Attualità

La sindrome da Taylor Swift

Fenomenologia della nuova star del pop, ex cantante country, cool ma con l'anima da ragazza della porta accanto.

di Mattia Carzaniga

Forse un giorno vi chiederanno: dov’eravate la settimana in cui il disco di Taylor Swift ha venduto un milione e duecentottantasettemila copie? Non succedeva dal 2002, quando Eminem era ancora Eminem (e da noi i Matia Bazar vincevano il Festival di Sanremo). E difatti l’episodio è già finito nei libri di storia, che oggi sono i test di BuzzFeed. L’album non a caso si chiama 1989, anno in cui incidentalmente è caduto il muro di Berlino. Gli americani (e non solo loro) lo ricorderanno come anno di nascita di Swift, nuova fidanzatina nazionale.

In epoca di crisi, 1989 è il feel good album di cui avevamo tutti bisogno. Anche il primo singolo, Shake It Off, parte dall’autobiografia dell’autrice (lei ci tiene sempre a ricordare che i pezzi se li scrive da sola) e diventa mantra collettivo. «Dicono che ho la testa vuota, e io cosa faccio? Mi faccio scivolare tutto addosso». Nel video della canzone, Swift interpreta la parte della ragazza simpatica, buffa, lontana da ogni forma di gattamortismo. Quella che non va a tempo e inciampa, fa le faccine. «È una delizia», mi fa un’amica che solitamente ascolta solo musica elettronica islandese. I soliti geniali autori del Saturday Night Live hanno dedicato uno dei loro soliti geniali sketch proprio a questo: si sono inventati la Swiftamine, medicina da assumere per via orale che ti prepara al momento in cui sentirai una canzone di Swift e dirai: «Però, mica male». Cominciando, inconsapevolmente, a ballare. Ultimamente capita a chiunque.

Taylor Swift, 25enne miliardaria, è frutto di un equivoco, e anche per questo sono pazzo di lei. È nata a Reading, Pennsylvania, ma è diventata famosa da adolescente come reginetta country di Nashville. Ha fatto i soldi con le ballad da stradone del Midwest e ci ha costruito sopra, oggi, un impero pop. Agli ultimi Country Music Awards, i tamarrissimi Carrie Underwood e Brad Paisley hanno pianto la scomparsa di Swift dalla scena del country. Le case discografiche del Tennessee non hanno mandato corone di fiori, ma di sicuro si sono unite al lutto.

Al momento, Swift muove il mercato come nessun altro. Il caso che ha infiammato la discografia nelle ultime settimane non è tanto il fatto che 1989 non sia stato pubblicato su Spotify (non succede con quasi nessuna nuova uscita di nessun cosiddetto big), ma che la sua etichetta abbia tolto anche tutti i dischi precedenti. Forse anche da questo dipende il milione e più di copie vendute. Sarà per ottimizzare il più possibile la Taylormania corrente: ti è piaciuto questo cd? Compra pure quello vecchio e regalalo alla tua nipotina per Natale. Sta di fatto che anche Spotify ha pianto quest’altro lutto: «Taylor, torna, ’sta piattaforma aspetta attè!», si legge (più o meno) in un appello-playlist della società. Oltre agli streaming dei brani e degli interi album, si contava la presenza di Swift in 19 milioni di playlist. Lei ha dato la sua risposta: «Non m’interessa contribuire col lavoro di una vita a un esperimento come Spotify che non ricompensa equamente gli autori, i produttori e gli artisti. Non sono d’accordo col perpetrare l’idea che la musica non abbia valore e debba essere gratis». Sottotesto: voglio i soldi. Con Spotify non si guadagna ancora granché (ad essere precisi: tra gli 0,06 e gli 0,08 centesimi di dollaro per ogni ascolto), o al massimo s’incassa sulla lunga (molto lunga) distanza. E oggi contano i soldi immediati, o i contratti con marchi tipo Coca Cola, a cui Swift ha di fatto venduto la canzone How You Get the Girl. Da brava diva dell’era emoticon, nel videoclip-spot Taylor è circondata da gattini.

Anche per questo è tutto ciò che le ragazzine vorrebbero essere, il role model perfetto, la faccia da appiccicare al diario, inteso come timeline di Facebook. Per il lancio di 1989, Swift ha organizzato delle secret session (così son passate alla storia) in ognuna delle sue quattro case negli Stati Uniti, più una affittata a Londra. Ha invitato in ciascuna 89 adolescenti brufolosi e infoiati, ha cantato per loro tutto il disco, si è messa a ballare, ha posato per i selfie, questi sono usciti di testa. L’anno scorso intervistai Scarlett Johansson a Venezia e lei mi disse: «Da quando ho fatto The Avengers, sono arrivata anche al pubblico più giovane. L’altro giorno in aeroporto una bambina mi ha chiesto: “Tu sei Taylor Swift?”».

