Attualità

L’arte della guerra nell’era dei contractor

Il fondatore della Blackwater, la più grande società di mercenari, ha pubblicato le sue memorie. Abbiamo fatto due chiacchiere con un contractor per capire cosa c'è sotto e come sta cambiando la guerra.

di Massimo Morello

«Difficile è il passo sul filo tagliente di un rasoio: così i saggi dicono che è ardua la via della salvezza». È un brano della Katha Upanishad, una delle più antiche scritture hindu, detta anche “La Morte come Maestra”. È citato in apertura del romanzo di Somerset Maugham Il filo del rasoio.

Sei sempre sul filo del rasoio parlando o scrivendo di coloro che agiscono nell’underworld o nel mondo del Grande Gioco globale. Poco a poco non distingui vero, falso, verosimile. Alla fine scopri che tutto può esserlo al tempo stesso. Dipende dal mondo in cui ti ritrovi, dalla storia che leggi o vivi.

In questo caso il primo passo sul filo si compie con un libro da poco uscito:Civilian Warriors: The Inside Story of Blackwater and the Unsung Heroes of the War on Terror. È la storia della Blackwater, società di PMC, private military contracting, il più potente esercito mercenario. È stato scritto da Erik Prince, l’uomo che nel 1997 ha fondato la società con un capitale di sei milioni di dollari e l’ha rivenduta nel 2010 dopo aver guadagnato circa due miliardi. È la “My Way” di Prince, che si era incamminato sul filo del rasoio militando nei Navy SEAL e quindi aveva deciso di investire il suo patrimonio «per servire Dio, la famiglia e gli Stati Uniti». Creando «lo strumento definitivo nella guerra al terrore».

Il libro non contiene rivelazioni eclatanti, non foss’altro perché sottoposto al vaglio della Cia. Non si trovano, ad esempio, accenni a quella che è stata definita la“Jason Bourne Strategy”, richiamandosi al personaggio “inventato” da Robert Ludlum e noto per le sue trasposizioni cinematografiche. Come Bourne è un sicario addestrato dall’agenzia, così quella strategia si riferisce alle recenti rivelazioni secondo cui i servizi segreti americani avrebbero impiegato mercenari e terroristi imprigionati a Guantanamo in operazioni di omicidi mirati. Una replica dell’Operazione Phoenix della guerra in Vietnam, quando la Cia addestrò e pagò dei vietnmiti per “neutralizzare” la rete dei Vietcong nel sud del paese. Il coinvolgimento della Blackwater nella Bourne’s Strategy non è provato, ma molti giornalisti investigativi assicurano che alcuni dei suoi uomini furono assunti nel GRS (Global Response Staff) con la missione di individuare ed eliminare i membri di al-Qaeda.

Seguendo l’irresistibile ascesa della Blackwater in Afghanistan e in Iraq, ci si rende davvero conto di come certi scenari di fantapolitica siano divenuti reali.

Il libro di Prince è interessante proprio per questo: per ciò che nasconde, per le ombre nell’ombra. E per le connessioni che innesca con altre storie. Seguendo l’irresistibile ascesa della Blackwater in Afghanistan e in Iraq, sino al suo momento di maggior successo, nel 2007, quando la società impiegava circa 2500 contractor scelti in un database di 50.000 nomi, ci si rende davvero conto di come certi scenari di fantapolitica siano divenuti reali. È quella che Laura Dickinson, professore di legge all’università dell’Arizona, ha descritto come la “privatizzazione della politica estera americana”. Nel saggio Outsourcing War and Peace la Dickinson analizza il fenomeno in chiave storica e lo codifica in termini legali, proponendo le norme che dovrebbero essere applicate per garantire il rispetto dei diritti umani e la trasparenza degli affari: l’outsourcing della guerra non differisce da quella dell’industria dell’abbigliamento o dei call center. È un fenomeno globale ineluttabile che deve essere regolato. È solo più complicato perché, scrive, «molti di questi contratti sono stipulati in segreto». Il che corrisponde all’opinione di Prince quando afferma che la Blackwater ha sempre mantenuto alti standard etici. Ma soprattutto quando critica i “politicanti” che hanno osato mettere in dubbio che i suoi uomini«non abbiano fatto esattamente quello che erano stati profumatamente pagati per fare».

