Attualità

Ke$ha

Genesi di una starlet americana, ovvero "portiamola sotto il livello del suo pubblico"

di Violetta Bellocchio

Per quando leggerete questo pezzo avrò insegnato a una summer school. (Come tutti.) Avrò passato sei ore a mostrare cosa si può fare di costruttivo, qui e ora, invitando i giovani scrittori presenti a seguire il motto “siate meno stupidi”. E alla quinta di quelle ore avrò toccato la fallibilità teorica dell’argomento noto come so bad it’s good. In italiano: “talmente brutto che fa il giro”, “epocale, perché le sbaglia tutte”.

Allora avremo parlato di Ke$ha.

Responsabile di parecchi successi da classifica degli ultimi 10 anni, il produttore Dr. Luke può vantarsi di aver scoperto l’allora diciottenne Kesha Sebert, un’aspirante cantautrice che abitava a Nashville insieme alla madre, compositrice anche lei. Dr. Luke le ha offerto un lavoro nel 2005, dopo aver ascoltato il suo demo. Per come l’ha raccontato a Billboard, su quel demo c’era una ballata country, scritta e cantata molto professionalmente, e c’era un pezzo tremendo, una base trip hop con la ragazza che ci rappava sopra, malissimo. Sebert è stata convocata dal titano della pop music sulla base del secondo brano. Motivazione: «quando ascolti 100 CD, quel genere di spacconaggine si fa notare.». Non è la leggenda: è andata così. Compreso il fatto che fama e fortuna non sono arrivati subito, con l’invito a trasferirsi a Los Angeles e il primo contratto, e che lei si è aggiunta quel dollar sign al nome a mo’ di auto-presa per il culo, dato che per mantenersi faceva la cameriera, e la licenziavano spesso.

Cos’è capitato, dopo? Ke$ha ha fatto il botto con un album, Animal, a cui mancava solo il bollino “Attenzione: Fa Schifo”. È andato benone anche l’EP successivo, Cannibal. Due dischi in cui una donna giovane e intonata viene fatta cantare male apposta, con una serie di video in cui viene conciata male apposta. “Lei è sporca! Non ha voce! Si mette il glitter, ma non si lava i denti dal 1999! Amici: lei puzza!”. Di suo, Kesha Sebert è una bellezza nel senso più convenzionale del termine: capelli biondi, occhioni, corpo magro, slanciato. La perfetta starlet americana degli ultimi sessant’anni. Non c’era Wanda Jackson qui dentro, che aspettava di essere portata alla luce, e nemmeno Ester Dean; c’erano Britney Spears e Debbie Gibson. Ma stavolta alla possibile ragazza della porta accanto è stato applicato il filtro “portiamola molto sotto il livello del suo pubblico”. Se avete mai avuto una babysitter eroinomane che vi ha incoraggiato a tagliare i capelli alla vostra Barbie, tanto poi le ricrescevano, il prodotto finito somigliava a Ke$ha. L’avete anche truccata col pennarello blu.

Una teoria popolare non provata da nulla sostiene che la musica e l’immagine di Ke$ha vadano fatti risalire a una strategia comune: creare la parodia di una popstar. Per il video di Tik Tok si parlò di Hipster Britney; l’inevitabile (e vaghissimo) inno anti-bullismo, We R Who We R, avrebbe potuto cantarlo Katy Perry. Torna tutto, no? Magari. Vi piacerebbe, ricondurre Ke-dollar sign-ha a una raffinata provocazione. Qui va tutto preso sul serio.

Non tutto è stato calato dall’alto, però. Kesha Sebert ha avuto una certa voce in capitolo per quanto riguarda se non la creazione di Ke$ha il suo mantenimento: il tumblr Put Your Beard In My Mouth è, in effetti, roba sua; Twitter è la piattaforma su cui carica foto di se stessa che piscia per strada, e poi si tatua “suck it” nell’interno del labbro inferiore. Sul tappeto rosso porta vestiti fatti con le borse dell’immondizia.

(Parentesi. Nel passato recente, personalità femminili che uscivano di casa con indosso abiti “eccentrici” o “pittoreschi” andavano fisse nella lista delle worst dressed, e poi quegli abiti avevano – in una certa misura – una loro storia, al di là di chi li aveva portati: il vestito a pavone, la sirenetta, il cigno… Oggi di Ke$ha ricordiamo il tono generale, non le singole mise, per quanto eccessive.)

In base a questa logica, la cantante è sempre un successo, anche quando non ha nessun prodotto da spingere. Resta nel ciclo delle notizie 24/7 perché permette ai portali di musica/costume di scrivere sempre nuovi pezzi e chiamarli «le sei cose più raffinate dette da Ke$ha», o, in tono meno sentiamoci-superiori e più capiamo-i-ragazzi-di-oggi, «le venti dichiarazioni più controverse di Ke$ha». (Uh, lo sapete per cosa viene considerata controversa? Ha detto che le è capitato di baciare con la lingua delle donne, e le è piaciuto molto, ma le piace di più il cazzo. E l’80% di voi sta investendo in un Diventa Ke$ha! Glitter Kit qui e ora, perché le basi le avete già coperte.)

