci qual è la loro canzone preferita dell’anno. Ne è venuta fuori questa lista qui. Buon ascolto.

Grimes – Flesh Without Blood

Claire Boucher (aka Grimes) afferma che “Flesh Without Blood” non è una canzone d’amore. Strano, perché mi fa venir voglia di piroettare in un vortice di petali, sangue e brillantini (che è un po’ quello che fa lei nel video) gridando: IF YOU DON’T NEED ME / JUST LET ME GO. In un’intervista la ventisettenne canadese confessa di aver buttato nel cesso un intero disco – «faceva schifo», dice – dopo l’uscita del singolo “Go” (canzone davvero brutta, inizialmente scritta per Rihanna). Il risultato del secondo tentativo è il nervoso, vorticoso, luccicante Art Angels, incarnato da “Flesh Without Blood”, zuccherosa e violenta allo stesso tempo, in cui risuona, sexy e risoluta, la voce di un’artista che deraglia e poi si ritrova, ancora più forte di prima.

(Clara Mazzoleni)

Kelela – Rewind

Nonostante il mio brano dell’anno sia “Shutdown” di Skepta, mi piace sottolineare l’importanza di un’altra traccia: “Rewind” di Kelela. Un brano che si muove nel piacere di quel momento sospeso, quello di quando ti trovi nel club e puoi avere pieno controllo del tuo corpo e dei suoi movimenti senza pensare a ciò che ti dice la mente o alle reazioni di chi ti sta intorno. Cause I’m heating up, are you reading my mind / I know that I’m stalling, don’t leave me behind canta Kelela e io non posso fare altro che assecondare l’imperativo del titolo del brano e ripremere play.

(Gianluigi Peccerillo)

Father John Misty – The Night Josh Tillman Came to Our Aptartment

L’arrangiamento ha un’aria grandiosa, cocktail bar più teatro antico abbandonato: crooner e rimorchione, Joshua Tillman comincia la prima strofa così: «Oh, quanto mi piace quel tipo di donna che sa calpestare un uomo, / ma sul serio, cazzo, come una banda di paese intera». La storia ricorda  un po’ “Norwegian Wood”, dove Lennon passa la notte da una fan per cui prova disprezzo. Qui Josh critica varie cose: come si atteggia questa hipster ventenne cui troppa a gente ha detto che dimostra più della sua età e che ritiene di avere la voce di Sarah Vaughn, come si sente il centro del mondo e come dice che la musica è l’aria che respira. Ma c’è tanto calore in questo quadretto, dove fra amici drogati si canta “Silent Night” a tre voci, «which was fun». Nel finale lapidario, Josh passa alla seconda persona per ricordare all’interessata: «Ti ho accontentata, poco più tardi, quando mi hai implorato di strangolarti». Masochismo o autolesionismo che sia, un ritratto di donna spietato e dolce.

(Francesco Pacifico)

Tobias Jesso Jr. – Without You

Tobias Jesso Jr. deve avere avuto dei guai d’amore piuttosto grossi mentre scriveva l’album Goon. Questa canzone si chiama “Without You”, ma il “without you” è ben presente anche nel quasi infinito ritornello di “Leaving LA”, dallo stesso album. Il sito Genius va più a fondo nei pettegolezzi e dice che il trauma viene dalla separazione con Alana Haim della band Haim, e allega una foto in cui Tobias e Alana sono insieme, abbracciati e sorridenti e felici. Erano una bella coppia. In “Without You” Tobias Jesso Jr. riesce, con un testo semplicissimo, a rendere splendida una canzone d’amore finito. Dice cose banali e vere come «Why can’t you just love me?» e «There is no future I want to see without you», però messe su un pianoforte che le rende, non so come dire, bellissime e struggenti e malinconiche. E la batteria nel chorus rende il tutto ancora più bello, e mi dà l’impressione di movimento, cambio di ritmo e moto da luogo, un miglioramento di tutto, una nuova pagina, come si dice delle vite quando le si paragona ai libri. «Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani», d’altronde?.

(Davide Coppo)

Il Pagante – Vamonos

Ci sono molti pezzi del 2015 che considero più belli di questo (“King Kunta” di Kendrick Lamar, per esempio, o “You’re Gonna Be Good” di Jamie xx), ma “Vamonos” è per me il pezzo più divertente. Ho ascoltato e visto il video un sacco di volte – momento clou: il tipo che balla in discoteca con una maglietta con su scritto Ho 30 anni e allora? – e non mi ha ancora stancato. Il problema di molta musica ironica è che spesso è così ironica da non essere in grado di rappresentare il qui e ora, cioè quello che la musica pop-rock-dance dovrebbe sempre fare: dare immedesimazione (Elio e le storie Tese, per dire, sono sempre riuscito ad ascoltarli solo per ridere). Quello che mi piace del Pagante è, invece, che riescono a essere al tempo stesso demenziali ma anche a rappresentare lo spirito del tempo. Ti fanno sentire benissimo com’è avere vent’anni in Italia e a Milano nel 2015 (Un premio alla rima geniale: «Porto solo l’iPhone/che domani partirò/e un selfie in aereoporto mi farò».). Vamonos è stata la canzone ideale per l’estate, un suono banale, ma con qualcosa che raramente esce fuori dalla musica italiana: essere dentro il proprio tempo senza dare giudizi morali o politici, ma soltanto incarnando l’ambiguità di essere giovani occidentali in questo preciso istante.

