Attualità

La rivoluzione di Gurley Brown non è ancora finita

Ritratto della leggendaria direttrice di Cosmopolitan che, con la rivista e coi suoi libri, ha insegnato alle donne come si arriva single a quarant’anni senza sentirsi inette e fallite. Una femminista atipica e una storia iniziata negli anni '60 che ancora oggi ispira una generazione di scrittrici.

di Paola Peduzzi

Ragazze, non abbiate fretta di sposarvi, non fatevi spaventare da chi vi tratta come zitelle anche se avete solo vent’anni, «il matrimonio è una polizza assicurativa per gli anni peggiori», negli anni migliori non avete bisogno di un marito, non vi meritate l’ansia da principe azzurro: cercate gli uomini in gran quantità, «i costi emotivi s’abbassano e il divertimento si alza» se ne avete a decine. Con Helen Gurley Brown, i suoi consigli, i suoi libri, il suo Cosmopolitan, di cui è stata direttrice per trent’anni con copertine memorabili sul sesso che ti rende magra, la ginnastica erotica e le nuove vie della soddisfazione femminile, tutto è sembrato possibile. È cominciato con lei, all’inizio degli anni Sessanta, il riscatto delle «mouseburger» (il copyright è sempre suo, ovviamente), le donne né belle né brutte, né ricche né povere, né giovani né vecchie, scuole mediocri alle spalle, talenti poco riconoscibili, ma grandi lavoratrici, determinate, mai remissive, disposte a sposarsi soltanto con l’uomo dei sogni: lei si metteva a capo di queste femmine, ed elargiva suggerimenti di ogni tipo, da come risparmiare (andate nude in casa, così avrete meno indumenti sporchi e non dovrete dotarvi di un guardaroba troppo ampio e costoso, e se il reggiseno non potete permettervelo, due cerotti sui capezzoli possono bastare) alla tecnica migliore per praticare una fellatio (diceva di essere parecchio brava, nessuno s’è mai permesso di smentirla: in Having it all, libro del 1982, compone un decalogo d’istruzioni integrando i suggerimenti di un’amica che si vantava di essere «la migliore del mondo»).

È cominciato con lei, all’inizio degli anni ’60, il riscatto delle “mouseburger”, le ragazze né belle né brutte, né ricche né povere.

Quella rivoluzione, iniziata nel 1962 con il bestseller Sex and the Single Girl, non è ancora finita, visto che Lena Dunham, presentando il suo libro Not that kind of girl all’inizio dell’estate, ha detto che ha voluto scrivere una versione «deformata» dei manuali della Brown: gran parte dei consigli contenuti là dentro sono «bananas», roba da fuori di testa, dice la Dunham, che leggeva quei libretti di nascosto, ma non c’è donna che non si sia ispirata a qualcosa detto o scritto dalla Brown. Le ragazze di oggi portano a termine la missione iniziata da quella signora ossessionata dalla magrezza («chiunque si dovesse permettere di mettermi nel piatto zucchine fritte sarà denunciato per tentato avvelenamento»), che usava la crema contro le emorroidi come antirughe per il viso, che non voleva sentir nominare la menopausa, che parlava di sé in continuazione, degli inizi difficili e dell’acne maledetta, con quell’entusiasmo ostentato che spesso pareva disperazione, e che ha chiesto di essere sepolta con un vestito di Pucci (quando è morta, due anni fa, le sue richieste sono state esaudite).

La rivoluzione della Brown è iniziata nel momento in cui è arrivato l’uomo dei suoi sogni. Aveva 37 anni, ed era il 1959, tempi in cui a quell’età eri considerata un arnese da buttare «nel Grand Canyon». Prima del matrimonio Brown aveva fatto carriera come copy in un’agenzia pubblicitaria, spietata e ambiziosa come Peggy Olson di Mad Men, ma senza tutte quelle lacrime in pubblico (piangeva sempre la Brown, come ha scritto Nora Ephron in un articolo perfido e meraviglioso nel 1970 su Esquire, ma sempre dopo: dopo le trasmissioni, dopo le liti, dopo gli incontri andati male, piangeva anche per ore, singhiozzando, lamentandosi del fatto che nessuno sapeva capirla). Per David Brown, il futuro marito con due divorzi alle spalle che sarebbe rimasto sempre presente, sempre fedele, era stato amore a prima vista (regola numero uno: non affaticarti nel cercare il principe azzurro, ma se lo incontri non fartelo rubare da un’altra, anzi, se proprio è necessario, ruba tu per prima): faceva il produttore, fu lui a consigliarle di scrivere il primo libro su come si arriva single a quasi quarant’anni senza sentirsi inette e fallite, ma anzi avendo fatto sesso e carriera. Le diede anche il titolo – Sex and the Single Girl – così come in seguito avrebbe scritto i titoli delle cover di Cosmopolitan, l’unico che poteva modificare qualcosa: tutto il resto del magazine era nelle mani della Brown, che ossessivamente cambiava i testi, inseriva maiuscole, infilava esempi di vita quotidiana, «deve essere utilizzato un linguaggio da bambini», diceva.