In realtà il problema è ancora più complicato perché nel mondo contemporaneo si stanno sempre più diffondendo le guerre non-convenzionali, in cui si confrontano milizie, terroristi, mercenari, guerriglieri. Un fenomeno analizzato dallo storico Max Boot in Invisible Armies: An Epic History of Guerrilla Warfare. Secondo i nuovi apprendisti stregoni come Boot la guerra sarà sempre più senza quartiere e asimmetrica. Sparirà la distinzione tra pace e guerra, tra civile e militare, tra nazione e nazione, tra guerra e dopoguerra. E in questa giungla di conflitti, per ora sembra regnare la legge della giungla, come denunciato da esperti delle Nazioni Unite, il “Working Group on the use of mercenaries”, secondo cui «i mercenari rappresentano una minaccia non solo per la sicurezza ma anche per i diritti umani e potenzialmente per il diritto dei popoli all’autodeterminazione».

Minaccia resa credibile proprio dagli uomini della Blackwater: nel settembre del 2007, dopo che la società ha reso più aggressive le sue tattiche, in uno scontro a fuoco nelle vie di Baghdad un gruppo di operatori uccide quattordici civili innocenti.

Inizia allora il declino della società, che prima cambia nome, diventando la Xe Services e poi vede ridurre i suoi contratti governativi. Il tutto, come lascia intendere Prince, in nome di un principio che è l’incubo di ogni contractor: la “deniability” o, come dice la Cia, “Plausibile Deniability”. Espressione ambigua che rappresenta un concetto che lo è ancor di più: un potente giocatore manovra le sue pedine senza mai apparire, tanto pronto a sacrificarle quanto abile nell’attribuire ad altri le mosse sbagliate.

È proprio questo che significa camminare sul filo del rasoio. E procedendo su questa via incontriamo un altro personaggio che lo sa meglio di Prince. «Chiamami Razor» mi dice Peter Slade, australiano, 66 anni.

Mercenario. «Ormai non ricordo quando hanno cominciato a chiamarmi così. Era perché portavo un coltello al polpaccio. Adesso è solo un soprannome per gli amici». Adesso è anche il titolo di un libro, “Razor’s Edge”, racconto di una vita sul filo del rasoio. Razor materializza tutti gli stereotipi del mercenario: nel fisico, per come parla, si presenta, per lo Zippo decorato da emblemi militari. Impressione alimentata dal luogo dell’incontro: un bar di Patong, nell’isola thailandese di Phuket, dove Razor vive.

«Chi sono io? Sono un mercenario? Sono un consulente per la sicurezza? Sono un free lance o, come dicono, sono un deniable, un uomo che si può sconfessare, rinnegare?»

Sembra di vedere uno dei personaggi descritti da Frederick Forsyth, in War Doge, meglio ancora, da Al J. Venter, veterano dei reporter di guerra, in War Dog. Fighting Other People’s War. The Modern Mercenary in Combat. In effetti Razor ha cominciato la sua carriera quando i contractor erano ancora chiamati mercenari, i mastini della guerra.

Ma ora, dopo una vita passata a combattere – l’ultimo incarico è stato in Iraq, dal 2005 al 2012 – non sa più come definirsi. «Chi sono io? Sono un mercenario? Sono un consulente per la sicurezza? Sono un imprenditore militare privato? Sono un free lance o, come dicono, sono un deniable, un uomo che si può sconfessare, rinnegare?». A differenza di un personaggio come Prince che sembra non avere dubbi, Razor ne ha molti. «Chi sono i buoni? Chi sono i cattivi? Combattere a pagamento è male per definizione se lo fai per un altro governo? Ma non è problema se lo fai per il tuo? Il servizio militare è una cosa buona anche se è per una cattiva causa?».

Ascoltando Razor il filo di rasoio s’interseca sottilmente con molti altri, diventa una ragnatela tagliente. E senti il bisbiglio registrato del Colonnello Kurtz di Apocalypse Now. «Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo di un rasoio, questo è il mio sogno, è il mio incubo: strisciare, scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere».