Attualità

La variabile Fernando Llorente

Solo qualche settimana fa davano per finita la sua avventura nella Juventus. Ritratto di un vero attaccante boa, uno dei migliori nella sua categoria, uno non per tutti.

di Giuseppe De Bellis

Fa bene a dire: «Sono un giocatore forte». Fernando Llorente risponde così a chi gli chiede che cosa si sente di essere in campo. Critichino pure, gli altri. Critichino quelli che giudicano soltanto dal gol. Ne ha fatto uno in campionato e uno in Champions, ok. Però come ha giocato contro il Genoa? E come ha giocato a Madrid? Bene, anzi benissimo. Per chi ha voglia di vederlo, per chi ha il gusto di osservarlo senza fermarsi al teorema: l’attaccante efficace colui che segna. Quelli, insomma, che si limitano al gol obbligatorio e alla purezza del movimento. Anche Leo Messi non è perfetto né fisicamente né stilisticamente. Fermatevi, prima di essere scontati: nessuno sta paragonando Llorente a Messi. È che prima di criticare bisognerebbe riflettere, prima di giudicare si dovrebbe aspettare. Fernando è un certo tipo di giocatore e va considerato nella categoria della quale fa parte: centravanti perno, che tiene alta la squadra, gioca di spalle fuori area e di fronte in area, non tecnico, forte, presente, utile.

Giocare di sponda è un’arte pallonara troppo spesso sminuita. Però se chiedi a un allenatore se gli piacciono i giocatori che la sanno fare, la sponda, ti dirà di sì.

In questa casella, Llorente è tra il meglio che ci sia. E siccome questa casella è fondamentale nel gioco di molte squadre europee, allora Fernando è importante. Forte, come dice lui di sé. Va accettato prima di tutto. Va capito. Perché quella rigidità nella corsa, quella staticità presunta sono il valore aggiunto. È quel tipo di attaccante che può funzionare anche se resta a secco. Non deve dribblare, saltare l’avversario e segnare. Deve coprire il pallone, tenere i difensori dietro di sé, avvicinarsi alla porta indietreggiando, con un passo da gambero utile, poi decidere: girarsi e calciare, oppure appoggiare dietro per un compagno. Giocare di sponda è un’arte pallonara troppo spesso sminuita. Però se chiedi a un allenatore se gli piacciono i giocatori che la sanno fare, la sponda, ti dirà di sì. Varia il sistema, gli schemi, l’approccio alla porta avversaria. È un’altra soluzione. Llorente è una variabile nuova. Uno che ti permette di attaccare diversamente.

Per cominciare: con lui si alza la traiettoria. A che ti serve avere spinta sull’esterno se non puoi mettere un cross perché non hai chi la colpisce di testa? Era il problema della Juve degli ultimi anni. Matri era un centravanti pure, ma certamente più forte coi piedi che con la testa. Fernando no: 195 è il numero che fa la differenza. Sono i suoi centimetri ed equivalgono alla certezza che lui con la capa la palla la prende. Uno dei due gol finora, l’ha segnato così: cross e girata di testa. Alza sta palla, allora. Perché c’è uno lì, al centro che la può prendere. C’è uno alto, grosso, forte che salta e la prende di testa, oppure di petto, oppure di piede. La prende comunque. È il magnete della bilancia che ha ricominciato a funzionare: i chili fanno presenza, i centimetri fanno speranza. Il pallone è tornato ad aggrapparsi ai lunghi, anzi lungagnoni come dicevano i cronisti dell’era Carosio. Non solo la Juventus: il Bayern e il Borussia che hanno dominato la Champions l’anno scorso, avevano e hanno davanti una boa tipo Llorente. Perché è la certezza, l’appiglio, l’ideale. Uno che sai dov’è, che fa, che vuole. C’è di fronte, di spalle, di forza, di classe. Completo perché segna, salta, prende le botte, le dà, perché tira, accompagna, si trascina due avversari, fa spazio. Perché è sereno, come tutti quelli che stanno lì davanti e non si perdono in mezzo alle maglie degli altri. Gli puoi mettere quattro difensori, lui se ne sta lì, sapendo che è il mestiere suo, questo: l’apice di un’idea, di un modulo, di una formazione. La testa di ponte: ti metti qui e trovi il modo di aprire la strada agli altri. Aspetta il momento giusto per infilarsi in area e calciare, o per fare spazio a qualcuno che entra da fuori.

Chi bolla Llorente come pertica inutile non conosce né lui, né Antonio Conte, né la storia del pallone tutto. Lui non lo conosce perché evidentemente non sa che negli ultimi cinque anni ha segnato almeno 18 gol a stagione (nel 2011-2012 sono stati 29). Non vale dire che la Liga non è come la serie A. È una mezza balla e poi non tiene conto di un dettaglio: Llorente in Spagna giocava nell’Athletic Bilbao, non nel Real o nel Barça che dominano a prescindere. Su Conte, invece, va detto che i giocatori così, lunghi e statici non è vero che non gli piacciano. Uno l’ha sempre avuto, in ogni squadra che ha allenato, dalla serie B alla Champions. Non ce l’aveva solo nella Juve degli ultimi due anni. Per la storia del calcio, invece, non conviene neanche spiegare nei dettagli quanto, come e perché i centravanti perno abbiano avuto importanza.

Allora perché? L’hanno già dato per venduto a gennaio, per inadatto al calcio italiano. Llorente è un obiettivo sensibile. È dannatamente semplice attaccare i giocatori come lui, così poco appariscenti da sembrare inutili. Uno come Tevez (non lui, ma per dire il tipo) fa un dribbling e la gente dice: «Però, guarda quello». Uno come Quagliarella (non lui, ma per dire il tipo), fa una rovesciata e la gente dice: «Ma come fa a tenerlo in panchina?». Con quelli alla Fernando ti devi sforzare un po’ di più. Devi avere voglia di vedere che cosa c’è oltre il gesto tecnico. Devi fare avanti e indietro sulla partita per capire che i loro movimenti sono strategici e funzionali al gioco degli altri. Devi fare lo sforzo di capire che il gol a Madrid non è soltanto un tap-in dopo la respinta del portiere. Perché bisogna esserci lì, bisogna avere la prontezza di calciare senza aspettare e senza cercare il colpo a effetto. L’anno scorso la Juventus non aveva nessuno che facesse quei gol. Non aveva nessuno che facesse la sponda. Saranno dettagli. Sono dettagli importanti.