Attualità

La sinistra che faceva ridere

Ritratto sentimentale della satira politica dei programmi di Serena Dandini, da La tv delle ragazze a L'ottavo nano.

di Giulio D'Antona

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Ho imparato la politica in casa. E quando la impari in casa è sicuramente di sinistra, per simpatia o per rifiuto. La prima cosa curiosa della mia educazione politica è che per la maggior parte è passata attraverso la televisione. La stessa televisione che si era appena emancipata e solo da pochi anni aveva ammesso una gamma di luci, colori e pelli nude al limite dello scandaloso, dando un altro significato alla nostalgia del bianco e nero. I programmi erano diventati una successione di flash rutilanti e stacchi di coscia negli stacchetti interpretati da corpi di ballo sempre più numerosi e provocanti. Tute in licra illusorie, poi trasformate in vere minigonne, pezzi unici e bikini. Accenni di spogliarelli e i fatti di tutti in onda. I telegiornali abbandonavano la loro impostazione distaccata e composta per abbracciare una visione, se non di parte, fortemente influenzata. Non rimaneva niente di sacro, nemmeno la televisione stessa, intesa come mezzo che a un certo punto aveva deciso di diventare nazional-popolare nel senso più profondo del termine, quello educativo. E in un contesto del genere, in cui chiunque è libero di dire quasi qualsiasi cosa, di vestirsi, travestirsi, cambiare opinione a seconda della camera che lampeggia, non poteva che formarsi quella che poi avremmo imparato a chiamare “satira”.

La seconda cosa curiosa della mia educazione politica è che per tutti gli anni che ha impiegato a modellarmisi intorno la distinzione tra destra e sinistra è stata nettissima. Non ho fatto in tempo a vedere il grande Pci, lo spacco e il compromesso storico, ma in un periodo che presagiva alla deriva centrista incombente, capire da che parte stare era comunque piuttosto facile: a sinistra si rideva, a destra no. La satira televisiva di sinistra era contemporaneamente disfattista e spensierata, auto-commiserante e ironica. Feroce nei confronti della parte avversa ma anche dei capisaldi della propria politica interna. Non aveva remore e non voleva avere rimorsi, faceva il lavoro per cui era stata inventata. Dall’altra parte, in un misto di vocette stridule tinte di accenti del centro Italia, maschere di lattice e battute scontate, si delineava un filone che più che divertire metteva tristezza e che avrebbe lasciato l’amarezza appiccicata al nome di un teatro e di una compagnia di Roma. L’imprevedibile piega degli eventi avrebbe fatto sì che, dopo poco più di un decennio di satira politica fiorente, fosse destinato a rimanere nella comicità a venire soprattutto il grottesco, in nome di una par condicio tanto ostentata quanto assurda.

Con ordine: era un martedì di autunno del 1988 quando per la prima volta su Rai3, al posto dell’affabile e aggraziata signorina Buonasera, ad annunciare la programmazione compariva un uomo in baffi e un grosso papillon leopardato: Francesco Vairano. Prima di cominciare a parlare, aspirava dalla sovrimpressione una serie di scritte colorate, poi si rivolgeva al pubblico con fare cordiale, solo vagamente distratto dagli avanzi di scritte che non era riuscito a togliere dallo schermo: «Se siete stufi dei soliti programmi pieni di paillettes, lustrini, giochini telefonici e donnine seminude, siete approdati sulla rete giusta». Dopo di lui di maschi se ne sarebbero visti ben pochi — per meglio dire: nessuno — per una cinquantina di minuti, era iniziata La tv delle ragazze.

