Attualità

Rieducazione sentimentale

Kaká, Galliani, gli amori che fanno giri immensi. Riflessione sul perché la peggior metafora per il calcio sia quella sentimentale.

di Davide Coppo

Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan, per spiegare il ritorno di Ricardo Izecson dos Santos Leite Kaká a Milano e al Milan, dopo quattro stagioni al Real Madrid, ha scelto di ricorrere a una citazione inusuale per un milanista e milanese (anche se Galliani nasce a Monza, ma cambia poco): «Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano», ha detto, prendendo le parole di Amici Mai, uno dei successi più iconici della carriera di Antonello Venditti, cantautore romanista per eccellenza. Galliani citò Venditti per la prima volta il 24 luglio 2012, quando Gaetano Paolillo, procuratore di Kaká, fu visto entrare nella sede del Milan in via Turati per un possibile ritorno in rossonero di Ricardo, e lo ha citato di nuovo pochi giorni fa, in un’intervista di cui non ricordo l’esatta collocazione spaziale o temporale. La stessa canzone è stata usata come colonna sonora in un video ufficiale della società poche settimane fa, a ritorno concretizzato, diffuso se non sbaglio a San Siro durante la partita di Champions League Milan-Celtic, o Milan-Psv (ma anche qui potrei sbagliare).

I giri immensi a cui si riferisce Galliani, comunque, corrispondono più o meno a 1.189 chilometri, che è la distanza tra Madrid e Milano in linea d’aria (una linea che curiosamente passa esattamente anche da Andorra, a vederla su una cartina), e meno pragmaticamente parlando corrispondono ai circa 1.460 giorni in cui Kaká è stato lontano da Milanello, dallo stadio di San Siro, dal cuore dei tifosi del Milan. Queste ultime cinque parole, “cuore dei tifosi del Milan”, sono parole che uno scrittore non vorrebbe mai scrivere, ma in questo pezzo hanno un senso, e tanto vale abituarcisi subito: Adriano Galliani, con quella retorica molto berlusconiana da “l’amore vince sempre sull’odio” ha dipinto non solo la carriera di Kaká, ma quella di moltissimi altri giocatori del Milan con toni romantici e insieme furbissimi per colpire il ventre molle e piagnucolone di ogni tifoso (e per fare inorridire di disprezzo ogni avversario). Quindi, le regole di questo pezzo sono queste: proviamo a capire l’operazione “ritorno-di-Kaká”, e l’operazione “ritorno-di-Shevchenko”, precedente ma molto simile in quanto a retorica, con i parametri amorosi scelti da Galliani. Ci proverò perché, essendo più che parziale in quanto molto tifoso del Milan, la retorica gallianina, che pure razionalmente trovo disgustosa, ha conquistato per lunghi frangenti, lo ammetto, anche me. Il tutto, in fondo, ha anche molto senso, perché il parallelo tifo-amore è sì il parallelo più abusato della storia dei paralleli interdisciplinari, ma è anche così banale da risultare veritiero (e lo dimostra tutta una serie di contrasti domenicali tra moglie e stadio, che affondano radici, ancora prima che in Rita Pavone, nelle origini stesse del calcio).

Nei primi sei anni a Milano, Kaká gioca un totale di 270 partite (un totale di 45 a stagione, impressionante) segnando 95 goal (un totale di 15,83 goal a stagione, impressionante anche questo). Nei quattro anni a Madrid gioca 120 volte con 29 goal (sono statistiche quasi dimezzate, anzi quella dei goal più che dimezzata). Al ritorno al Milan del 2013 Kaká gioca una sola partita, non bene, e viene sostituito, si infortuna subito, e rinuncia allo stipendio finché non tornerà in campo, un altro gesto in bilico tra la sincerità e la strumentalizzazione societaria, ma comunque un gesto dipinto facilmente come “d’amore”. Il cambiamento tra il prima e il dopo sembra enorme, non soltanto tra il prima milanista e il dopo madridista, ma tra il prima milanista e il dopo milanista, cioè quel momento in cui l’amore, dopo il giro immenso di 1.159 chilometri, è tornato dove gli compete.

