Attualità

L’esorcismo di Lanzarote

Il turista che visita l'isola si crede affascinato da rocce e crateri, ma in realtà sta partecipando a un'esperienza artistica che dice: la natura è terribile.

di Errico Buonanno

Inizia Studio Viaggi, una serie di pezzi incentrati su posti di vacanza, o perlomeno in cui si è stati a passare parte dell’estate, da leggere in queste settimane d’agosto, con cui vi accompagneremo nei prossimi giorni. Buona lettura.

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Lanzarote è un’isola vulcanica dell’arcipelago delle Canarie che il viaggiatore milanese può raggiungere tranquillamente in tre ore e mezza prendendo un volo diretto Ryanair dall’aeroporto di Bergamo-Orio al Serio. Per tutti gli altri, ci sono scali sfiancanti. Il turista curioso può prepararsi al viaggio leggendo i Quaderni di Lanzarote di José Saramago, che non parlano affatto di Lanzarote, Lanzarote di Michel Houellebecq, che la descrive grosso modo come l’isola più noiosa del mondo, e con la visione di Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog, in cui un gruppo di nani fa scempio di maiali e di scimmie in un istituto di rieducazione locale. Perciò, in generale, è meglio arrivare impreparati.

Una volta sbarcati all’aeroporto, e accolti dallo splendido logo «Lanzarote» disegnato dall’artista César Manrique, si può e si deve affittare una macchina – non esistono treni in tutta l’isola – meglio se una di quelle griffate dalle forme dell’artista César Manrique, in cui il turista può trovare un cd che gli farà da audioguida. Quindi si parte. In un nulla spiazzante. «Spiazzante» perché non assomiglia a nessun nulla di cui abbiamo esperienza. Spiazzante perché questo nulla, in realtà, è già stracolmo di cose, ma inerti: pietre nere, colate di lava rafferma, sterpaglie già morte alla nascita, e vulcani, continui. Spiazzante perché si capisce da subito che, in mezzo a quest’isola, il nulla sei tu. Tu uomo, turista, che certo, per tutta la durata del viaggio, avrai la coscienza di non contare un bel niente davanti a questa natura che è perfida. Il che può indisporre un pochino l’umore.

L’isola in cui siamo sbarcati è quella in cui, in una notte terribile dell’anno 1730, la terra si aprì e spuntò all’improvviso una montagna. Per dire. L’isola che per giorni interi, per mesi, per anni, fu devastata da eruzioni incessanti che l’hanno lasciata ricoperta di lava solidificata, sassi sputati come bombe che hanno formato crateri imponenti, e perciò si ha dovunque la certezza che la bellezza di Lanzarote, se c’è, è frutto di un dramma, di un disastro. Questo è il disastro che dovremo affrontare, e andando diretti verso sud, tante sono, da subito, le possibilità di esplorazione. A dieci minuti dall’aeroporto c’è subito la città di Tìas dove sorge la casa di José Saramago: c’è una biblioteca, e soprattutto c’è la possibilità di scoprire che lo scrittore, negli anni del suo “esilio” sull’isola selvaggia, aveva scelto la parte dell’isola meno selvaggia di tutte, perché Tìas sorge a due passi da grandi magazzini, fast food, imponenti concessionarie di auto, e lo scrittore è un fingitore comunque. Accanto alla casa, c’è uno zoo-ranch in cui vivacchia una tigre bianca albina, che però non risulta essere autoctona di Lanzarote e che ha una sorella gemella allo zoo di Bergamo Le Cornelle, poco distante dall’aeroporto di Orio al Serio, e perciò non varrebbe la fatica del viaggio.

