Attualità

La sinistra e Checco Zalone

La crisi della sinistra rivista attraverso i film di Checco Zalone, quelli senza velleità di attrarre l’«interesse culturale», e che per qualcuno separano l'Italia "migliore" da quella irredimibile. Un capitolo di Quando c'eravamo noi, di Andrea Minuz.

di Andrea Minuz

Pubblichiamo di seguito un estratto da Quando c’eravamo noi, ebook di Andrea Minuz, docente universitario de La Sapienza di Roma, uscito in questi giorni per Rubbettino. Parla, come recita la sua tagline, di «nostalgia e crisi della Sinistra nel cinema italiano. Da Berlinguer a Checco Zalone».

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Nel suo recente libro Le catene della sinistra, Claudio Cerasa la chiama «sindrome Checco Zalone». Più o meno la paura di uscire dalla vocazione minoritaria, di lasciarsi alle spalle la diversità morettiana.  Non tanto per il desiderio di essere come tutti, ma per provare a governare il Paese. Cerasa riprende anche la lettura di Giovanni Orsina, autore di un volume formidabile, Il berlusconismo nella storia d’Italia. La tesi di Orsina è semplice, eppure decisiva: «La sinistra si è caricata sulle spalle un numero così elevato di pezzi dell’apparato statale da essere diventata sinonimo della parola “Stato”. E così, anche se non governa, l’elettore la percepisce come una forza non d’opposizione. E, rappresentando in tutto e per tutto lo Stato, è come se si trovasse sempre al governo».

Si può aggiungere che, come sinonimo di Stato, la sinistra è (era?) vista come una forza di conservazione, un freno vecchio. Una cultura politica con lo sguardo rivolto all’indietro, come molti dei film che abbiamo discusso sin qui. Il cinema italiano degli ultimi trent’anni, un cinema imparentato da cima a fondo con lo Stato, ha svolto un ruolo non indifferente nella costruzione di questa percezione. La sinistra è cultura. La cultura in Italia è lo Stato. La Sinistra è lo Stato. E poi c’è Checco Zalone.

La sinistra è cultura. La cultura in Italia è lo Stato. La Sinistra è lo Stato. E poi c’è Checco Zalone.

Emarginato dall’«interesse culturale», categoria grazie alla quale si accede al finanziamento statale dei film, ma legittimato dagli incassi. Cioè da quella cosa terribile chiamata «mercato» e «gusto del pubblico».
Ora, a quelli che «Zalone è-un-abisso-di-stupidità» basterebbe già indicare la locandina di Sole a catinelle. I padri seduti sulle spalle dei figli come sintesi visiva di una storia che a suo modo parla della «crisi» del nostro Paese. Basterebbe dire che il sofferente regista italiano col turbante in testa che gira Eutanasia mon amour e rifà il ciak perché nella scena «sente puzza di borghesia» un bel po’ se lo meritano.

Bisognerebbe dirgli che obiettare a un film con dentro Equitalia, lo Yoga, l’eutanasia, la Cgil, «Eva Hegel», le magliette della marca «Che Guevara», il Molise, «Love Boat», la cassintegrazione, Portofino, la massoneria, il terzomondismo con l’aragosta e le aspirapolvere della Folletto esposte come l’orinatoio di Duchamp da qualche parte nel Chiantishire, che obiettare – dicevo – a un film così di reggersi solo sulle gag o imputargli «una sceneggiatura che si perde per strada» (Il Giornale) è come dire che La Grande Bellezza è un film troppo incentrato su Roma.

Si potrebbe anche ricordare che Zalone e il regista Gennaro Nunziante dirigono i bambini meglio di parecchi registi italiani da Festival. Ma siccome tutto questo non si può fare, perché poi si finisce da un luogo comune all’altro e Sole a catinelle rischia  di diventare un capolavoro anti-intellettualistico, liberatorio, reazionario e post-ideoloGGico di quelli preda dello «stracultismo» che piacciono anche a Žižek e grazie al cielo non è ancora così, allora bisogna fermarsi alle constatazioni.

Dire che i suoi quasi venti milioni al primo week-end (per intenderci, meglio di Avatar) sono una pesca a strascico a raccogliere la pancia del Paese per alcuni, e una manna per tutto il cinema italiano per altri. Ora, a parte che a quelli che dicono “pancia del Paeseci pensa già Zalone a sbeffeggiarli nel film, il discorso della boccata d’ossigeno per il cinema italiano non vale solo per gli esercenti, che pure dovrebbero fargli un monumento. Negli anni Sessanta, quando avevamo un’industria del cinema italiano non ancora vampirizzata dalla politica e dallo Stato, potevamo produrre i film di Antonioni – quelli che incantavano i critici francesi ma al cinema li vedevano in quattro – grazie agli incassi di Totò.

Negli anni Sessanta, quando avevamo un’industria del cinema italiano non ancora vampirizzata dalla politica, potevamo produrre i film di Antonioni grazie agli incassi di Totò.

Dire invece che «Zalone è sintomatico del Paese in cui viviamo» significa – forse non sempre ma qualche volta sì – avere bisogno del pubblico di Zalone per sentirsi più intelligenti.

Alan O’Leary, che ha studiato il caso dei nostri cinepanettoni, ha mostrato quanto il successo di questi film funzioni anche in modo catartico, cioè come capro espiatorio di una delusione politica. Il nesso cinema d’evasione/condizioni politiche o metafora del Paese è talmente radicato che la deludente resa al botteghino del cinepanettone del 2011 portò Curzio Maltese a scrivere cose come: «Il crollo del cinepanettone è forse il più clamoroso segno della fine dell’epoca berlusconiana. Il cinepanettone sta al ventennio berlusconiano così come i telefoni bianchi stanno al ventennio fascista»

Si arriva così al paradosso. Più si rimproverano questi film di superficialità e grettezza più si finisce con dargli importanza maggiore di quella che hanno. Perché «per i loro detrattori diventano simboli discorsivi da utilizzare nella disputa per l’auto-definizione dell’Italia e degli italiani», che da noi va avanti almeno dai tempi di Massimo D’Azeglio. E come dimostra Curzio Maltese, i cinepanettoni funzionano meglio per questo che per le previsioni elettorali.

Italiani giusti e italiani irrecuperabili. Però, quando andai al cinema a vedere Sole a catinelle non avrei saputo distinguere i primi dai secondi.

Italiani giusti e italiani irrecuperabili. Però, quando andai al cinema a vedere Sole a catinelle in una sala insolitamente piena per il lunedì, eta media sui cinquant’anni con punte di ottantatenni che temevo ci restassero secchi per le convulsioni, non avrei saputo distinguere i primi dai secondi.

Rispetto al cinepanettone, la novità è che Pietro Valsecchi, produttore di Zalone e di tre quarti della fiction italiana, ha optato per le larghe intese. «Questo è un successo di tutti e per tutti gli operatori di cinema che vogliono fare bene», così ha detto. Zalone l’ha preso in parola: «Non andate a vedere il mio film. Andate a vedere Battiston, quel veneto bravissimo. Ho visto il trailer (di Zoran), deve essere proprio un gran bel prodotto». Una battuta intelligente, un endorsement. Anche se il miracolo di una intercambiabilità tra i due spettatori, quello di Zalone e di Zoran, è forse un miraggio.

Come un miraggio per il cinema italiano, e non solo per il cinema, resta quella che è la dichiarazione più bella di Zalone. Così insolita dalle nostre parti che speriamo di sentirla più spesso: «Spero che il mio film faccia un sacco di soldi».
 

Nell’immagine: una scena di Sole a catinelle.