Attualità

La mia famiglia e altri campioni

Simone Andrea Ganz, figlio di Maurizio, e Roberto Insigne, fratello di Lorenzo. Giocano nel Como e nella Reggina, hanno sempre segnato nelle giovanili di Milan e Napoli, e stanno iniziando a segnare anche tra i Pro. Le loro brevi storie, senza il peso di quel cognome.

di Fulvio Paglialunga

Simone Andrea Ganz segna nel nome del padre. Anche con la maglia azzurra, così avara con Maurizio che sì, el segna semper lü, però fuori dal campionato si è dovuto accontentare di due convocazioni da Sacchi senza nemmeno giocare e a un certo punto, per una strana forma di disperazione, ha accettato di vestire la maglia della Padania in due Mondiali per nazioni non riconosciute, segnando anche epperò mettendo la sua carriera e i suoi quasi duecento gol in gioco in uno torneo strano, in cui di fronte hai la nazionale delle Due Sicilie e quella della Lapponia e rischi l’addio ai bei ricordi di un calciatore bello e d’area. Simone, invece, ha ancora troppo futuro per pensare a premi di consolazione e ogni altro argomento diverso dal gol. Perché dal papà ha preso la vocazione a portarsi avanti e la mira, sviluppata tra i giovani e ora portata nello stesso bagaglio che da due anni porta con sé, cercando un posto tra i professionisti.

Sono la prova che il fiuto si trasmette geneticamente e la dimostrazione pratica di come segnare aiuti a rifarlo, perché Simone non c’era ancora riuscito e adesso sì. Mercoledì lo ha fatto appunto in azzurro. Azzurro piccolo, ma quel colore lì: con l’under 20 di Lega Pro a Praga, decisivo per battere la Repubblica Ceca e portare tutti in semifinale dell’International Challenge Trophy. Qualche giorno prima c’era riuscito in campionato, la prima volta destinata a non essere dimenticata e forse anche a essere particolarmente seguita: in casa del Feralpisalò, il primo dei due di squadra (ma fondamentale perché il secondo è arrivato allo scadere). Tra i pro non gli era ancora successo, nonostante il primo anno passato a sgomitare per riuscirci, partendo dal Lumezzane per poi finire a Barletta, in tutto diciotto volte presenze e solo sette dall’inizio perché nel 2013 un novantatré ha vent’anni e dunque può aspettare, anche in anonime Serie C mentre porti con te quarantaquattro gol in sessantasei partite con la Primavera del Milan. È lì, tra i rossoneri piccoli, che Simone Andrea Ganz sembra el segnerà semper lü, degno figlio di un attaccante furbo. E infatti furbo è il suo battesimo del tabellino marcatori in una partita di Prima Divisione, con la maglia del Como. Bravo a tenersi libero, astuto a raccogliere il pallone lievemente imbizzarrito dai rimpalli, lesto a calciarlo verso quello che papà gli ha detto, sin da piccolo, essere l’obiettivo. Poi negarsi un po’, nascondere il cognome, cercare di dire che segna perché sa segnare, che di quell’arte è figlio ma anche no, sebbene anche i tratti del viso siano identici: «Qualcosina di simile ce l’ho. Papà però era molto più rapinatore d’area, viveva sul filo del fuorigioco, alla Inzaghi. Io preferisco partire da lontano per puntare i difensori e la porta in velocità».

Simone era del Milan e ha pure qualche minuto in Champions, otto minuti contro il Bate Borisov prendendo il posto di Robinho, coltiva la speranza di tornare prima o poi nella squadra che un po’ fu svolta per il papà, in uno strano incrocio di maglie pur sempre a San Siro che resero possibile l’affermarsi in nerazzurro (gli anni del soprannome e dei gol in serie), il passaggio in rossonero (1,5 miliardi più Moriero) e i gol decisivi per lo scudetto di Zaccheroni, anni che sono un po’ la foto dell’irrequietezza di Maurizio che lo ha portato sino a chiudere la carriera con la Pro Vercelli e adesso sulla panchina dell’Ascona, che non è una errore di battitura ma una squadra svizzera di quinta serie. Simone Andrea (i due nomi in fondo vanno insieme) l’irregolarità se la porta dalla nascita, perché essere figlio di un bomber con la valigia vuol dire iniziare a giocare a calcio nell’Ardisci e Spera di Como, poi nell’Olimpia Firenze, nell’Ancona, nel Montale Modena, pensando anche di poter diventare un portiere, per poi essere centrocampista nella Masseroni Marchese, società in orbita Milan allenata – ancora! – dal padre, prima di diventare attaccante e segnare a raffica, perché il sangue è quello, anche se è difficile arrivare da qualsiasi parte ed essere valutato come Simone, non come il-figlio-di-Ganz e quindi convivere con la grande attesa e con i giornalisti che ascoltano il padre per parlare del figlio rendendo ingiusto il ruolo di erede, prima di quello di erede calcistico. Intanto ha rotto il cordone con il passato dell’ingombrante genitore: al Como è per due anni, non più in prestito, quindi cerca comunque l’indipendenza pur conservando il sogno di segnare sempre lui, adesso. Ha cominciato a Como, ha fatto il bis da azzurrino e sente l’eco di quell’incoraggiamento del papà, che lo vede meglio di sé: «Vede la porta in un modo splendido, è un attaccante moderno, di manovra. Non sta piantato in area come facevo io».

