Attualità

La strana carriera dei Duplass

Il cinema indie americano, i suoi difetti, i suoi sottogeneri come il Mumblecore

di Federico Bernocchi

Alcuni mesi fa, per l’uscita nelle nostre sale del film Paradiso Amaro di Alexander Payne, ci eravamo interrogati sulla definizione di cinema indipendente americano. Abbiamo già spiegato come questo sia il genere più difficilmente riconoscibile all’interno della produzione cinematografica statunitense e di come, con il passare del tempo, le sue caratteristiche formali siano stato inglobate dal cinema mainstream, trasformandolo di fatto in una sorta di contraddizione in termini. Ciò che un tempo, per una lunga serie di ragioni tematiche ed economiche, era effettivamente indipendente si è trasformato in un genere cinematografico dalle chiare coordinate estetiche riutilizzate dall’industria cinematografica ufficiale. Facciamo un esempio chiarificatore: Clerks diventa Little Miss Sunshine, con tutto quello che ne consegue. Per un lungo periodo dunque, diciamo dalla fine dei ’90 in avanti, quello che poco tempo prima era il cinema indipendente americano è di fatto scomparso lasciando il posto a una sua sorta di innocua imitazione. L’ultimo sussulto lo si ha avuto con la comparsa del Mumblecore.

La parola in questione, coniata dal montatore audio Eric Masunaga, indica una serie di film a bassissimo budget, solitamente girati in digitale, in cui personaggi di rara mediocrità si esprimono solo con dei borbottii, dei mumbles. Si vuole far nascere il genere nel 2002 con il film Funny Ha Ha di Andrew Bujalski, considerato il Padrino del Mumblecore. Si prosegue negli anni subito successivi con una sorta di piccola esplosione del genere che vive un piccolo momento di gloria grazie a un piccolo ma agguerrito gruppo di cineasti. Sono gli anni di LOLHannah Take The Stairs di Joe Swanberg, di Quiet City di Aaron Katz, di In Search of a Midnight Kiss di Alex Holdridge e di molti altri ancora. Piccoli film scritti, diretti, prodotti e interpretati sempre dagli stessi cinque o sei amici e che riescono a riportare in auge il concetto di indipendenza all’interno del mercato cinematografico statunitense. Il Mumblecore – pur essendo, parere del tutto personale, noioso come poche altre cose al mondo – riesce a diventare effettivamente qualcosa di unico, un mondo a parte nel cinema a stelle e strisce. Non è tanto le storie che si raccontano, simili per certi versi a quelle già affrontate dalla generazione precedente di cineasti indipendenti (indovinate? Trentenni in crisi con storie d’amore in crisi e genitori in crisi), ma lo stile e la realizzazione sono effettivamente personali. Neanche in questo caso possiamo dire “nuovi”(se escludiamo il fatto che all’epoca non c’era questa confidenza con il digitale, lo stile è lo stesso: camera a mano e sciatteria formale di fondo elevata a forma distintiva) ma è innegabile il Mumblecore ha una sua riconoscibilità.

I nomi più interessanti di questo genere cinematografica sono, a mia avviso, i fratelli Mark e Jay Duplass. I due esordiscono nel 2005 con il film The Puffy Chair, road movie che vede due fratelli impegnati in un viaggio per andare a recuperare la replica di una vecchia poltrona che usava loro padre. Il film è piuttosto carino, ma il meglio deve ancora arrivare. Tre anni dopo i due si presentano con Baghead, ed è qui che le cose cambiano. Il film racconta la storia di una doppia coppia di amanti male assortita che si rifugia insieme per un weekend in un’isolata casetta di campagna. Lo scopo è quello di farsi venire un’idea per un piccolo film horror indipendente con cui vorrebbero poi fare i soldi. Inutile che stia qui poi a raccontarvelo, ma le cose prenderanno una brutta piega. Il secondo film dei fratelli Duplass, oltre a non parlare necessariamente di gente depressa e in crisi, prende le distanze dalla vecchia (e nuova) generazione di cinema indipendente. Si capisce che per i fratelli Duplass il Mumblecore è una fase di passaggio, un genere sfruttabile per arrivare a fare altro, ovvero giocare nel campionato dei grandi. Non è un caso che dopo Baghead le cose siano ancora una volta cambiate.

Nel 2010 i Duplass fanno uscire Cyrus. Il film viene presentato al Sundance Film Festival di quell’anno e addirittura è stato avvistato da qualcuno di molto attento nelle nostre sale cinematografiche nel dicembre dello stesso anno. Un bel successo per due registucoli indipendenti. Ma guardiamo da vicino il film: il cast è composto da Marisa Tomei, Catherine Keener, Jonah Hill e John C. Reilly. Ancora: non male per due registi indipendenti. Tanto più che la produzione di Cyrus e affidata ad altri due fratelli diametralmente opposti al cinema dei Duplass. Parliamo di Ridley e Tony Scott che con la loro Scott Free decidono di dare una chance a quello che per loro è “il nuovo cinema indie”. In realtà quello che fanno i fratelli Duplass è piegarsi a quelle che sono le aspettative dei loro produttori e del loro ipotetico pubblico e decidono di realizzare il più classico dei filmetti indie che vi possiate immaginare. Certo, poi verremo a sapere che sul set i due fratelli lasciano molto spazio all’improvvisazione e che il loro stile in sala di montaggio è unico, ma Cyrus non ha nulla di nuovo. La storia è quella di un uomo (Reilly) che deve lottare con il figlio (Hill) della donna che ama e con vorrebbe instaurare una relazione (Tomei). Lo stile, le chiacchiere e le scelte registiche urlano 1996 a pieni polmoni, solo che al posto di qualche attore sconosciuto ci sono tre attori candidati all’Oscar e una che la famosa statuetta se l’è pure portata a casa. Sono in pochi ad accorgersi della truffa operata dai due fratelli, che ovviamente vanno avanti per la loro strada.

Da poco è disponibile in DVD il loro ultimo film Jeff, Who Lives At Home. Esiste anche il titolo in italiano, A Casa Con Jeff, cosa che mi porta a pensare che sia prevista una sua distribuzione nelle nostre sale, ma ancora non c’è una data. Anche questa volta il cast è di prim’ordine: Jeff è Jason Segel e al suo fianco c’è suo fratello Ted, interpretato da Ed Helms, e la madre Sharon, che ha il volto di Susan Sarandon. Come nel loro ormai lontano esordio The Puffy Chair, si insiste su e due fratelli incredibilmente diversi l’uno dall’altro. Jeff è ossessionato dal film Signs, quella ciofeca di M. Night Shyamalan, fuma erba appena possibile ed è convinto che nulla succeda per caso. Ted invece è semplicemente un cretino che va a pranzo da Hooters e s’è indebitato la vita per possedere una Ferrari. Durante una strana giornata, indovinate un po’, i due “poi ti amo, poi ti odio, poi ti apprezzo”. Jeff, Who Lives At Home è una commediola americana delle più classiche, che non riesce a premere come vorrebbe sul tasto dell’umorismo e che si rifugia ancora una volta dietro uno stile che ormai è solo ed unicamente apparenza: goffi zoomettini, camera a mano, fotografia desaturata e tema indie electro tenero. Tutto già visto, tutto già fatto e, ciò che è peggio, tutto quello da cui i Duplass e gli alfieri del Mumblecore sembravano volersi smarcare. Peccato.