Il concetto di parodia però non è così fuori luogo, qui. Il maggior risultato di Dr. Luke e Kesha Sebert è l’aver creato un prodotto impossibile da prendere in giro. La formula può essere imitata (al di là del successo: Dev?), ma chi ha provato a sfotterla si è dovuto arrendere all’evidenza, come The Onion, con l’intervista alla falsa popstar K’ronikka – l’originale vanifica qualsiasi tentativo di sabotaggio. Al massimo puoi deridere  l’inseguimento di certi media a una nuova Principessa del Brutto Assoluto, o la ricerca ossessiva di modelli diseducativi contro cui puntare il ditone. Quello sì. (Io però ho riso tanto quando “K’ronikka” annuncia l’imminente collaborazione con il rapper Pitbull, che esiste davvero, e fa sul serio.) Nel video di Blow, la trama prevede che Ke$ha si dia battaglia con l’ex divo adolescente James van der Beek, nei panni ormai a lui abituali di un “se stesso” volgare e cafone. Guardatelo: è una doppia curiosa parabola verso il peggio, con lui che ammicca, eh sì, sono una gran faccia da culo, e lei che risponde, siamo terribili tutti e due! . La folla è in delirio.

E arriviamo a oggi.

Il 2012 dovrebbe essere l’anno del nuovo album di Ke$ha, che da due anni lei ripete non sarà per niente come i precedenti, e renderà omaggio alle sue vere passioni: il cock rock anni ’70 e la vita in tournée. Come a dire, fino a qui l’ho fatto perché ero sotto contratto, dovevo farmi un nome; adesso conoscerete la ragazza dietro i sacchi della spazzatura. La vera Kesha Sebert dovrebbe essere quella che ha collaborato con i Flaming Lips; quella che elenca le sue canzoni preferite a Rolling Stone, e su dieci solo due sono state incise dopo il 1986, e nessuna di quelle dieci è dance, o pop, o electro, o ascrivibile anche vagamente a qualsiasi genere frequenti per lavoro. Segnali incoraggianti. Ovviamente l’unico assaggio del nuovo album suona molto come quello vecchio. Ora io esco, poi torno e muoio un po’ dentro.

(La fatica che sto facendo a digitare Ke$ha con la “$” non è degna di chi non ha problemi a digitare “Akon”, e a custodire tre brani di Akon nel proprio computer, e cantarne uno mentre cerca un tabacchi notturno. Misoginia interna, quindi. Chiedo scusa. Restando un attimo in argomento, non avrei mai voluto leggere cose dal titolo “Ke$ha è la kryptonite dell’uomo nero?“: ne colgo l’intento ironico, ma se nel 2012 dobbiamo inchiodare il discorso a “passera ariana forse distrugge credibilità di acclamato artista hip hop”, non si va a finire bene.)

Sulla biografia di Kesha Sebert non è stata posta troppa attenzione, se non per dire che lei “non è una bambina viziata di Beverly Hills”, ma la sua storia sembrava fatta apposta per iscriverla nel paradigma “musica = riscatto”: è cresciuta senza soldi, vuole bene alla mamma e al fratello, ha fatto lavori faticosi, non qualificati. E’ una di noi. Una che canta Dead Flowers, e incide una versione sentimentale di Don’t Think Twice, It’s All Right. Sono cose belle. Se non è su di loro che si è puntato, una ragione c’è.

La filosofia del so bad it’s good fino a non troppo tempo fa si poteva scambiare per trasgressiva, in termini di rapporto col testo; una rivendicazione del potenziale eversivo di certe opere brutte, e insieme del gusto del singolo, che cercava un abbraccio rassicurante da parte del prodotto fallito, quindi “simpatico” e caciarone. Probabile che facesse tutto parte di una strategia sul lungo periodo volta ad abbassare per gradi gli standard qualitativi di chi compra / legge / guarda / ascolta. Ma sul piano di film e TV la pratica di amare la merda una storia ce l’ha, una specie, almeno: lo Sci-Fi Channel, ora SyFy, a proposito di cose che compiono vent’anni nel 2012, si vanta della bruttezza dei suoi “film originali”, finanziati dalla rete o comprati in esclusiva. Anche nell’editoria ci sono stati fenomeni di hate reading – il più evidente, chi si è accollato quattro volumi di Twilight per odiarli con cognizione di causa – ma sono scattati quando il libro o la rivista era già un successo commerciale o stava per diventarlo. E hanno molto a che fare con la curiosità, il voler maturare un parere individuale.

Chi ascolta musica brutta di solito ci ricava qualche cosa, in termini emotivi personali; lo fa perché quella musica gli piace, oppure perché lo porta più vicino a qualcuno, al limite anche solo a un’idea di pop. Appaga un bisogno, insomma. Ma anche il peggior album è prodotto con l’idea di andare incontro a un gusto. Mentre – fino a qui – gli unici casi di merda proposta tale e quale, col solo valore aggiunto del “questo disco fa schifo! “, sono stati fenomeni minimi, a volte legati ai talent show televisivi e ai concorrenti fatti esibire solo per eliminarli subito (e tutti ridono) o per far sembrare più bravi e preparati gli altri.

Non so in quale categoria ricada Kesha Sebert. Spero solo che il suo prossimo album non sia talmente brutto da fare il giro.