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Istanbul United

Come è nato il processo (con l'accusa di golpe) ai tifosi del Besiktas, in seguito alle proteste di Gezi Park? Da una lunga storia che intreccia calcio e politica, in tutta Istanbul. In cui le squadre, più o meno, sono composte dagli ultras contro Erdogan.

di Cristoforo Spinella

«Se davvero fossimo al potere, faremmo vincere lo scudetto al Beşiktaş». Davanti al giudice del tribunale di Istanbul che gli chiede se, insieme ad altri 34 membri della tifoseria organizzata Çarşı, abbia ordito un colpo di Stato, Cem Yakışkan risponde strappando sorrisi e occhiatacce. Campione, in effetti, il Beşiktaş non lo è dal 2009. Ma non è uno scherzo, questo processo evento che rischia di decapitare uno dei gruppi ultras più caldi di Turchia. L’accusa pare insolita, ma non da queste parti: “tentativo di rovesciare il governo” durante le proteste di piazza esplose nella tarda primavera del 2013 al parco Gezi di Istanbul, quando il mondo intero scoprì un Paese in rivolta, ben lontano dall’immagine pacificata del boom economico cullata da famelici finanzieri e media compiacenti. Un anno e mezzo dopo, mentre loro respingono tutte le accuse, un centinaio di avvocati fa a gara per difenderli in un processo in cui si discute di calcio e politica: l’essenza della Turchia.

«Questa però è stata la prima e unica volta in cui i tifosi si sono uniti e hanno preso posizione contro la stessa cosa, l’autorità e la sua violenza»

Poco più in là, appena fuori dal tribunale, le melodie da stadio si piegano alla richiesta di liberazione degli imputati, in un tripudio di bandiere bianconere, gialloblù e giallorosse. A protestare l’innocenza dei tifosi del Beşiktaş, ci sono (anche) quelli di Fenerbahçe e Galatasaray. Strano? Stranissimo. I protagonisti di tanti infuocati derby di Istanbul, non di rado finiti in guerriglia per le strade, lì a cantare insieme, e per lo stesso motivo. Gli stessi che, nell’aprile del 1996, furono sull’orlo di una rivolta dopo che all’allora tecnico del Galatasaray, Graeme Souness, venne in mente di festeggiare la vittoria della coppa di Turchia piantando un bandierone della sua squadra al centro del campo di gioco del Fenerbahçe appena sconfitto. Un’alleanza improbabile diventata opzione reale fuori dal campo e poi sperimentata nelle piazze. In un Paese dove il calcio è molto di più che la partita, e le identità derivano da rigide appartenenze geografiche e familiari, il tifo ha trovato unità nella politica. Così nei giorni di Gezi, tra getti d’acqua che sembravano pallottole e manganelli in libertà, è nato Istanbul United. Un fenomeno, questo, raccontato anche da un documentario prodotto con il crowdfunding. «Di solito queste società competono in tutto (sono tutte polisportive, nda), e pure quando giocano a scacchi l’atmosfera è tutta da vivere» racconta Bağıs Erten, giornalista e docente di comunicazione dello sport all’Università Kadir Has di Istanbul. «Questa però è stata la prima e unica volta in cui i tifosi si sono uniti e hanno preso posizione contro la stessa cosa, l’autorità e la sua violenza».

Ma come si è finiti in tribunale? Human Rights Watch, per dire, non si abbandona alla prudenza: «Processare questi tifosi del Beşiktaş come nemici dello Stato per aver partecipato a una protesta pubblica è una ridicola farsa». Per l’accusa, i Çarşı avrebbero immaginato di assaltare gli uffici dell’allora primo ministro Tayyip Erdoğan per provocare “una sollevazione come le Primavere Arabe”. «Come può un gruppo di tifosi rovesciare un governo? Questo processo è uno show per intimorirli e indurli a non partecipare alle manifestazioni politiche», ipotizza Erten. In Turchia le azioni contro gli oppositori al partito di ispirazione islamica Ak, al potere dal 2002, continuano a fioccare. E i Çarşı oppositori lo sono di certo. Tifoseria di ispirazione anarchica nata nel 1982 e da sempre molto impegnata socialmente – dai diritti dei minori alle grandi catastrofi fino alla lotta contro il nucleare – con la polizia si è scontrata più volte allo stadio e in piazza, inclusa Gezi. Un gruppo tanto caldo da spezzare il record di rumore registrato all’interno di uno stadio: 132 decibel di urla, fischi e rulli di tamburi durante il match di Champions contro il Liverpool dell’ottobre 2007. Praticamente, come una sparatoria durata due ore. Ma per i magistrati sarebbero addirittura una “organizzazione armata”. Insomma, si è già ben oltre il calcio. Oppure no?