Visitandola si percepisce che la bellezza di Lanzarote è frutto di un dramma

Si può andare invece più in là, verso Yaiza, e ammirare la zona dei vigneti. Se si riesce a realizzare che si tratta di vigneti, poiché, visto che Lanzarote è vulcanica ed è battuta continuamente dal vento, i contadini sono costretti a coltivare delle viti bassissime, all’altezza dell’erba (che a Lanzarote non c’è), e per di più all’interno di fosse scavate nel terreno. A un primo colpo d’occhio, così, la zona dei vigneti è una landa grigia piena di buche. In compenso, la malvasia che ne traggono è ottima. Da Yaiza, le scelte sono due. Si può proseguire verso il Giardino dei cactus, una creazione dell’artista César Manrique in cui si ammirano dei cactus di ogni forma e grandezza e ci si sforza di trovarli intriganti, oppure dirigersi verso l’autentica attrazione locale: il Parco Nazionale di Timanfaya, la zona più amena, più marziana, più devastata dai vulcani di tutte.

Dodici euro e si può fare il tour in cammello. Solitamente, a Timanfaya pioviccica, perciò il tour è disagevole. In più, il viaggiatore è convinto di essere Lawrence d’Arabia – i cammelli, malgrado faccia freddo, ci ricordano che siamo a un passo dall’Africa –, si atteggia a esperto, ma presto si accorge che il tour dura solo un quarto d’ora, perché il cammelliere gira l’angolo, fa una salita e ridiscende subito. Il resto del parco lo si gira in pulmino. Si scorrazza tra scene di devastazione geologica, rocce rosse, rocce nere, crepacci impossibili, e l’autista mette la musica di 2001, Odissea nello spazio – Richard Strauss, Also Sprach Zarathustra, op. 30 – per dare al turista almeno un appiglio cognitivo, il senso di qualcosa di già visto, e non lasciarlo completamente perduto in uno scenario di follia naturale. Si assiste a un paio di dimostrazioni: il geiser, la paglia che prende fuoco se posata per terra, polli e bistecche arrostiti grazie al calore del vulcano. Poi si può prendere un caffè o gustare i polli al ristorante panoramico progettato dall’artista locale César Manrique. Che ha disegnato anche il logo di Timanfaya. Che ha progettato il turismo nel parco. Che domina pure il negozietto di souvenir, ovviamente.

S’inizia ad avere un velato sospetto, ma pace. Rimontati sull’auto griffata da Manrique, si può scegliere se raggiungere, in mezz’ora, le altre due grandi attrazioni isolane: la Fundaciòn Cèsar Manrique, oppure la Cueva de los Verdes. La seconda è magnifica: chilometri e chilometri di tunnel sotterranei illuminati ad arte. All’interno c’è pure una sorpresa, ma la guida-speleologa costringe i visitatori a firmare un patto di sangue che li obbliga a non rivelarla a nessuno, perciò niente. Detto questo, all’uscita, non si possono non visitare i Jameos del Agua. Si tratta di un lago artificiale in cui nuotano delle minuscole aragostine bianche e poi, superati dei caffè tra le palme, un piscinotto all’aperto. Chiaramente, è un percorso simbolico (acqua sotto, acqua sopra: interpretazione a piacere). L’ha realizzato Cèsar Manrique.

Ѐ a quel punto che il viaggiatore sprovveduto inizia a dar forma a un pensiero latente. Capisce la trappola, l’anomalia di quest’isola. Perché ci è venuto, veramente? Qualcuno – ma chi? – gliene aveva parlato. Qualcuno – ma quando, esattamente? – aveva portato alle sue orecchie la fama di Lanzarote come meta turistica di grido. Eppure qui il mare, quasi dovunque, è impraticabile. Eppure qui il vento è praticamente continuo. Eppure quest’isola è deserta, e non c’è niente, ed è brulla, e sotto i suoi occhi, sulla destra, si sta creando in questo istante persino un vortice di sabbia che va dal terreno fino al cielo. Come ha potuto considerarla attraente? Chi gli ha fatto l’inception? Il viaggiatore apre la guida, la sfoglia. S’informa frenetico, poi scopre: nessuno veniva a Lanzarote fino a pochissimi decenni fa. Nessuno la citava, la considerava. Nessuno sapeva dell’esistenza di questa terra sfortunata, nel mondo. Poi, all’improvviso, turismo di massa. Voli diretti, dalla Francia, dalla Germania, dal nord Europa, dall’Italia. Il porto turistico, a sud, e i grandi alberghi a cinque stelle – cinque – presso la zona Playa Blanca, piena di ristoranti sushi e pizzerie napoletane. Ma perché? Basta, di nuovo, consultare la guida. La fama è creata a tavolino da un uomo che ha un nome e un cognome: Cèsar Manrique, artista locale.