L’idea era venuta dalla necessità di mettere Rai3, che presto sarebbe diventata anche grazie a operazioni come questa la televisione di riferimento per gli italiani di sinistra, nel radar dei telespettatori. Angelo Guglielmi era da poco diventato direttore di rete e nutriva una sana passione per la Tv pubblica, tanto da voler modellare il canale Rai in qualcosa che le assomigliasse il più possibile. Così aveva dato carta bianca a Bruno Voglino che a sua volta aveva sguinzagliato le tre autrici che avrebbero inaugurato un’epoca, lasciando che almeno una di loro prima o poi mettesse faccia e voce a disposizione non soltanto di un genere televisivo, ma di un modo di fare televisione: Valentina Amurri, Linda Brunetta e Serena Dandini. «Volevamo fare un programma con sole donne — ha detto Voglino in un’intervista a RaiStoria — perché le belle ragazze non fossero relegate al ruolo di abbellimento che la televisione di allora le riservava». Quelle «belle ragazze» pescate da Amurri e Dandini nei teatri di Roma, rappresentavano il nucleo fondamentale di un format in divenire, oltre che una fonte di comicità pulsante mai sfruttata prima: Cinzia Leone, Alessandra Casella, Lella Costa, Francesca Reggiani, Angela Finocchiaro, Maria Amelia Monti e così via, passando per Susy Blady, Monica Scattini e dalla seconda edizione, con un’aura da capostipite, Sabina Guzzanti.

Man mano che il pubblico cresceva, si riconosceva e si formava attorno agli sketch che componevano il programma, cambiava il linguaggio e il modo di fare comicità, assumendo sempre più i contorni di quello che sarebbe stato negli anni a venire. La tv delle ragazze era un manifesto femminista libertario. Un affronto alla televisione maschilista sottolineato finemente dalla mastodontica casa di Barbie che faceva da set alla seconda edizione, nella primavera del 1989, la cui satira si rivolgeva soprattutto all’ambiente che autrici e attrici — con l’eccezione del già citato Vairano e poi di un grande Giorgio Tirabassi — si trovavano attorno: Angela Finocchiaro che si getta da un aereo al grido di «Gardenia pocket!», salvo poi rendersi conto che un assorbente non la proteggerà se si schianta al suolo, i nonsense linguistici di Francesca Dellera nell’interpretazione di Cinzia Leone, la ferocia rampante di Lilli Gruber imitata da Alessandra Casella. Televisione che rideva della televisione, senza mai parlare di se stessa. Un gioco di schieramento, una presa di posizione netta e inequivocabile della quale oggi, permettetemi, possiamo sognarci. Questa satira politica interna, in fondo, era l’incubatore perfetto per un nuovo modo di prendersi gioco delle istituzioni ad alti livelli.

_MG_4765 copiaTutto quello che aveva funzionato di La tv delle ragazze è andato a finire in forma di frattaglie televisive che nessuno nella vita dovrebbe mai essere costretto a vedere in Avanzi, programma varato nel 1991 con la necessità, più che l’idea, di fare il passo oltre. Trascendere al sentimento femminista per abbracciare una libertà d’espressione ancora più universale. «Forse eravamo gli unici a poter fare un programma veramente libero e giovane», avrebbe detto Sabina Guzzanti decenni dopo, rimettendo assieme parte dei protagonisti di quegli anni in Le ragioni dell’aragosta. Il cast era cresciuto, ammettendo quelle che le autrici definivano «quote blu», gli uomini, e aveva incominciato a imbarcare una vena politica decisamente più marcata, figlia di tempi incerti, durante i quali si faceva fatica a distinguere i buoni dai cattivi, perché i vecchi buoni diventavano cattivi e di nuovi buoni non se ne vedevano all’orizzonte. Nessuno era più al sicuro dalla politica, men che meno la televisione che, forte della sua libertà super partes, era a quel punto quasi tenuta a prendere una posizione.