«Dopo il golpe del 1980, il regime ha visto nella popolarità del calcio uno strumento per rimpiazzare i movimenti sociali di sinistra degli anni Settanta. Così è stato individuato come fonte di intrattenimento, con un tocco di nazionalismo latente. In questo quadro, non si presumeva che diventasse politicizzato. Ma dal 2010 l’Akp ha cercato di controllare tutte le sfere culturali, compreso il calcio, per trasformarle. E i tifosi sono un obiettivo diretto di questa trasformazione». Daghan Irak è ricercatore dell’unità Sport e Società all’Università di Strasburgo e studia le dinamiche che legano il calcio agli altri fenomeni pubblici. Sulle accuse agli ultras, lui ha le idee chiare: «Il processo ai Çarşı è uno dei processi spettacolo con motivazioni politiche a cui siamo stati abituati dal 2010. Le accuse sono ridicole e rivelano lo spirito di vendetta dell’Akp, che usa la giustizia per colpire i dissidenti. Ma non deve essere preso alla leggera: se troveranno un modo, li condanneranno per intimidire l’opinione pubblica che li ha adottati dopo Gezi».

L’influenza del calcio nella società turca, spiega, va molto al di là di quello che succede in campo: «Le grandi squadre di Istanbul appartengono a quartieri moderni, dove i partiti di opposizione sono piuttosto forti: a Beşiktaş e Kadıköy (quest’ultimo è il quartiere del Fenerbahçe, nella parte asiatica della città, nda) il maggior partito di opposizione Chp prende fino al 70 per cento. I tifosi sono infuriati per il tentativo del governo di introdurre nuove leggi sulla “violenza nello sport” che impongono severe condanne per la partecipazione politica e autorizzano la raccolta di informazioni sensibili. Per non parlare delle limitazioni al consumo di alcol. Così i gruppi organizzati di tifosi, che erano per lo più apolitici e vagamente nazionalisti, sono diventati molto politicizzati, e dissidenti. La questione è legata allo scontro dell’Akp con la moderna classe media, e anche se il calcio non è il cuore di questo scontro, contribuisce a diffonderlo». Il mondo del tifo turco, o almeno di quello solidamente organizzato, ha reagito in blocco percependo un nemico comune. E la Turchia ha ceduto ancor più – se possibile – alla polarizzazione tra islamisti e laici, tra un potere sempre più tentacolare e tanti contropoteri sempre più subalterni.

I gruppi organizzati di tifosi, che erano per lo più apolitici e vagamente nazionalisti, sono diventati molto politicizzati, e dissidenti.

Il tribunale, per la verità, alcuni di questi tifosi si erano abituati a frequentarlo parecchio. Quelli del Fenerbahçe, soprattutto. A decine di udienze, in questi anni, hanno accompagnato il loro presidente Aziz Yıldırım per sostenerlo pubblicamente. Quando nell’estate del 2011 scoppiò una clamorosa Calciopoli turca, con partite truccate che coinvolgevano una buona fetta della prima divisione, l’ingegnere che da oltre 15 anni guida il club ne uscì con le ossa rotte: sei anni e tre mesi di carcere per associazione a delinquere. I tifosi, però, non hanno mai dubitato della sua innocenza: «I grandi club in Turchia sono come micro-nazioni, con milioni di tifosi e un’immagine idealizzata della squadra. I loro principi, i modi di festeggiare le vittorie e lamentarsi delle sconfitte, sono simili a teorie nazionaliste. E proprio come le nazioni, quando la sopravvivenza è a rischio loro si uniscono». Al Fenerbahçe, spiega Daghan Irak, è successo esattamente questo: «Prima in tanti non erano soddisfatti di Yıldırım, ma hanno percepito l’operazione sulle partite truccate come una minaccia all’esistenza stessa del club e hanno iniziato a difendere il presidente senza riserve, rifiutando di mettere in discussione i suoi legami con persone ambigue o la precedente alleanza con il governo che ora lo perseguita. Chi lo criticava diventava “nemico del Fenerbahçe”. Così ora Yıldırım può usare il pugno di ferro contro tutti quelli che sono in disaccordo con lui. Proprio come Erdoğan».