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A diciotto anni avevo una fidanzata, si chiamava Virginia (nome fittizio) e la lasciai quando conobbi Iris (altro nome fittizio). Mi innamorai di Iris come ci si innamora a diciotto anni (lei ne aveva diciassette), dopo tre minuti al massimo, e iniziammo a frequentarci. La prima volta che uscimmo fu un pomeriggio di aprile, lei aveva una gonna bianca lunga fino ai piedi, io non ricordo, e ce ne andammo alla Fnac di via Torino a Milano, a guardare dischi e vinili. Io comprai The Blues Alone, di John Mayall, un ottimo disco blues del 1967, lei niente. Poi camminammo da altre parti, in altre strade e su altri marciapiedi, e arrivammo in via Orazio, davanti al liceo Manzoni, uno dei licei classici più importanti di Milano, il liceo classico milanese in cui verrebbe ambientato un film di Muccino se la cinematografia adolescenziale italiana non fosse una cosa solo romana, vicino a un fruttivendolo e a un negozio di design del ‘900, tutta roba molto bella e molto costosa. Pochi giorni dopo lei mi chiese di vederci, e mi disse che non poteva stare con me perché praticamente stava già con un altro tipo, non del tutto, ma solo a metà, anche se di lì a breve ci sarebbe stata del tutto. Una cosa che non ho mai capito e che ancora oggi reputo un’enorme cazzata. Io ci rimasi molto male, e anche lei, che era quella indecisa tra due uomini e doveva scegliere e sceglieva a malincuore, o almeno così mi parve di capire. Ci frequentammo ancora anche se lei era fidanzata con questo tipo, ci vedemmo di nascosto ascoltando le canzoni che si ascoltano a diciotto anni, e gli anni erano i primi anni del duemila con l’esplosione di quella cosa chiamata indie. Tutta questa narrazione si svolgeva di solito nel quartiere di casa sua, in via Solari, una via in cui di lì a poco alcuni brand di moda avrebbero comprato magazzini abbandonati trasformandoli in showroom o uffici open space. Era tutto molto borghese.

Ci perdemmo di vista, dopo un po’ (presumo ci fossimo annoiati della clandestinità, a un certo punto), e io passai due anni bellissimi con un’altra ragazza, Emma (nome fittizio). Iris stava sempre con il tizio di cui sopra, che parlava tedesco. La mia storia con Emma finì, e non finì benissimo, e anche Iris lasciò il tipo che parlava tedesco. Ci incontrammo, e ci fidanzammo. Erano passati tre anni dalla prima volta che la vidi, e credo che in quei giorni mi capitò di ascoltare Amici mai di Antonello Venditti. Nel frattempo, Kaká finiva la sua quinta stagione al Milan con il record di 19 goal, veniva inserito da TIME tra le 100 personalità più influenti dell’anno sotto la dicitura “Eroi e pionieri” e iniziava il suo ultimo campionato rossonero, ma quest’ultima cosa io non la sapevo ancora.

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Al Milan stava tornando però Andriy Shevchenko, dopo due stagioni più che fallimentari al Chelsea, e avrebbe scelto il numero 76, dal momento che il 7, il suo precedente numero per sette stagioni a Milano dal 1999 al 2006, era stato preso da Pato. Shevchenko, dopo trecento partite (circa) a Milano con più di centosettanta goal, in una squadra con Kaká, Ronaldinho, Borriello, Pato e Inzaghi, gioca in campionato diciotto partite, che non sono diciotto partite davvero, visto che “Sheva” entra quasi sempre a pochi minuti dalla fine. Zero goal in Serie A, uno in Coppa Italia e uno in Coppa Uefa. Il 31 agosto 2008 il Milan esordisce in campionato a San Siro contro il Bologna, Shevchenko è in panchina inizialmente, ma prima del fischio d’inizio entra in campo con tutta la squadra per il riscaldamento, e lo stadio, che pure non è pieno, canta per lui. Anche io ero lì, anche io cantavo per lui, battevo le mani e mi emozionavo sinceramente nel rivedere a Milano il giocatore simbolo del Milan per sette anni. “Sheva” entra nel secondo tempo senza incidere sulla partita, il Milan perde 1-2. Qualche giorno prima, all’aeroporto di Linate, Shevchenko era stato accolto da centinaia di tifosi e cellulari che riprendevano la scena in maniera convulsa e disordinata, mani che battevano sulle spalle, sulla schiena, sulle guance, lui con un sorriso fisso in faccia e un maglione blu o viola. Galliani, amministratore delegato del Milan, dice: «Andriy ha sbagliato ad andar via e credo che da due anni a questa parte abbia capito che questa è la sua casa. Adesso ha fatto i suoi sacrifici economici, ma a questo punto l’unica cosa che conta è che lui torna con noi». Da parte sua, Shevchenko dice: «Era tempo che speravo di tornare e già ieri immaginavo che questa trattativa potesse concludersi bene. Per me è come aver vinto una Champions League. Ci sono state delle complicazioni, ma ora che tutto si è risolto sono proprio felice». Galliani, ancora prima, aveva rivelato che nelle tre ore prima dell’ufficialità, “Sheva” l’aveva chiamato al telefono 48 volte.

