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L’armata Amazon Studios in marcia

Tutto quello che c'è da sapere sulla nuova televisione del colosso di Jeff Bezos, arrivata in questi giorni: i prodotti, le strategie, i punti deboli, quelli di forza.

di Fabio Guarnaccia

Il 15 novembre ha debuttato Alpha House, la prima serie targata Amazon Studios. Precede di pochi giorni il lancio del secondo titolo, Betas, che farà il suo esordio il 22 novembre. Alpha e Beta. Dopo Netflix anche il colosso della distribuzione online si cimenta con la produzione di intrattenimento televisivo. È lecito aspettarsi qualcosa di buono? Qualcosa, per intenderci, di paragonabile alla premiata House of Cards? A giudicare dai pilot diffusi in rete sorge più di un dubbio. Tra i due progetti quello di maggior prestigio è senz’altro Alpha House. È una serie comedy prodotta da Garry Trudeau, il geniale-autore-di-Doonsbury, ed è ambientata a Washington DC. Racconta la storia di quattro senatori repubblicani eletti in era pre-Tea Party che lottano contro la loro stessa rottamazione. I quattro condivideranno un appartamento e la lotta per tirarsi fuori dalle sabbie mobili di una crisi che sembra non solo politica ma esistenziale, questa la premessa narrativa. John Goodman è uno di loro ed è la cosa più notevole di tutte insieme a un cameo in apertura di Bill Murray, nel quale si alza dal letto imprecando e sempre imprecando si lava i denti con uno spazzolino elettrico prima di venire portato via dalla polizia. Tornerà? Speriamo di sì, perché la serie, al di là dei buoni valori produttivi, soffre molto la mancanza di originalità. Della comedy ha le intenzioni ma non il passo, ha premesse potenzialmente foriere di occasioni comiche ma un ancoraggio al realismo che ne fa uno strano oggetto sospeso su registri diversi, difficili da conciliare in 25 minuti di formato. Allo stesso tempo troppo lungo e troppo corto. E poi il tema: la politica. C’è un argomento meno originale di questo, oggidì? Dopo Veep e 1600 Penn, senza dimenticare Parks and Recreation, Alpha House sembra arrivare fuori tempo massimo. La “serie politica” ha il difetto che se la narrazione non vibra sulle frequenze del comico diventa subito un fiume di parole, di complotti e di riferimenti nebulosi capace di affogare le buone intenzioni di qualunque spettatore. Alpha House corre questo rischio, anche se alcune scene lasciano intravedere un altro mondo possibile.

Anche Betas soffre della stessa mancanza di originalità, da tutti i punti di vista. È una comedy che racconta la storia di una start up formata da un gruppo di giovanotti tra i quali figura un lunatico nerd indiano e uno sfaccendato ultratrentenne con la barba che somiglia vagamente a Zach Galifianakis… Forse basta questa breve descrizione per sottolinearne le carenze in fatto di originalità. Dovrebbe essere scritta davvero molto bene per sganciarsi dallo stereotipo, e a dire il vero il pilot in qualche modo funziona, ma non è abbastanza. C’è anche un cameo di Moby in cui dice di essere diventato vegano dopo aver scopato un polpo. Continua a non essere abbastanza. Rispetto alle produzioni Netflix siamo piuttosto lontani e difficilmente Alpha House vincerà un Emmy. È pur vero, però, che per Amazon realizzare serie televisive non è parte del core business come lo è per Netflix. E questo, a mio parere, è uno degli aspetti più interessanti di tutta la faccenda.

La tv per Amazon non è un modo per vendere pubblicità o abbonamenti, i due modelli su cui si fonda il mercato televisivo, ma per incrementare gli iscritti a Prime, il sistema di spedizione ultra-rapido dell’azienda di Seattle. Alpha House e Betas sono visibili a tutti ma solo fino al terzo episodio, da lì in avanti diventano esclusiva degli abbonati Prime, o acquistabili singolarmente. A ben vedere Amazon non sta cercando di essere la nuova Netflix, ma di giocare alle sue regole costruendo un modello coerente con il suo universo. Per 79 dollari all’anno gli utenti Prime possono accedere a un catalogo di film e serie tv composto da più di 41.000 titoli, oltre a ricevere in uno/due giorni gli articoli acquistati. Le produzioni originali sono solo delle esche per incrementare il numero di abbonati al servizio, che già oggi ne conta 11 milioni. La ragione di quest’operazione è evidente, se si considera che gli abbonati a Prime spendono il 150% in più rispetto agli altri clienti e generano da soli circa un terzo del fatturato dell’azienda.
Forse la ragione della mediocrità delle serie presentate risiede proprio in questa loro subalternità all’interno del sistema – se sei solo un’esca fatichi a dare il massimo, no? La strategia di Amazon non punta a concentrare l’investimento su pochi prodotti d’impatto ma a prolungare nel tempo la distribuzione di nuovi titoli-esca. Più quantità e meno qualità. Eppure la cifra investita è piuttosto alta, dall’uno ai due milioni a episodio, per puntate che durano solo 25 minuti e non un’ora come House of Cards. Una cifra di tutto rispetto.