Il libro fu un enorme successo che la Brown tentò subito di trasformare in un’altra impresa editoriale, un magazine per single, ma nessuno la ascoltava, finché la Hearst non le offrì, nel 1965, la direzione di Cosmopolitan, un mensile posato per famiglie, di scarsissima diffusione. Ai suoi detrattori, che erano tanti (parlare di sesso in modo così spigliato, sesso fuori dal matrimonio poi, orgasmi finti e verginità sopravvalutate? Era per i più inaccettabile), parve un contentino per levarsi di torno una donna tanto insistente: si rivelò un colpo di fortuna per le casse della casa editrice – si arrivò a una readership di tre milioni di persone, all’inizio non si giungeva alle 800 mila –  nonché l’introduzione di un “girl talk” sfacciato: dove prima c’erano discussioni sull’ereditarietà del diabete arrivarono le storie incredibili di quel che vogliono i maschi quando hanno i pantaloni calati. Inizialmente la rivoluzione piacque anche alle femministe d’establishment – l’obiettivo era comune: la liberazione delle donne – ma poi divenne il male da sconfiggere, con quelle copertine con celebrities bellissime (il corpo delle donne!) e i mille suggerimenti su quanto si può essere sexy e divertirsi nei propri corpi-oggetto.

A dividere la Brown dalle femministe che bruciavano reggiseni – e che fecero molte proteste davanti alla sede di Cosmopolitan, chiedendo le dimissioni dell’odiata direttrice – erano soprattutto i maschi. La Brown li amava, li considerava prede da conquistare con furbizia, predicava di non fissarsi con uno solo, ma di provarne tanti, per imparare, per togliersi dei capricci, per assaporare la magia dei flirt, per essere pronte in attesa dell’uomo giusto. Trovava folle che le donne perdessero tempo a valutare nei dettagli la tenuta nel tempo di un frigorifero e non si preoccupassero di soppesare quella di un potenziale marito: così si era condannate all’infelicità. Cercare gli uomini, invece, quella era la rivoluzione: «welcome a penis» ogni volta che ne avete l’occasione, ha ripetuto per decenni. In Late Show, pubblicato nel 1993 e rivolto a donne avanti negli anni, la Brown scrive: «Prendere un pene mi sembra più femminile che cucinare biscotti o distribuire soldi per il college di un nipote». Il piacere non è un peccato, è un diritto, e a tutte le età va esercitato: la sua vita sessuale è sempre stata al centro di ogni conversazione, pare che con David ci fosse un’alchimia inesauribile, e a settant’anni la passione era immutata, diceva orgogliosa. Nel 1972 Brown pubblicò un paginone centrale (si poteva staccare e conservare) con un pelosissimo Burt Reynolds sdraiato nudo su una pelle d’orso, sorridente, con la sigaretta in bocca. «A quel tempo – spiegò la Brown – gli uomini amavano guardare le donne nude. Beh, nessuno lo diceva, ma anche le donne amavano guardare gli uomini nudi. E io le ho accontentate»: le vendite di Cosmopolitan duplicarono, Reynolds divenne un’icona sexy, su quel paginone sarebbe transitato nel 1982 persino Scott Brown, ex senatore del Massachusetts allora vincitore del concorso di Cosmopolitan per designare l’uomo più sexy d’America.

Lei ribatteva che non c’è niente di male nell’accontentare un uomo, anzi, poi vedrai quanti regali ti farà (e se non te li fa, comprati da sola qualcosa).