Per capire cosa è diventato Andriy Shevchenko dopo i due anni lontano da Milano e dal Milan non c’è bisogno di aspettare 18 partite, ne basta una manciata soltanto. Andriy è lento, quando prima era veloce, è goffo, quando prima era agile, sembra frustrato e stanco, sembra sapere benissimo cosa sta passando e quanto questo sia lontano ere geologiche dall’Andriy Shevchenko prima della separazione. Questo almeno è quello che penso vedendolo giocare dieci minuti scarsi ogni partita, dal mio posto di abbonato dello stadio di San Siro. Nel 2001, a quindici anni, avevo staccato dal Guerin Sportivo un poster alto più di un metro, e l’avevo appiccicato su un muro sopra il letto. C’era scritto “Shevchenko – il mostro” tutto in stampatello maiuscolo. Nel 2008 c’è anche un altro dettaglio in apparenza insignificante che infastidiva me, tifoso e, per rimanere alle regole del gioco di Galliani, innamorato di “Sheva”. Quel numero, il 76. È logico, è il suo anno di nascita, lo fanno in tanti, e poi tutti i numeri dall’uno al sedici, dal diciotto al venticinque sono già stati presi. Però mi infastidiva, “Sheva” non poteva essere uno dei tanti ma doveva essere sempre legato al numero sette. Anche in questo cambio si è rotto qualcosa. Ancelotti è il primo a capirlo, d’altronde è lui l’allenatore che lo aveva allenato anche prima, che gli aveva fatto alzare prima la Champions League, poi la Supercoppa Europea e poi il Pallone d’Oro. Lo tiene in panchina quasi sempre e qualcuno nella curva del Milan non la prende bene, e con quella strana mania di mettere tutto in rima tipica delle curve italiane, compone lo striscione “Carletto per Sheva più rispetto”. Ancelotti risponde cortese e forse involontariamente cinico: «Lo striscione dei tifosi rappresenta l’affetto per un campione che tanto ha dato al Milan. Ma assicuro che io l’ho sempre rispettato. Sarebbe stato più adatto parlare di “considerazione” più che di rispetto. In ogni modo, nelle prossime gare, se possibile, lo farò giocare di più». Se volessi trasformare questa dichiarazione in un’altra canzone abusata dal repertorio cantautorale italiano del secolo passato, scriverei “Ricordi, sbocciavan le viole” e via dicendo.

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Un altro capitolo del Grande Romanzo Sentimentale Milanista si apre poco dopo, a gennaio del 2009, quando arriva l’offerta ufficiale del Manchester City per Kaká. Il 19 gennaio sembra che la trattativa si stia per chiudere, dalle quattro di pomeriggio un gruppo di tifosi milanisti si raduna in via Turati, sotto la sede della società Milan, per protestare contro l’eventuale e imminente cessione, hanno torce rosse e cantano «Non si vende Kaká», mentre dentro il palazzo, a finestre chiuse per il freddo e il rumore, Gary Cook, direttore generale del Manchester City, e Adriano Galliani parlano dell’accordo. C’è anche una telefonata tra l’allora allenatore del City, Mark Hughes, e Kaká, con Hughes che spiega a Ricardo Izecson il progetto della squadra che è appena stata acquistata dallo sceicco Mansour, e qualcuno dice che Kaká è molto freddo e per niente entusiasta. Alle nove di sera alcuni tifosi si sono spostati sotto casa di Kaká, visto che lui è tornato a casa. Alle dieci sembra che l’accordo sia fatto, con cento milioni al Milan e 20 ogni anno al giocatore, ma dopo mezz’ora Silvio Berlusconi dichiara al canale regionale Italia 7 che Kaká rimarrà al Milan. Lui allora si affaccia dal balcone e sventola ai tifosi la maglia del Milan, e i tifosi esultano, cantano perfino «Buonanotte Kaká», «Grazie Ricardo», e lui dice fate piano, che Luca dorme (Luca è suo figlio).

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Pochi mesi prima la mia relazione con Iris aveva subito la prima interruzione: ci eravamo lasciati. Sarebbe ripresa nel marzo 2009, ma intanto si era interrotta. Il motivo è simile, credo, a quello che costringeva Carlo Ancelotti a tenere in panchina Shevchenko (stiamo sempre scrivendo e giocando con le regole assurde della logica sentimental-milanista: non mi sognerei mai di paragonare lucidamente le mie relazioni ad Ancelotti). Il motivo è quello che si trova esposto in Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes al capitolo chiamato «E lucean le stelle», ovvero la distanza tra “il primo innamoramento” e “il ritorno”, tra la mia prima volta a diciotto anni e la mia seconda volta a venti. Barthes scrive: «Quel momento felice non ritornerà mai più tale e quale. L’anamnesi mi appaga e mi strazia». Il primo impatto con questa consapevolezza è devastante. Ed è anche quello che mi fa dire, con il senno di oggi, che Galliani, utilizzando il linguaggio dell’amore per colorare la storia di un ritorno, non ha capito niente: è il linguaggio più sbagliato che ci sia.

