Attualità

L’eroina come estetica

Da Noi i ragazzi dello zoo di Berlino ai diari di Jim Carroll, il fascino tragico dell'heroin chic persiste, in letteratura e al cinema.

di Cristiano de Majo

Io non so cos’è l’eroina. Ho fatto uso o soltanto provato negli anni diverse sostanze, ma l’eroina mai. Molti anni fa ho avuto amici che la fumavano e mi hanno invitato a farlo, oppure persone molto intime che si bucavano prima di essere costretti a seguire duri programmi di recupero, posso vantare anche un paio di conoscenti morti per overdose. Forse la massiccia campagna di sensibilizzazione – qualcuno ricorderà Chi ti droga ti spegne, lo spot degli occhi bianchi (1989) – avviata dai mass media proprio all’inizio della mia adolescenza, ha avuto su di me un qualche tipo di effetto. Lo spot degli occhi bianchi non parlava esplicitamente di eroina, ma in quegli anni era ancora l’eroina la principale paura delle madri e dei padri, era dell’eroina che la società aveva paura, l’eroina era la droga. E adesso non credo sia più così.

Avrò avuto dodici anni la sera in cui a casa mi proibirono di guardare in tv Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, il famosissimo film tratto dal libro-verità di Christiane Vera Felscherinow, eroinomane fin dall’età di tredici anni nella Berlino Ovest pre-unificazione. Lo guardai lo stesso e, anche se non lo rivedo da un secolo, la sensazione che ricordo è quella di un film che faceva venire voglia di drogarsi o, più precisamente, voglia di eroina. La conferma a questa sensazione è che quasi tutte le persone che conosco, utilizzatori anche sporadici di eroina, citavano quel film come se fosse il mito di fondazione della loro tossicomania.

Ma, Christiane F. è soltanto l’esempio più lampante, più pop, di quella che gli integralisti indignati definiscono la cultura della droga (o dello sballo), individuando in alcuni prodotti culturali (libri, film, dischi, eccetera) una forma di fiancheggiamento o addirittura di invito al consumo di sostanze.  E io, in un certo senso, senza arrivare alle loro conclusioni, mi sento di dare ragione agli integralisti: la cultura della droga (o dello sballo) esiste. E per l’eroina, in particolare, esiste un immaginario letterario e cinematografico molto ricco, stilizzato, potente: libri, film, dischi, eccetera, per lo più cose degli anni Settanta, anche se si deve far risalire agli anni Novanta la riscoperta culturale dell’eroina come estetica, il cosiddetto heroin-chic, nato soprattutto della nuova immagine delle modelle scarnificate alla Kate Moss che rimpiazzò la precedente tendenza di donne sportive e salutari alla Cindy Crawford , ma sostenuto dall’uscita in quel periodo di film come Trainspotting e Pulp Fiction, oltre che dal successo planetario di un eroinomane come Kurt Cobain.

Ascoltiamo un disco di Lou Reed, o più precisamente ascoltiamo Perfect Day, e leggiamo un fumetto di Andrea Pazienza o Requiem for a Dream, e guardiamo Noi i ragazzi dello zoo di Berlino o Trainspotting, e andiamo a una mostra di Nan Goldin, e ci accarezza l’idea di una siringa nelle vene sullo sfondo di una scalcinata periferia occidentale, così come ascoltando un disco di Sizzla o di Buju Banton desideriamo essere, o anzi ci sentiamo, su una spiaggia giamaicana con una enorme canna tra le labbra a intonare lodi a Jah. Magia del rapimento estetico. Con la differenza che quella dell’eroinomane è una condizione ben poco desiderabile. È il regno della dissipazione mentale e della consunzione fisica, è il più violento auto-degrado che si conosca. Ma è proprio in questa voragine che, da lettori o spettatori, si sogna di essere risucchiati.

Se nel 1979 esce in Germania il già citato libro intervista della Felscherinow, il  1978 sembra un anno ancora più importante per la costruzione dell’estetica in questione. Escono, infatti, due libri fondamentali. Il romanzo di Hubert Selby Jr. Requiem for a Dream, che molti anni dopo Darren Aronofsky tradurrà in un bellissimo film con una splendida Jennifer Connelly ultra heroin-chic – un testo linguisticamente sincopato, vorticoso, cattivissimo – ma escono anche i diari di Jim Carroll, pubblicati in Italia prima da Frassinelli e oggi ripescati da minimum fax, in una nuova edizione curata e tradotta da Tiziana Lo Porto, che conserva il vecchio titolo Jim entra nel campo da basket, noti in Italia soprattutto per avere ispirato il film con Leonardo Di Caprio Ritorno dal nulla, altro riferimento obbligato per l’heroin-chic anni Novanta.

I diari che, appunto, furono pubblicati nel 1978 in America riguardano però un periodo della vita di Carroll —  poeta, musicista e personaggio chiave della cosiddetta controcultura americana – molto precedente. Il racconto parte infatti dal 1963, quando cioè l’autore aveva tredici anni ed era un piccolo campione del basket newyorkese. La versione ufficiale vuole che siano effettivamente stati scritti da Carroll all’età di tredici anni e solo montati in seguito, ma di fronte alla compattezza stilistica, esempio caratteristico di prosa simil-spontanea di discendenza salingeriana, suona più probabile l’ipotesi che si tratti di un memoir scritto da Carroll anni dopo i fatti, emulando la voce di un se stesso ragazzino; un’ipotesi che tra l’altro lo rende anche più interessante sul piano letterario.

A leggerla oggi la storia ricorda le altre storie più o meno romanzate di adolescenti o pre-adolescenti tossici. Una normalissima vita piccolo borghese, la scuola, gli amici, le giornate in strada, lo sport e poi l’incontro con la droga, lo sprofondamento progressivo, i furtarelli, la violenza, le marchette, il riformatorio e poi il labirinto di cui non si trova l’uscita. Ma l’aspetto che rende il testo unico, oltre che simbolicamente americano, è una forma di schizofrenia interpretata dal personaggio Carroll. L’adolescente tossico, infatti, ha pessime frequentazioni e altrettanto pessime abitudini, ma è anche uno studente brillante, un aspirante poeta e un bravissimo giocatore di basket, almeno fin quando gli regge il fisico. In altre parole è un ragazzino che rappresenta la promessa di successo della società americana (la carriera scolastica, lo sport)  e al contempo porta dentro di sé i suoi antidoti (la poesia, la droga).

Se l’eroina si può leggere come una forma di premonizione della società competitiva che negli anni Sessanta-Settanta si andava strutturando, nei diari di Carroll ho trovato tra le righe la risposta più chiara alla domanda: perché l’immaginario dell’eroina è in grado di esercitare tanto fascino? E la risposta che mi sono dato è: perché sul piano politico l’eroina è la prima rivoluzione individuale della storia, mentre su quello estetico è l’ultimo respiro del romanticismo.