Proponendosi come ultimo bastione a difesa della laicità nel Paese e rivendicando la sua vicinanza all’establishment militare, lo stesso Yıldırım in aula si è difeso accusando Erdoğan di colpire la squadra perché non sostiene la sua svolta conservatrice. Un paradosso, visto che del Fenerbahçe Erdoğan è tifosissimo da sempre. Ma la protesta dei tifosi non ha risparmiato il più illustre di loro, culminando nel luogo simbolo della laicità della Turchia: il mausoleo dedicato a Mustafa Kemal Atatürk ad Ankara. Eppure, a ingarbugliare ancor più le cose, delle pesantissime sanzioni Uefa al Fenerbahçe – tre anni fuori dalle competizioni europee – in patria non è rimasta traccia.

Meno coinvolti dagli eventi, si sono fatti sentire anche i tifosi del Galatasaray. Più che con parole, coi fischi. Come quelli che quattro anni fa hanno accolto Erdoğan all’inaugurazione in pompa magna della Türk Telekom Arena, lo stadio che ha preso il posto – non certo nel cuore di tutti – dello storico Ali Sami Yen. Nonostante una capienza più che doppia, restano molti i nostalgici per l’Inferno – la metafora escatologica ha diversi copyright disinteressati, da sir Alex Ferguson a Pierluigi Collina, tanto da farne un soprannome specifico – adagiato tra i palazzi di un trafficatissimo quartiere del centro di Istanbul. Un clima indiavolato che nel 1999, dopo un Galatasaray-Milan 3-2 di Champions League che negò ai rossoneri anche la retrocessione in Uefa, fece stizzire persino il compostissimo Paolo Maldini: «Nessuno può farmi credere che ci siano solo 25 mila persone in questo stadio» (i posti a sedere ufficiali, per la Federazione turca, erano 22.800). All’inaugurazione del nuovo impianto, comunque, i tifosi si sono fatti sentire, e non solo per la nostalgia del “loro” stadio. La protesta degli ultrAslan, tra l’altro, riguardava la morte di due operai nella costruzione della struttura. Un oltraggio per l’uomo che per il nuovo impianto aveva autorizzato una spesa pubblica da 250 milioni di dollari e che, almeno in questo caso, poteva contare sull’appoggio del presidente del club.

Un corto circuito tra calcio e politica da far impazzire chi crede che le due cose sia meglio – anzi, giusto – tenerle distinte. Intanto, il governo turco ha deciso di mandare poliziotti in borghese sugli spalti, controllare le attività dei gruppi organizzati sui social media, limitare il consumo di alcol negli stadi. Ma che non sia solo una questione di ordine pubblico lo aveva già chiarito l’ex ministro dello Sport, Suat Kılıç: «Abbiamo combattuto il terrorismo per trent’anni, possiamo gestire anche questo. Non voglio essere minaccioso, ma dovreste sapere che non vale la pena di mettere a rischio voi stessi e la vostra squadra. Spero che nessuno si faccia male, ma potrebbe accadere». Una relazione complicata, di cui più di tutti dovrebbe capire proprio Erdoğan, per 15 anni calciatore semi-professionista dai piedi per nulla ruvidi. Eppure, nella sua nuova Turchia, è riuscito persino nell’impresa di far dimenticare i derby.

 

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