L’editore non dovrebbe mai abdicare alla responsabilità della scelta, nascondersi dietro la volontà del pubblico, altrimenti è finito. Del resto sia Netflix sia Amazon sono definibili entrambi come post-editori.

Viene allora la tentazione di attribuire la responsabilità dei risultati narrativi tutt’altro che eccellenti al meccanismo di scelta dei titoli da produrre. Com’è noto a partire dalla primavera scorsa Amazon ha inaugurato una specie di talent nel quale chiedeva ai suoi clienti di valutare gli script da produrre. Si è spinta anche oltre: ha chiesto loro di inviare idee per comedy, drama, film e programmi per ragazzi che sarebbero entrate nel circolo dei progetti in valutazione alla ricerca del nuovo grande successo grass root che Internet promette da quando è nato. Stiamo ancora aspettando. Vi risparmio la descrizione della retorica crowd sourcing messa in atto da Amazon. La tentazione è davvero forte e verrebbe da dire: “Ecco cosa succede quando si lascia al pubblico la libertà di scegliere cosa produrre”. Avete presente la totalità dei talent show? Il problema non è quasi mai il valore televisivo di questi programmi, che spesso è davvero notevole, ma la qualità delle cose che vengono infine prodotte. Chiunque abbia mai fatto ricerca qualitativa sa benissimo che la creatività non è qualcosa di isolabile per mezzo di un focus group, indipendentemente da quanto grande e diffuso esso sia. Alla HBO la libertà totale viene concessa agli autori, non al pubblico. A questo si offre lo spettacolo migliore possibile. A ognuno il suo. Ve lo immaginate uno qualsiasi degli showrunner più in gamba venire sottoposto al giudizio del pubblico in fase di pitching? Se le cose fossero andate così probabilmente non avremmo mai avuto … e neanche … (scegliete due titoli a caso tra i migliori che conoscete). L’editore non dovrebbe mai abdicare alla responsabilità della scelta, nascondersi dietro la volontà del pubblico, altrimenti è finito. Del resto sia Netflix sia Amazon sono definibili entrambi come post-editori. Comunque, c’è qualcosa che non torna.

Tolto il velo della retorica crowd si viene a sapere, infatti, che le indicazioni del pubblico sono state sì importanti ma non decisive. La mediocrità di alpha e beta, non è attribuibile, almeno non del tutto, ai clienti Amazon che si sono prestati al gioco. Al loro giudizio è stato affiancato il lavoro di analisi sui (molti) dati provenienti dagli acquisti su Amazon, dalle visioni su Prime, dalle ricerche su IMDb e chissà cos’altro, e valutati infine dall’Amazon Television Team. Il team è composto anche da professionisti provenienti dal mondo dei broadcaster e delle produzioni tv. Tra loro: Joe Lewis, da 20th Century Fox e Comedy Central, responsabile delle produzioni originali; Tara Sorensen, da National Geographic Kids Entertainment e Sony Pictures Family Entertainment, responsabile della programmazione ragazzi; Morgan Wandell, da ABC Studios dove ha sviluppato programmi come Ugly Betty e Criminal Minds, responsabile delle produzioni drama.
Si deve forse a loro la scelta di Amazon di non distribuire gli episodi delle nuove serie in una soluzione unica ma di settimana in settimana. A differenza di quello che ha fatto Netflix, sdoganando ufficialmente il binge viewing, l’abbuffata senza vincoli di palinsesto. La scelta di Amazon è meno di effetto ma a mio parere più intelligente e accorta. Chiunque si occupi di televisione conosce l’importanza di creare un appuntamento e di lasciare agli spettatori la possibilità di commentare e condividere sui social, come al bar, lo sviluppo di un programma puntata dopo puntata. Cosa che la natura solitaria e solipsistica del binge viewing esclude a priori.

Ma veniamo al punto: è forse colpa di questi executives se la qualità di Alpha House e Betas è così mediocre? Giunti al termine di questa breve analisi credo si possa affermare che non ci sia una responsabilità decisiva neanche da parte loro. La verità è forse più banale e si può riassumere in questo modo: non è affatto semplice produrre un programma televisivo di qualità, come non è facile vincere lo scudetto al primo anno – nonostante alcuni ci riescano (AMC, Netflix). Senza contare che Alpha House e Betas potranno tranquillamente essere considerate dei successi dal punto di vista di Amazon e delle ricadute su Prime. A ogni modo, mettere in conto dei fallimenti è del tutto naturale. Per quello che ne sappiamo tra le 13 serie e i 31 film in produzione presso gli Amazon Studios, una vera armata, si nasconde il titolo di successo, quello veramente buono, che vincerà i suoi Emmy eccetera eccetera. Chi può dirlo? A questo punto, non so neanche bene se augurarmelo oppure no.

 

Nella foto: una scena di Alpha House