Attualità

La fine del Pd?

Perché la strada che il Partito Democratico sta imboccando segna forse il tramonto del progetto originario: un partito aperto, leggero e di governo.

di Claudio Cerasa

Sabato prossimo, quando oltre mille delegati del Pd si riuniranno a Roma per eleggere il successore di Pier Luigi Bersani alla segreteria, l’assemblea del Partito democratico, oltre che mettere ai voti la candidatura del leader pro tempore, con ogni probabilità certificherà in modo plastico l’inizio di una nuova era per la sinistra italiana che potremmo sintetizzare così: la fine del Pd.

Questa volta non si tratta di parlare di microscissioni e microesplosioni perché, al fondo, il Partito democratico è più solido di quello che molti commentatori possano credere e perché le varie correnti e correntine sanno che ormai in Italia conviene essere la piccola ruota di un grande carro piuttosto che – facendo magari la fine di Rutelli e Fini – la grande ruota di un piccolo carro. No, qui il problema è un altro e riguarda la costitutency del Pd e il suo rapporto da un lato con il (suo) governo e dall’altro con il Manuale Cencelli. La storia la sapete: il Pd sta cercando disperatamente un personaggio di sinistra non sgradito alla Cgil per riequilibrare il profilo dell’uomo del Pd che sta guidando l’esecutivo, che come è noto è Enrico Letta e che come è noto è un ex margheritino. Il Pd sa che sarebbe “sconveniente” far guidare il partito a un altro ex margherita e sa che per evitare di sbilanciare il partito verso il centro occorre avere un segretario che rappresenti l’altro lato della medaglia del partito, e dunque un ex Ds, un ex Pds, un ex Pci, un qualcuno che possa essere facilmente identificato “dalla base” come appartenente a una storia alternativa a quella di Enrico Letta.

Questa la premessa, poi ci sono le conseguenze di questa compulsiva consultazione del Manuale Cencelli (un diesse di qua e un margheritino di là), e le conseguenze segnano in qualche modo davvero la fine del Pd per come abbiamo provato a conoscerlo negli ultimi sei anni e mezzo, e sabato prossimo, dietro le mani che verranno alzate per eleggere il successore di Bersani, potrebbe intravedersi drammaticamente la trasformazione del Pd in un partito non più liquido, leggero, aperto, americano, riformista, ma in un partito chiuso, pesante, conservatore e soprattutto molto italiano, molto prima repubblica.

Due gli indizi che potrebbero portare su questa strada: da un lato il criterio per la scelta del segretario, dall’altra la modalità di scelta del segretario. La questione della modalità della scelta è presto spiegata: il Pd – in questa grande fase di difficoltà in cui vive il dramma di dover spiegare al suo popolo la scelta di stringere un’alleanza di governo con lo stesso Caimano descritto dal Pd fino a qualche giorno fa come un Diavolo a tre teste perfetto per occupare uno dei più infernali gironi danteschi – piuttosto che tentare di sfruttare l’occasione storica di riscrivere con spirito costituente le regole del gioco con i nemici di una vita, ha scelto di chiudersi su se stesso e di rinunciare alla possibilità di eleggere il suo segretario con quella stessa tecnica che aveva trasformato il segretario del Pd in una figura forte, innovativa e pienamente legittimata dal suo popolo: le primarie. Invece no: il Pd sta discutendo in questi giorni se al prossimo congresso (che sarà in autunno) non valga la pena di trasformare l’elezione dal “basso” del segretario, in un’elezione dall’“alto” del segretario e in sostanza (cosa alla quale, clamorosamente, sarebbe d’accordo anche il più americano dei leader del Pd, Matteo Renzi) di sostituire gli iscritti ai militanti per evitare sorprese e per avere, in una logica complicata da decifrare, un leader del partito che sappia rappresentare bene ciò che deve rappresentare in questa fase Cencelli.

Secondo problema: la scelta, ancora una volta, di separare in modo esplicito la leadership di un partito con la leadership della coalizione, e in questo caso addirittura del premier. Qui il problema è più sottile ma per certi versi più grave, e anche se in molti nel Pd fanno finta di niente e fischiettano allegramente parlando di questo tema senza rendersi conto delle gravi conseguenze che la scelta potrebbe portare, la non coincidenza tra leadership e premiership rischia di trasformare il Pd in una creatura più simile ai partiti del passato che ai partiti del futuro. Intendiamoci: è comprensibile che il Pd sia preoccupato, tra le altre cose, che uno sbilanciamento “verso il centro” rischi di far imbestialire l’azionista di maggioranza più di sinistra del partito, ovvero la Cgil, ma il fatto che (a) nessuno abbia pensato che Enrico Letta oltre che fare il presidente del Consiglio dovrebbe fare anche il leader del Pd, e che (b) nessuno abbia ancora alzato la mano per opporsi a quella modifica dello statuto che dovrebbe essere presentato sabato in Assemblea nazionale del Pd, e che separerà in modo distinto la figura del prossimo candidato premier con quella del prossimo segretario del Pd, apre degli scenari che sarebbe da matti non considerare.

Perché qui non si tratta soltanto della questione Cencelli, bensì di un problema più grave che dietro il termine “equilibrio” nasconde la parola, e stavolta davvero, “scissione”. Anche qui il problema è semplice: un leader di sinistra, o in qualche modo alternativo all’attuale premier, rischia di non portare soltanto a un equilibrio del centrosinistra, ma rischia di diventare una figura alternativa rispetto allo stesso premier, e considerando che il Pd vive con sofferenza un’occasione storica come quella della grande coalizione non è facile prevedere che se il Pd avrà un leader molto di sinistra, questo leader diventerà una spina nel fianco dello stesso governo del Pd, e in qualche modo nei prossimi mesi piuttosto che togliere le famose castagne dal fuoco al presidente Enrico Letta contribuirà a far divampare l’incendio sotto la sedia dell’attuale presidente del Consiglio. Il senso del Pd invece, come è noto, era quello di essere qualcosa di diverso rispetto a un partito di lotta e di governo. Doveva essere un partito di governo, punto. E se il Pd prenderà davvero la strada che sembra voler prendere, il rischio è che a furia di sfogliare il Cencelli il Pd di lotta e di governo sarà sempre più di lotta e inevitabilmente sempre meno di governo. Ne vale davvero la pena?