Attualità

Insider in libertà

Autori televisivi che danno il peggio di sé. La sindrome del "Sono l'unico a dire le cose come stanno"

di Violetta Bellocchio

Molti anni fa, quando Internet si poteva ancora scambiare per una cosa nuova, Aaron Sorkin litigò con i frequentatori del message board Television Without Pity, e poi scrisse una puntata di The West Wing in cui adombrava (eufemismo) quello che era successo, e poi scrisse un’altra puntata di The West Wing in cui metteva se stesso nei panni dell’eroe senza macchia e Internet nei panni del Nemico cinico e baro, e poi disse che qualcuno lo stava obbligando a restare molto lontano dall’Internet, e poi si drogò, si disintossicò, soffrì e brigò, e alla fine scrisse la scena di The Social Network dove il Finto Eduardo Saverin spacca il portatile a un centimetro dalla faccia del Finto Mark Zuckerberg, e tutte le donne conobbero una subitanea impennata del loro ciclo fertile, e tutti gli uomini afferrarono il significato della frase «trovare un equilibrio tra la rabbia e la serenità». E da allora per nessuno ci furono mai più pene d’amore.

La storia è vera, lunga e molto ben documentata. Ma in realtà Sorkin aveva commesso un singolo errore fatale: cercare un contatto con un pubblico che considerava “dalla sua parte” – o meglio: pronto a essere travolto dal semplice fatto che lui manifestasse la propria presenza online – là dove “il pubblico” era invece piuttosto critico, e non stava aspettando Giovanni il Rivelatore. Non è stata una lezione per nessuno. Anzi. Il nuovo normale, via via, è stato l’autore che coltiva una presenza online in maniera ossessiva. E questi sono autori sempre più giovani, che con Internet ci sono cresciuti, soffrendo e brigando personalmente prima che come garanti del loro lavoro.

Da un lato avete Kurt Sutter, un ex sceneggiatore di The Shield oggi più noto per la serie da lui creata, Sons of Anarchy. Kurt Sutter è ovunque. Ha un blog, SutterInk, un account su Twitter, un canale YouTube, e qualcosa che si sta inventando in questo momento. Forse all’inizio cercava un piccolo strumento di promozione che potesse gestire lui da casa, forse cercava un modo di sentirsi meno solo mentre scriveva. (Pienamente possibile.) Resta il fatto che Sutter usa tutti questi mezzi come altrettante piattaforme sopraelevate da cui lanciare olio bollente sulle teste dei suoi nemici. Il ciclo è quello di un blogger umorale: lui s’incazza per qualcosa, esterna l’incazzatura, giura che non succederà più, mantiene un profilo basso per un paio di settimane, e ricomincia da capo. A volte documenta le sue difficoltà individuali col mezzo televisivo – Sons of Anarchy non riceve abbastanza candidature a qualche premio? Kurt tira la croce addosso all’establishment – a volte si butta a commentare cose che riguardano altri mondi, altri creatori (le sue sparate sul fatto che Mad Men stesse mandando in bancarotta l’intera AMC, ad esempio). Si offre come insider e come voce della verità, l’unico che «dice le cose come stanno» in un mondo di falsi disgustosi. Principale tallone d’Achille, fin dall’inizio: i commenti su Katey Sagal, moglie e protagonista femminile della serie, fonte di un eterno AH SI’? BEH, TUA SORELLA (X).

Se Kurt Sutter è il fantasma dell’Opera, Dan Harmon è Candyman: lo invochi tre volte, lui arriva e ti strappa la spina dorsale. Non solo Harmon twittablogga in continuazione riguardo gli sviluppi di Community, ma inonda il pubblico di dettagli relativi alla sua vita personale, e non comprende affatto il significato di do not engage. Potete provarci anche voi: esprimete un parere non positivo sull’ultimo episodio di Community, usate l’hashtag  #Community , e sedetevi a guardare. Al 50%, Dan Harmon vi risponderà e vi dirà STRONZO. (Il che significa che lui controlla le mentions ogni mezz’ora, tutto il giorno, ogni giorno. Pensateci.) Alcuni di questi battibecchi sono poi entrati a far parte della serie, a modo loro (l’uso dell’espressione streets ahead, il nome “Gwynnifer“), altri hanno solo consolidato l’immagine di Harmon come “uno di noi” per una parte del suo pubblico. Là dove “uno di noi” viene vissuto come “uno che si arrabbia per qualsiasi cosa”. Uno che scrive L’AMORE NON ESISTE quando si lascia con la fidanzata dopo tre anni di convivenza, e non cancella il post quando si rende conto di averlo messo nero su bianco perché tutti possano leggerlo. (In passato, sbagliando, l’ho chiamato “un adorabile sociopatico“: in verità lui si sarebbe auto-diagnosticato online una lieve forma di sindrome di Asperger, cosa poi confermata dal medico a cui si è rivolto.)

Vi ho fatto solo due esempi, però la tendenza di massima è questa. Si stabilisce un rapporto tra un autore e un pubblico che lo considera pieno responsabile di tutto, pioggia o sole, in un momento dove è già normale, per dire, che l’autore partecipi alla promozione del prodotto, alle convention e ai raduni dei fan, e dove il pubblico dovrebbe essere già molto ben informato sulla quantità di compromessi necessari a far arrivare sulla sua tavola un prodotto a cui mettono mano centinaia di persone, e che quindi può risentire di infiniti fattori indipendenti dalla volontà del Dio Creatore. E invece.

Resta da capire perché nessuno provi più a limitare i danni, o a farsi portatore di un discorso sul senso del limite. Hart Hanson (Bones) in un’intervista a The Daily Beast l’ha messa così: «nessuno vuole passare alla storia come quello che ha impedito agli autori di stare su Twitter». Chissà a cosa sta pensando il Finto Eduardo Saverin in questo momento.