Attualità

La fine della stampa cinese?

Si chiama “approfondimento della riforma culturale.” Prevede obbedienza totale, ma autofinanziata

di Claudia Astarita

Tagli ai sussidi per l’editoria anche a Pechino. Se è un momento particolarmente nero per la stampa cinese, non è soltanto perché decine di giornalisti, ogni anno, continuano a essere arrestati, a scomparire o a essere licenziati senza ragione. Ma, soprattutto, perché i principali quotidiani del paese sono passati, uno dopo l’altro, sotto il diretto controllo dell’Ufficio centrale di propaganda.

La campagna per far tacere le (pochissime) riviste che ancora si comportano come se in Cina esistesse la libertà di stampa è stata studiata bene. Onde “promuoverne l’indipendenza” della stampa il partito ha cancellato i sussidi garantiti fino ad oggi, imponendo di trovare un modo alternativo per raccogliere finanziamenti – cosa che comunque non elimina la direttiva di rimanere allineati alla linea editoriale “suggerita” dal partito. Obbedienza totale, insomma, ma autofinanziata.

E oggi anche quelle piccole redazioni che hanno fatto di tutto pur di mantenere un minimo di indipendenza verranno zittite. Probabilmente per sempre. Una prospettiva che ha spinto alcuni direttori a esprimere per la prima volta il proprio disappunto con la massima franchezza. Ammettendo di non aver ormai più nulla da perdere.

L’hanno chiamata “approfondimento della riforma culturale”, ma Du Daozheng, 88 anni, il giornalista che ha fondato 21 anni fa Yanhuang Chunqiu, ha continuato a lungo a far finta di non esserne a conoscenza. E quando il Partito lo ha sollecitato a uniformarsi alle normative “culturali” appena approvate, ha convocato tutto il suo staff per dare anche a loro qualche informazione in più sul futuro della testata. “C’è chi vuole costringerci a rispettare nuove ‘regole culturali’ solo per farci cambiare una linea editoriale che ci contraddistingue ormai da vent’anni. I funzionari del Ministero della Cultura mi hanno ‘invitato’ in più occasioni a dare le dimissioni per ‘lasciare spazio alle idee più fresche delle nuove generazioni’, ma è evidente che si tratta di un modo gentile poter finire di implementare la nuova ‘riforma culturale’. Per un direttore giovane sarà di certo più difficile non obbedire a un burocrate di Pechino”.

Per la cronaca, svecchiamento e questione generazionale sono solo un pretesto. A fianco del direttore ultra-ottantenne si sono schierate figure molto più giovani, come Hu Dehua, figlio del riformista Hu Yaobang, lo scrittore Zhang Yihe, e altri figli di funzionari importanti. Confermando che tra le nuove generazioni non tutti accolgono le iniziative di censura e propaganda con entusiasmo.

Quanto al taglio dei sussidi in nome dell’indipendenza, la vicenda del quotidiano Yanhuang Chunqiu dimostra che anche chi si è tenuto alla larga dei finanziamenti statali ha ricevuto pressioni fortissime da parte del Partito. Infatti il direttore Du Daozheng ha spiegato al suo che proprio per evitare di ricevere pressioni ha smesso da tempo di accettare i sussidi governativi (quindi il governo non avrebbe nessun diritto di obbligarli ad adottare alcuna modifica), ma ha mantenuto il più assoluto riserbo sui suoi finanziatori per evitare di metterli nei guai.

L’idea della ristrutturazione è quella di trasformare quotidiani e riviste in redazioni in grado di accumulare profitti da dividere tra investitori che più che ai guadagni sono interessati a evitare che vengano pubblicati articoli in qualche modo “imbarazzanti” per Pechino. Non possiamo sapere per quanto tempo ancora Du Daozheng riuscirà a portare avanti la sua crociata solitaria, ma alcuni osservatori si aspettano che la nuova “riforma culturale” possa spaventarli al punto da decidere di mollare.

Ciò che spaventa nella Cina di oggi è che Pechino riesca con sempre maggiore facilità a far valere il suo punto di vista non solo nelle province della Repubblica popolare, ma anche a Hong Kong, dove alla fine di un estenuante braccio di ferro è stato confermato come nuovo direttore del South China Morning Post Wang Xiangwei, il primo “cinese” chiamato a guidare quella che fino a ieri è stata considerata la testata principale dell’Asia orientale. Un giornalista che si è formato al China Daily, il quotidiano che rappresenta da sempre una delle voci più affidabili del Partito, e che anche per questo ha ottenuto immediatamente l’approvazione di Pechino.

Eppure, sono stati in tanti nell’ex colonia a lamentarsi per questa “decisione assurda, antiliberale e pericolosa”. Non avendo dimenticato che già da tempo il South China Morning Post ha smesso di pubblicare inchieste che avrebbero potuto apparire come troppo destabilizzanti per il governo cinese. E anche se i reporter in prima linea continueranno a fare il loro lavoro denunciando gli abusi e gli scandali della Cina, è evidente che da Hong Kong basteranno un paio di click per cancellare i dettali più imbarazzanti e trasformare così la testata nell’ennesimo quotidiano pro-Pechino. Anche a costo di perdere una grossa fetta dei suoi 100 mila lettori.