L’esplosione satirica di Avanzi non è stata una cosa immediata, ma un processo graduale cominciato idealmente con la comparsa — sofferta, a quanto pare: «Abbiamo passato l’intera giornata a cercare di convincerlo a partecipare, non ne voleva sapere», ha dichiarato in proposito Linda Brunetta — di Corrado Guzzanti, fratello minore di Sabina. All’inizio era tutta una questione di frecciatine, battute accennate e giochi di parole, poi, col tempo, si è trasformata nell’azzeccatissima parodia di Vittorio Sgarbi, nel giornalismo pavido e servile di Pier Francesco Loche, nella Alessandra Mussolini di Cinzia Leone. Nel comunista abbandonato interpretato da Antonio Catania e costretto a cercare passaggi di fortuna dai vari partiti, non trovando più il suo Pci e non riconoscendo l’allora neonato Pds. Nelle finte pubblicità dei Broncoviz (al secolo: Maurizio Crozza, Marcello Cesena, Carla Signoris, Ugo Dighero e Mauro Pirovano). La prima Repubblica si sgretolava sotto i colpi della sua stessa cattiva politica e negli studi della seconda serata di Rai3 si partorivano idee come “L’antica segreteria del corso”, sketch nel quale alcuni avidi socialisti tardo-ottocenteschi si spartiscono dessert delicati dai nomi improbabili: «Bobò», la «craxata» e soprattutto l’«appaltato al caffè corrotto con cioccolato tangente». Il tutto siglato dal motto «Le stesse mani in pasta dal 1892». Non era il lancio delle monetine fuori dall’hotel Raphael, forse, ma non ci andava tanto lontano.

In tre edizioni, dal 1991 al 1993, Avanzi è stato il perno, la consacrazione e l’affermazione di un gruppo affiatato. Ha scolpito nel freddo e malleabile marmo televisivo alcuni dei tormentoni più ripetuti e ha elevato Rai3 ad alma mater della satira intelligente, informata e soprattutto di sinistra. La formula era piuttosto semplice, costruita sull’abilità di presentatrice/ammaestratrice di pazzoidi di Serena Dandini, che da qui in poi sarebbe diventato il volto unico e riconoscibile delle infinite sequenze di sketch che avrebbero alimentato le varie versioni del programma. Ma soprattutto sarebbe stata la voce della ragione, netta ed equilibrata ma non esente dalle prese di posizione, che interagisce, interrompe e viene interrotta nel continuo gioco a chi parla più chiaro, nel flusso di materia dilagante che componeva il format. Lei stessa avrebbe accompagnato la banda nel passaggio in prima serata, sotto un altro titolo ma senza cambiare gli intenti: nel 1994 nasceva TunnelLa tv delle ragazze presenta Avanzi che presenta Tunnel», recitava il lancio, a indicare la diretta discendenza) e la conversione politica era finalmente ultimata.

Corrado Guzzanti rivolge un saluto pseudo-massonico (che suona più o meno come “Fzù, fzù”) al pubblico e poi in direzione dell’eminenza grigia al di fuori dello schermo. La voce nasale, il tono servile e lo spiccato gusto per il grottesco non lasciano dubbi nel riconoscere Emilio Fede in una delle maschere più calzanti della storia della televisione italiana. Il finto telegiornale di Guzzanti era caustico e non si risparmiava niente, il tenore delle notizie rasentava il gore — «Tranci di minorenni al mercato del pesce”, «Bambine cieche che si fanno la doccia» ma soprattutto la gioia incontenibile in abiti da pretoriano dopo la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi — e la satira era assoluta. A questo punto non esistevano più barriere politiche e l’appartenenza era evidente: da una parte la comicità si rivolgeva criticamente alle colonne degli ignavi partiti di sinistra e dall’altra attaccava senza esclusione di colpi il centrodestra populista e i rigurgiti fascisti dei più estremisti. Tra gli spot elettorali del tenore di “Sforza Italia” e l’imitazione di Berlusconi a opera di Sabina Guzzanti, il Bossi di Corrado e il politicante generalista di Loche, la commissione di vigilanza Rai era stata fin troppo permissiva e infatti la sospensione arrivò nel marzo del ’94, attorno alle elezioni. Il format, intanto, si era trasformato in un marchio di fabbrica: un programma fatto di continue interruzioni, di collegamenti mal riusciti e rimpalli politico sociali, che ha ritrovato il suo pubblico dopo la rimessa in onda, voluta a furor di popolo.