Per ottenere qualcosa da un uomo devi saperlo divertire, assecondare, diceva la Brown, e le femministe l’accusavano di perpetrare l’idea di donna-geisha, prona agli istinti maschili, prevalentemente sessuali. Lei ribatteva che non c’è niente di male nell’accontentare un uomo, anzi, poi vedrai quanti regali ti farà (e se non te li fa, comprati da sola qualcosa, fa sempre bene, basta che non t’indebiti per un gioiello che nessuno apprezzerà), gli uomini non sono i nostri nemici, sono i nostri alleati, sono quelli che ti possono assicurare una vita lussuosa e felice, mai trascurare i loro desideri.

Erica Jong, commentando il ruolo della Brown nella questione delle donne alla sua morte, nell’agosto del 2012, ha detto: «Non vedeva nessuna contrapposizione tra il femminismo e gli uomini, e in questo ero d’accordo con lei. Pensava che non fosse necessario disprezzare gli uomini per essere una femminista». Le cover con «tutti i modi per piacere a un uomo» erano le più vendute, così come quelle che avevano lo scopo di insegnare alle Cosmo girl come attirare l’attenzione dei maschi (una frase famosa della Brown recita: «Se non sei un oggetto sessuale, vuol dire che hai un problema»). Molti sostenevano che con la sua ossessione per il piacere e il corpo, la Brown avesse trasformato Cosmopolitan nella versione femminile di Playboy. Per lei non era disdicevole, anzi, sai quante copie in più si vendono a essere considerato un sexy-magazine? (Nora Ephron, che provava allo stesso tempo disgusto e attrazione per Cosmopolitan diretto dalla Brown, diceva di non riuscire a resistere, doveva comprarlo, ma si toglieva i guanti mentre lo leggeva sull’autobus in modo che tutti potessero notare la fede al dito e non potessero fraintenderla: «Non sono ‘quel genere’ di Cosmo girl»).

Nella conquista del maschio, secondo la Brown, c’erano poche regole, valeva più o meno tutto, anche e soprattutto con gli uomini sposati. I paletti, sempre ampiamente valicabili, erano fissati soltanto quando il sesso si intersecava con il lavoro: le relazioni con i colleghi in ufficio per esempio sono sconsigliate, si rivelano spesso troppo pericolose, ma bando ai preconcetti, ci potrebbero essere avanzamenti di carriera insperati, basta non prendere sul serio queste liason (sul lavoro non è mai amore) ma va bene accettare regali e anche aumenti di stipendio, in qualche modo andrà pur combattuta la disparità di trattamento tra uomini e donne quando si tratta di salari.

La Cosmo girl non deve temere di essere spregiudicata: il denaro serve, «nessuno ama le donne povere», scrive la Brown, non c’è niente di più sexy di una single che sa mantenere un’aura d’eleganza, anche se è falsa.

L’arte sta sempre nella finzione, come nel sesso: costa così poco far finta che sia tutto bellissimo e soddisfacente, ci si può al limite masturbare dopo, quando lui dorme. «Non importa quanto poco guadagnate, ci potete vivere con dignità in ogni caso: io lo so, sono povera praticamente da sempre», scriveva. Suo padre era morto quando lei aveva dieci anni, cadendo nel vano dell’ascensore, sua sorella aveva contratto la poliomielite, quindi i pochi soldi di sua mamma servivano per le cure, e poi anche quelli dei primi lavori di Helen. È così che è diventata tanto attenta all’economia domestica, al punto da scrivere in Sex and the Single Girl suggerimenti di ogni tipo: inviate lettere di complimenti alle grandi aziende: spesso mandano come ringraziamento utili campioncini; negoziate ogni volta che è possibile, con chiunque, dal padrone di casa al cassiere del deli; lavatevi i denti con il bicarbonato, costa pochissimo ed è meglio di qualsiasi dentifricio, e via dicendo. In realtà quando si trattava di costruire portafogli di investimenti il linguaggio della Brown sapeva essere preciso, aveva imparato a leggere i conti e a capire gli strumenti finanziari, e spiegava quanto fosse salvifica quella conoscenza: puoi mantenere i tuoi risparmi senza dover chiedere favori a nessuno, e soprattutto senza farlo sapere a nessuno. È così che sei autonoma, ma non ti sognare comunque mai di tirare mai fuori il portafoglio in presenza di un uomo: deve pagare tutto lui.