Sempre per una questione di equivoci, Swift è oggi migliore amica di Lena Dunham (e un po’ di tutti: Beyoncé e Jay-Z, Chris Martin, Cara Delevigne; dinne un altro: c’avrà due-tre fotine con lei su Instagram). «Ero una super fan di Girls. Quando ho visto che Lena postava su Twitter i versi di una mia canzone, ho subito pensato che lo facesse per sfottermi» racconta oggi Swift a David Letterman. È la Sindrome della Testa Vuota di cui sopra. Poi Taylor ha scritto a Lena, ha scoperto di essere fan corrisposta, son diventate amichette, il fidanzato di Lena (Jack Antonoff dei Fun) ha scritto con Taylor il secondo singolo dell’album: Out of the Woods.

«Ero una super fan di Girls. Quando ho visto che Lena postava su Twitter i versi di una mia canzone, ho subito pensato che lo facesse per sfottermi»

Perché Swift ha lasciato la casa nella prateria. Oggi vive a Tribeca, New York City, frequenta l’intellighenzia hipster di Williamsburg, si mette vestitini a fiori e scarpe di cuoio con le stringhe da negozio vintage di Porta Ticinese. Verseggia molto bene, a proposito del suo arrivo in città: «Quando abbiamo buttato le valigie sul pavimento della casa nuova, abbiamo preso i nostri cuori spezzati e li abbiamo chiusi in un cassetto». La canzone è Welcome to New York, apre il disco. L’Ufficio del turismo di New York, dopo aver assunto una buona dose di Swiftamine, l’ha istituzionalizzata brano di benvenuto ufficiale. Come se Dolcenera fosse ingaggiata dalla Pro Loco di Lecce per scrivere il jingle della città. Quasi, diciamo.

«Adesso smettetela tutti. L’esistenza di Taylor Swift migliora quella di tutti noi comuni mortali. Dà nuovo significato alla nostra vita, riempie il nostro vuoto. Non sto scherzando», ha scritto su Facebook Paul Schrader, il coltissimo regista di American Gigolo e del più recente, stupido e struggente The Canyons. Taylor, con quell’aria zuccherosissima alla Doris Day, con quel nasino da strega Samantha, è una che con Schrader non avrebbe mai passato un casting. Eppure.

Nel nuovo status di icona per intellettuali Swift ci sguazza con tutte le scarpe (vintage). Si è fatta pure produrre un pezzo da Imogen Heap (Clean, uno dei migliori dell’album), elettro-cantautrice inglese con schiere di cultori indie, tanto che io che ascolto solo Tiziano Ferro l’ho scoperta più o meno tre mesi fa. (Poi mi hanno detto che era la stessa della canzone della pubblicità del Cornetto Algida, e tutto mi è tornato.)

È frutto di un equivoco spontaneo, non pianificato dagli uffici stampa, anche la sua vita sentimentale. È stata con Jake Gyllenhaal, l’attore figo che fa film sempre più di nicchia; con John Mayer, il cantautore folk “alto”, mica ballate da sagra delle ali di pollo fritte; con Harry Styles, il capetto dei One Direction, uno poco poco idolatrato, tipo lei. «Ho una lunga lista di ex: ti diranno tutti che sono matta», canta in Blank Space. Oggi balla da sola. Letteralmente. I suoi passi di danza andrebbero insegnati nelle palestre di tutto il mondo, altro che zumba. Il fuori onda da Ryan Seacrest, in cui improvvisa movimenti favolosamente senza senso su Iggy Azalea, è la cosa più bella che si possa vedere in rete in queste settimane. Per non parlare delle gif in cui muove a caso le mani. Nelle stanche platee degli stanchi premi musicali, dove tutti stan seduti coi musi lunghi e cercano di non rovinare trucco e parrucco, lei è l’unica a saltare sulla poltrona e ad agitare il culo. «È una delizia», appunto.

Per celebrare le vendite-record di 1989, Swift ha messo su Instagram una foto di se stessa 12 anni fa. Nel 2002, anno di Eminem. Grassoccia, con le treccine fatte al centro commerciale. «I filtri non sono necessari», ha scritto nella didascalia. Il tono, molto sincero, era: sono rimasta la ragazzina che veniva bullata alle medie, oggi sono un po’ più caruccia ma guardatemi, io la figa come Rihanna non la farò mai. Taylor, una di noi. Una che non rinnega lo zaino Invicta, il felpone XL, l’apparecchio col baffo da tenere la notte. «Non passeremo mai di moda», canta Swift in Style, terza canzone dell’album. È una (deliziosa) minaccia.

 

Nell’immagine in evidenza, Taylor Swift nel settembre 2014. © Getty Images