A questo punto appariva chiaro che la comicità di Serena Dandini e compagni d’armi era dedicata a un campione di spettatori vasto ma particolare. Gli elettori di sinistra volevano vedere programmi che gli si rivolgessero direttamente, che scherzassero sulle loro mancanze e che ridessero di quelle degli avversari. Volevano sentirsi riflessi nel mezzo televisivo, non raccontati. Era uno dei modi per marcare l’identità perduta puntando verso il centro, forse. Era una questione di schieramento, sì. Erano programmi di parte, certo. Ma scegliere una posizione era l’unico modo per rendersi liberi di prendere in giro su vasta scala, di fare ironia, di concentrarsi sulla politica per ripulirla dal grottesco e lasciare soltanto la lisca dell’oggettività. Loro lo sapevano e lo sapevano fare.

Tunnel ha chiuso dopo una stagione di quindici puntate, nella primavera del 1994, e in qualche modo anche quel genere di satira ha cominciato ad annacquarsi, a diluirsi, a perdersi. Nel 1997 è venuto il Pippo Chennedy Show, con qualcosa di diverso: rimanevano intatti il talento e la sincerità dei protagonisti, ma era cambiata la rete, da Rai3 a Rai2, e così si era perso un po’ quel senso di appartenenza e di protezione che fino ad allora era aleggiato sui teatri di posa. Sabina Guzzanti continuava a battere le campane politiche inaugurando nuove imitazioni: Rocco Buttiglione e Massimo D’Alema, tra gli altri. Corrado lasciava ai posteri personaggi come Quelo, Gianfranco Funari e il poeta Brunello Robertetti. Si erano aggiunti alla banda Neri Marcorè, nei panni di Pierferdinando Casini, Antonella D’Ausilio, Rocco Barbaro e si era affermato Marco Mazzocca come degna spalla sacrificale. Però forse il pubblico era cambiato, forse il livore politico degli anni precedenti si era sgonfiato, forse gli spettatori avevano cominciato ad abituarsi a una realtà amministrativa abbastanza imprevedibile da superare la finzione. Fatto sta che le cose, pur rimanendo ben all’interno di una cornice brillante e più colta di quanto offra il resto della Tv, non erano più le stesse.

Verso la fine degli anni Novanta si è cominciata a diffondere la stralunata idea che la comicità non dovesse offendere. Così i comici hanno preso a fare a gara a chi sfoggiava il disclaimer più colorito per spiegare che non c’era niente per cui prendersela, che nelle imitazioni non c’era ombra di cattiveria e che le battute andavano trattate come tali, non come emendamenti. Era cominciato, insomma, quel processo tristemente irrefrenabile che nel giro di poche stagioni avrebbe portato alla convinzione che la televisione comica italiana avesse il dovere di essere equidistante dalle parti. E così il modello è diventato Fiorello che nel 2009 scherzava con Gianni Alemanno ripetendo decine di volte il tormentone «Non se la prenda, signor sindaco», come se fosse quella, la battuta, Alessandro Siani che all’ultimo Sanremo sfoggiava un cabaret neutralmente offensivo per l’umorismo grasso del popolo non abbastanza bue da non prendersela e quella strana deriva catechista che ha cambiato per sempre Roberto Benigni.

Non molto tempo fa, sul Foglio, è comparso un lungo articolo in cui Fabiana Giacomotti esaltava senza mezzi termini l’abilità — sacrosanta, per carità — di Virginia Raffaele di «far ridere senza acrimonia». La neutralità ostentata accanto a una bellezza che Giacomotti definisce «da passerella» e che, se paragonata alla convinzione iniziale che l’abilità delle interpreti di La tv delle ragazze dovesse andare ben oltre la loro grazia, dimostra quanto ci troviamo agli antipodi ideologici rispetto a quell’ormai lontano 1988. Come se il compito dei comici fosse astenersi, come se la televisione investisse ognuno di una professione di neutralità politica e personale, per la quale tutti debbano stare simpatici a tutti e il Paese non debba esistere al di fuori del Paese reale, dove tutto è concesso purché non venga rivolto a un pubblico troppo ampio.

A questo punto della storia della televisione che si è cominciato a parlare di Berlusconi come motore unico della satira di sinistra.