È difficile arrivare da qualsiasi parte ed essere valutato come Simone, non come il-figlio-di-Ganz e quindi convivere con la grande attesa e con i giornalisti che ascoltano il padre per parlare del figlio.

Serve seguirlo per capire quanto dura il fiuto del gol. Ereditario davvero, se Roberto Insigne ha già segnato sei volte in otto partite di Lega Pro: due alla Casertana, uno alla Paganese, ma soprattutto tre al Cosenza, e questo è un derby che lì ti rende eroe. Insigne, come Lorenzo che è il fratello maggiore, anche se maggiore qui sta per ventitrenne perché lui invece di anni ne ha venti. Due piccoli bomber, che si vanno facendo largo: Lorenzo è arrivato già a un Mondiale, al Napoli, alla Champions e adesso tocca a Roberto, che nemmeno a dirlo, ha già ricevuto la benedizione del congiunto famoso (peraltro di famiglia di talenti, visto che anche Antonio e Marco, gli altri due fratelli di 27 e 19 anni, giocano nei dilettanti campani): «Gli faccio i complimenti per come sta giocando e segnando. Deve lavorare e rimanere sempre con i piedi per terra. Magari un giorno saremo insieme nel Napoli ma per adesso deve dare il massimo e pensare al presente». Roberto, l’Insigne piccolo, ha accarezzato per un po’ l’idea di essere subito al Napoli, convocato per i preliminari di Champions e finito in tribuna: poi ha scelto la via delle serie inferiori, i riflettori più bassi eppure più sicuri. Così, segna e si fa vedere: quella tripletta, peraltro con il terzo gol di bellezza, potenza, rapidità che solo chi possiede davvero qualità per arrampicarsi sui muri più alti del calcio può segnare. Gli altri due sono molto da contropiedista, perché Roberto lo è più di Lorenzo, oltre a essere più sfacciato del timido fratello, ragazzo garbato capace di piangere dopo un gol. Roberto è guascone, orgoglioso: nel suo pressoché inoperoso profilo Twitter ha la foto delle due magliette del Napoli appese nello spogliatoio, la sua 42 e la 24 di Lorenzo. Ora veste quella della Reggina e a casa ha un pallone in più, quello della tripletta che avvicina già il suo obiettivo: «Spero di arrivare a quindici gol», per poi scambiarsi telefonate o messaggi con chi segna pure ma un po’ più in alto.

Aspettandolo, perché di Roberto Insigne si continua a parlare per la sua qualità e non solo per la parentela, messo sulla buona strada da uno come Ciccio Cozza che un po’ si specchia nel gioco del giovane pupillo che ora sta completando un curioso giro del destino: quello che lo ha portato adesso dove non era arrivato a 14 anni, quando provò con la Reggina, fu visto da una volpe come Giacchetta ma non tesserato perché troppo piccolo e perché lui stesso poco convinto di lasciare Napoli, almeno allora. E forse anche adesso, perché l’obiettivo è tornare. Però giocare a Reggio Calabria è un dono che va oltre la categoria: la piazza che reclama calcio e sa riconoscere un campione, lo stadio, il blasone, quel pallone vissuto anche altrove e toccato da piedi sublimi (come Pirlo, per dirne uno senza faticare troppo con la memoria). Una di quelle città che, se riesci a sfondare, ti dicono da solo che sei pronto per il pallone di alto livello, per i fischi e le ovazioni, per il caldo e per il calcio. Due gol, poi uno, poi tre e saluti alla frattura del metatarso che l’anno scorso lo ha bloccato per mezza stagione nel suo lancio tra i professionisti, con il Perugia al quale ha dato solo un gol, in otto partite da giovanissimo titolare. Prima erano stati 24 minuti con il Psv in Europa League e quattro minuti in campionato contro il Palermo, quando Mazzarri gli disse «bimbo, scaldati» e lo mandò dentro al posto di Hamsik, con indosso i colori di una città che è sua, punto di partenza (con 24 gol in 45 partite con la Primavera) e ideale punto di arrivo.

Segna, fa assist. Non compete in famiglia, ma non cede il pallone nemmeno alla fidanzata, che dopo l’hat trick glielo aveva chiesto come regalo e invece è «un ricordo che voglio tutto per me», detto in modo secco da quel bambino che a un certo punto voleva diventare ciclista mentre Lorenzo pensava sempre al pallone. Così ha raccontato Antonio, il più grande degli Insigne: «Fummo noi familiari a portarlo nella scuola calcio e ci accorgemmo subito del suo talento». Gli è rimasto lo spirito: quello dello scalatore, che è tornato un attimo in basso per fare la salita con coraggio. Si può fare. Perché il gol è questione di famiglia, il talento può essere trasmesso, se ti chiami Simone Ganz e sei il figlio di Maurizio, se ti chiami Roberto Insigne e sei il fratello di Lorenzo, e se lo dimostri. Per ora in Lega Pro, ma tenuti d’occhio e visti bene.