La guru dell’indipendenza sessuale ed economica delle donne ha sempre evitato di parlare di maternità: di sé diceva che era troppo competitiva e troppo egoista per poter aver figli.

Nel mondo della Brown mancano i bambini. Va bene lavarsi l’automobile da sole (è comunque sempre meglio camminare o andare in bicicletta, tutti applaudono le donne in bici) ma è oltraggioso farsi pagare per stare con i bimbi: il lavoro di babysitting «è al di sotto della vostra dignità». Non c’è niente di più alieno per la Brown dei figli. La guru dell’indipendenza sessuale ed economica delle donne ha sempre evitato di parlare di maternità: di sé diceva che era troppo competitiva e troppo egoista per poter aver figli, e che suo marito era esattamente come lei; delle mamme diceva che avevano già di che essere soddisfatte, non necessitavano di consigli ad hoc, fatta eccezione, ma solo in rari casi, per le ragazze-madri, come era stata la sua. Si diceva che, nei decenni della Brown alla direzione, Cosmopolitan fosse un’area “child-free”, discutere di bimbi è noioso, non si vende niente a spiegare i dieci modi per cambiare perfettamente i pannolini, bisogna stare concentrati su quel che conta: il sesso, la carriera, i soldi.

Having it all, un altro dei bestseller della Brown, inaugurò un dibattito che ancora oggi è molto presente (diremmo quasi invasivo): si può avere tutto, una famiglia, un lavoro ambizioso, il portafoglio pieno? Ne parlano soprattutto le madri alle prese con i figli, i datori di lavoro e le giornate sempre troppo corte per fare tutto: c’è chi sceglie di tornare a casa e occuparsi solo di figli e di borsine all’uncinetto, c’è chi predica che bisogna insistere e spodestare i maschi non affrontandoli a brutto muso (così si perde) ma abbandonandoli in cucina a preparare arrosti. Per la Brown la faccenda era tutta diversa: non contemplava la dimensione della maternità, anzi, se possibile, esplicitamente la escludeva, si batteva per il diritto delle donne a usare i contraccettivi e ad abortire ogni volta che non se la sentivano di portare avanti gravidanze o crescere figli, perché caricarsi di responsabilità quando ci si può divertire? In Sex and the Single Girl, gli editor (maschi) tolsero tutte le provocazioni che riguardavano i contraccettivi, l’aborto (che era illegale) e le lesbiche, ma Brown si rifece ampiamente poi sulle pagine di Cosmopolitan. La donna del suo immaginario non doveva subire le pressioni della società in alcun caso, figurarsi in materia di figli.

In Bad Girls Go Everywhere, bella biografia della Brown pubblicata nel 2009, Jennifer Scalon traccia le differenze del «woman power» secondo l’intepretazione di Cosmopolitan – che poi avrebbe portato al femminismo à la Sex and the City – e secondo quella di Betty Friedan che pubblicò un anno dopo Sex and the Single Girl quello che è considerato il manifesto del femminismo degli anni Sessanta: La mistica della femminilità. C’è un abisso naturalmente, ma soprattutto c’è che Brown parla sempre di sé, di una donna fatta a sua immagine e somiglianza, mentre la Friedan parla delle altre. Esisteva soltanto un modello per la Brown ed era il suo, fatto di ciglia lunghe, minigonne, botox a volontà, magrezza, ambizione, libertà, slogan, leggerezza. Figlia della Grande Depressione pensava che le disgrazie potessero soltanto essere utili: «Se avete angosce quotidiane per motivi che non vi riguardano direttamente – una famiglia disperata, problemi di salute o economici, nessuno che vi aiuta – gioite! Questo è il vostro carburante».

Tutto era possibile, o almeno ci si cullava in quell’illusione, che aveva le pareti rosa dell’ufficio della Brown a Cosmopolitan e la presunzione che soltanto i suoi consigli fossero quelli buoni. Non gli altri. Anche qui, come in tutto quel che ha scritto e detto nelle migliaia di apparizioni televisive, è una questione personale, per Brown. Poco prima che fosse pubblicato Sex and the Single Girl, ricevette un telegramma da sua madre che diceva: «Cara Helen, se ti muovi molto velocemente, penso che possiamo fermare la pubblicazione del libro». Lo buttò, e ignorò le mamme per sempre.

 

Dal numero 21 di Studio