Dopo la chiusura del Pippo Chennedy Show, sono trascorsi tre anni e ci è voluto un cambio di millennio e di regia — dopo tredici anni non era più Franza Di Rosa a dirigere, ma Igor Skofic — prima che incominciasse L’ottavo nano e in Tv si tornasse al di sopra dei livelli minimi della satira politica. Certo, niente a che vedere con gli esordi, ma lo spirito del gruppo storico era invariato e la linfa comica scorreva quasi inalterata. È a questo punto della storia della televisione che si è cominciato a parlare di Berlusconi come motore unico della satira di sinistra, dimenticandosi che per molto tempo il lavoro di comici e imitatori non aveva avuto niente a che fare con lui. Ed è a questo punto che la “maledizione di B.” ha cominciato a reclamare le sue vittime, ponendo un unico bersaglio e un’unica condizione: quella di non esagerare mai, pena la radiazione dagli schermi. L’ottavo nano procedeva e si incagliava: Neri Marcorè faceva Maurizio Gasparri, Corrado Guzzanti si scatenava con Francesco Rutelli, Fausto Bertinotti e Gianfranco Funari e Caterina, la più giovane dei fratelli Guzzanti si affermava. Intorno giravano Marina Massironi, Ficarra e Picone e Giobbe Covatta. Mentre fuori dallo studio cresceva una sorta di accettazione bonaria che limitava la comicità allo sfottò da cabaret e si incarnava nella passione popolare per programmi à la Zelig, che non risparmiavano nemmeno vecchie rocce come Claudio Bisio e Gioele Dix.

Come un ultimo singhiozzo di ribellione ha fatto che sottolineare i tempi duri, una finta fiction su Padre Pio attribuita a una co-produzione Rai, Mediaset e Telemontecarlo ha risvegliato l’ira dei cattolici e l’attenzione della commissione di vigilanza, che ha riportato L’ottavo nano e i suoi protagonisti nel mirino della sospensione. La genialità dei nuovi spot elettorali — su tutti: «La casa delle libertà, facciamo quello che cazzo ci pare» — e la scarsa predisposizione all’accettazione della mannaia garantista, hanno chiuso il programma all’inizio della primavera del 2001, assieme a un’epoca e a un modo di fare televisione impossibile da riesumare.

Serena Dandini ha cambiato un paio di reti e abbracciato nuovi format, rimanendo legata a una Tv colta e approfondita come ormai se ne trova raramente, con l’innata propensione per uno spettacolo che sia di intrattenimento e di informazione. Gli altri si sono sparsi qui e là, in una diaspora che gli orfani possono comprendere. Sabina Guzzanti ha trovato la sua dimensione documentaristica, Corrado continua a far ridere in quel suo modo tagliato con l’accetta, Loche sembra che si sia ritirato a vita quasi privata in Sardegna. Qualcuna delle ragazze è rimasta a teatro, qualcun’altra è scomparsa da poco. Quello che è certo è che sono dieci anni che l’orgoglio delle ideologie manca dagli schermi, nel bene e nel male.

Per tornare alla mia educazione politica: se mi chiedessero adesso e a bruciapelo di elencare le immagini che più mi hanno influenzato mentre mi formavo un’opinione, direi i funerali di Berlinguer, le lacrime di Occhetto, l’espressione di D’Alema quando piega il labbro superiore e tira i baffi in dentro e poi una lunghissima distesa di fermo immagine tratti da quei programmi di Rai3. La loro esagerazione scriteriata e l’equilibrio ostentato della Dandini. La sua pazienza, che non era rivolta tanto ai compagni di spettacolo, quanto al Paese su cui tutti loro facevano ironia, alla politica e alla società, che di quell’ironia probabilmente aveva bisogno in un periodo di grande confusione e che ora che l’ha persa è più confuso e offuscato di prima, solo che non ha più i mezzi per accorgersene.

Nell’immagine in evidenza: Corrado Guzzanti è Quelo, personaggio lanciato nel Pippo Kennedy Show.