(Cristiano de Majo)

Jim O’Rourke – End of the Road

Jim O’ Rourke è uno dei più importanti musicisti del XXI secolo. Membro dei Sonic Youth dalla fine degli anni ’90 al 2005 (chitarra, basso, sintetizzatore), produttore tra gli altri dei Wilco, ha pubblicato dischi free, noise, rock e molte altre cose (è appena uscito il suo nuovo disco ultrasperimentale con Akira Sakata e Merzbow). Ma ha anche una voce capace di intenerire le pietre. “End of the Road” è il mio pezzo preferito del suo ultimo album vocale (Simple Songs, per Drag City), una ballata struggente ed esiziale che rimanda al soft rock anni ’70. Il crescendo che parte al minuto 4:33 mi fa pensare a Orfeo che su un colle della Tracia riunisce intorno a sé, cantando, gli animali e gli alberi delle regioni vicine poco prima di farsi squartare dalla furia delle donne dei Cìconi.

(Fabrizio Spinelli)

Justin Bieber – What Do You Mean?

Justin Bieber è diventato grande, o almeno lo ha fatto credere a tutti. Ha compiuto l’operazione di marketing più notevole dell’anno, un po’ come l’ex Hannah Montana Miley Cyrus sulla palla demolitrice del 2013. Si è preso due produttori fighi, cioè Skrillex e Diplo, e ha fatto appunto credere di aver preso bei voti alla maturità. In realtà resta un pischello confezionato come una lattina di Dr. Pepper, ma – tra una “Where Are Ü Now” e una “Sorry”, notevolissime pure loro – ha sfornato “What Do You Mean?”, che poi è la canzone perfetta, «quel motivetto che mi piace tanto» (cit.) e non esce più della testa. Parafrasando X-Files, che torna a gennaio: «I Want to Belieber». Ora e per sempre.

(Mattia Carzaniga)

Rihanna – Bitch Better Have My Money

Ho sempre visto Rihanna come un personaggio rappresentato con estrema sacralità dai suoi fan. Ho iniziato a capirli quando è uscita “Bitch Better Have My Money”, mix di trap e hip hop tratto da Anti, album che dovrebbe uscire a momenti. Inno all’opulenza e alla prosperità, è accompagnato da un video cruento e spettacolare co-diretto da Rihanna stessa. RiRi è una donna nera di successo, non chiederà scusa a nessuno per il regno che ha creato e io e tanti altri la amiamo per questo.

(Miriam Goi)

Romare – Work Song

Credo che nella musica siano successe due cose molto belle nel 2015: il pop si è aperto alla critica musicale – ma soprattutto viceversa – come non succedeva da tanto; e la musica nera s’è ripresa finalmente un certo tipo di jazz. Tra Kendrick Lamar e The Weeknd quindi, ho scelto Romare: un producer inglese, bianco, campionatore seriale e con quel nome apertamente ispirato da Bearden, artista newyorkese. “Work Song” è un po’ la sintesi finale di quanto appena detto, tra l’esplosione di gioia del minuto 2 e il malessere latente della condizione che Romare ha messo in musica. Tutto l’album Projections merita un ascolto molto attento in quanto “journey” lungo secoli e chilometri nella storia della musica, strumentale e non, americana, di ogni genere. «Come Voodoo Ray reinterpretato da DJ Shadow», secondo la Ninja Tune. D’altronde basta citare Entroducing e il nostro livello d’attenzione si alza.

(Francesco Abazia)

Jamie xx – Gosh

La prima volta che ho sentito “Gosh” ero a Parigi, seduta su una poltroncina del Theatre du Chatelet. Ipnotizzata, guardavo distrattamente i modelli della sfilata di Walter Van Beirendonck camminare velocemente a ritmo, su e giù per la passerella. La seconda volta, poche settimane dopo, lo riconobbi subito. Casualmente lo feci partire mentre cercavo qualcosa da ascoltare in redazione, faceva caldissimo, era luglio, tutto era promettente. Ero ossessionata dall’energia che trasmetteva. Dopo una partenza brusca e un po’ aggressiva, con una ritmica seriale e una voce maschile che ripete «oh my gosh», si lascia andare a toni più positivi e carichi, in un crescendo che sembra promettere una seconda esplosione finale. Ma era esattamente su quel punto, a pochi secondi dalla fine, che premevo la freccia rewind per farla ricominciare. Non volevo che le aspettative venissero deluse. Per questo ascoltarla a ottobre o novembre non aveva più senso, la sua positività era fuori luogo. Ho ripreso ad ascoltarla solo poche settimane fa, forse perché mi riporta a quelle speranze estive deluse dall’arrivo dell’inverno. Ora che finisce un anno e ne inizia un altro, va recuperata quella carica e l’urgenza di ricominciare.

(Valentina De Zanche)

 

Nell’immagine in evidenza, Father John Misty sul palco del Coachella nel 2015. Frazer Harrison/Getty Images