Lanzarote A Popular Destination For British Holiday Makers

Credevamo di star visitando il trionfo della natura selvaggia. In realtà, adesso è chiaro, siamo nel centro di un esperimento grandioso. Un atelier a cielo aperto, ossia la più folle esperienza artistica del Novecento, in cui siamo solo personaggi. Cèsar Manrique, architetto, scultore, pittore (Arrecife, Lanzarote, 1919 – Teguise, Lanzarote, 1992) abbandonò il suo isolotto per studiare all’estero – al tempo in cui, nel suo isolotto, non c’era assolutamente niente – ma presto tornò con un’idea ben precisa: la sua isola sarebbe diventata la materia da plasmare, la creazione, il suo capolavoro. Se a Lanzarote non c’erano artisti, lui sarebbe diventato l’Artista di Lanzarote. Se Lanzarote era frutto del caos, lui a quel caos avrebbe dato un ordine. Sviluppò un metodo di lavoro “ecologico”, in armonia col territorio. Cioè fece sì che tutta Lanzarote diventasse la sua arte. C’era vento? Piazzò a qualunque rotatoria delle sculture che si muovessero col vento. C’erano solamente cactus? Li ordinò in un giardino. E poi grotte: le riallestì. E poi vulcani: li trasformò in attrazione. Convinse governo e abitanti a giocarsi la carta del turismo, e così quella rappresentazione di angoscia, dolore e distruzione divenne il canto alla sua gloria, per sempre.

Il turista frastornato, che dal suo placido resort avrà raggiunto la piccola tranquillità delle Playas de Papagayo – lì dove almeno si può fare il bagno – riflette così su qualcosa di molto banale: la natura è terribile. Di più: la natura è insopportabile. E l’uomo, che a volte si compiace di credersene molto affascinato, la può tollerare solo in maniera artificiale. Anche quando non lo sa.

Lanzarote era un’isola che portava un messaggio: morte. Ѐ diventata famosa solo nell’attimo in cui questo messaggio è stato mediato da qualcuno. Il turista lo capta, di tanto in tanto, e in quel momento la sua mente si perde, davanti all’orribile maestà del vulcano, davanti ai crepacci nero pece, che hanno già disseminato morte, che significano morte. Ma l’autista del pulmino mette una musica di Strauss, ma il genio turistico di Cèsar Manrique fa cuocere polli sul cratere, ma il vento che spazza e che significa “qui non ci si abita!” fa muovere i ninnoli delle sue sculture, e tutto ciò tranquillizza, e compiace. Così il viaggiatore riprende l’aereo: è sicuro – è probabile – di avere vissuto un’esperienza selvaggia, naturale. Quello che ha fatto, in verità, è stato precisamente l’opposto: ha partecipato a un esorcismo. Ha allontanato dalla mente il demone enorme e spaventoso del grande vulcano che, anche al momento dell’addio, lo sta ignorando, e si è convinto che il caos possa anche essere bellezza. Ma Lanzarote della bellezza se ne infischia, e delle nostre convinzioni, e dell’arte, e continuerà a sterminarci, perché lo sterminio è la sua sola missione.

Cèsar Manrique morì in un incidente d’auto, presso la fondazione che porta il suo nome, sei mesi dopo averla inaugurata. Le rocce laviche ostacolavano la visuale.