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Sempre Roland Barthes, nello stesso libro ma nel capitolo chiamato L’attesa, aggiunge un altro elemento utile per decifrare la scelta del ritorno. L’attesa, secondo Barthes, è: «Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)». Poi scrive: «Sto aspettando un arrivo, un ritorno, un segnale promesso. Ciò può essere futile o infinitamente patetico: in Erwartung (attesa), una donna aspetta, nella foresta, di notte, il suo amante; io sto aspettando solamente una telefonata, ma è la stessa angoscia. Tutto è solenne: non ho il senso delle proporzioni». Credo che in fondo a ogni amore e alla fortuna di ogni narrazione d’amore ci sia un problema fondamentale, che è l’illusione di stare sfuggendo all’ordinarietà, e la speranza, più che la certezza, di stare vivendo una vita o un amore straordinario, fuori dal consueto, unico e raro e peculiare. Da qui, ad esempio, il «Tutto è solenne: non ho il senso delle proporzioni» di Barthes. Il ritorno di Shevchenko a Milano, dopo due anni da schifo al Chelsea (48 partite e 9 goal in Premier League, media 0.18 – in Serie A sommando le due peggiori stagioni era arrivato al massimo a 0.36, mentre il totale sui sette anni in Italia è di 0.61) è stato benedetto dalla retorica della società Ac Milan e dai tifosi (come me accecati dal sentimentalismo) come un’ottima scelta. In fondo c’era il ragionamento: questa è la sua casa, ha sempre fatto bene, tornando a casa tornerà anche a fare bene. Che equivale a dire: l’Ac Milan e Shevchenko hanno una storia troppo speciale perché possa fallire. È fallita.

Ricardo Kaká alla fine lascia il Milan insieme a Shevchenko nell’estate del 2009, e mentre “Sheva” torna a Londra a prendere i bagagli solo per partire immediatamente per la Dinamo Kiev, squadra in cui è cresciuto e destinazione di chi non ha più niente da dire al grande calcio europeo, Ricardo va, come detto, al Real Madrid. Io e Iris passiamo l’estate insieme ma al ritorno dalle vacanze, in autunno, ci lasciamo ancora. Va detto che io sono stato uno stronzo (lo dico nel caso le capitasse di leggere queste righe). Ma la cosa importante è che tra le molte accuse che ci scambiammo e che si scambiano le coppie quando si lasciano, una delle più frequenti era «sei cambiato» e «no, sei tu quella ad essere cambiata». È l’anamnesi di cui parla Barthes. Se ripenso ora a quello scambio di frasi, per citare un altro cantautore italiano di quegli anni là, direi «che compassione che ho per me e per te». Oppure, direi: grazie al cazzo.

Anche Kaká è cambiato da quando è tornato al Milan. Era evidente già al Madrid che era cambiato: niente scatti, dribbling e corse che sembravano momenti concitati di un balletto classico per seminare gli avversari, Kaká ha da un po’ iniziato a giocare da fermo, a ragionare con la palla tra i piedi, tanto che quando arriva al Milan, nell’agosto 2013, c’è chi dice che potrebbe essere impiegato davanti alla difesa, “alla Pirlo”. A dire la verità lo si diceva già a gennaio, sempre nel 2013, quando era ancora al Real e si pensava sarebbe tornato presto in Italia. I cambiamenti però vanno accettati. E il fatto che né il Milan, né i tifosi, né forse Kaká lo abbiano voluto fare è dimostrato dalla scena vista in via Turati il 2 settembre 2013, il giorno della firma del contratto del ritorno. Kaká si è affacciato al balcone, come si era affacciato per rassicurare i tifosi quattro anni prima, anche se alle 19:15 di settembre a Milano la temperatura è estiva e il cielo ancora soleggiato. I tifosi ci sono anche questa volta, e come in una ri-edizione montata troppo artificialmente di un film passato, Kaká prende la sua nuova maglia del Milan, sempre con il numero 22, e la sventola per quelli di sotto.

L’infortunio di Kaká nella prima partita ufficiale in Serie A 2013/14, lo stop di un mese e probabilmente qualche giorno o settimana in più, la sospensione dello stipendio annunciata con un video. Questi sono i frutti temporanei del giro immenso dell’amore di cui parlava Adriano Galliani, tra Ricardo e il Milan, i frutti della nostalgia per l’amato e per il momento idilliaco del passato che Roland Barthes riassume nella frase «com’era azzurro, il cielo», e sono frutti che non sanno più di niente. È tornato Kaká, non è tornato l’amore, fine della storia. La morale è evidente anche se implicita. Volendo finire tutto questo con una sorpresa o un effetto, potrei scrivere che la copia di Frammenti di un discorso amoroso che mi ha aiutato nella scrittura è una copia che mi prestò Iris.