Attualità

In principio era la tavola

Intervista ad Adam Gopnik, corrispondente del New Yorker. Il suo romanzo culinario e perché il cibo s'intreccia con amore, politica e denaro.

di Manuela Ravasio

Questo articolo è tratto dalla storia di copertina del nuovo numero di Studio, uscito pochi giorni fa e attualmente in edicola e libreria. Il tema è “letteratura delle cose comuni”, ovvero, esempi virtuosi di scrittori e giornalisti che dimostrano come sia possibile, e anche bello e divertente, scrivere bene di calcio, moda, cibo e previsioni del tempo. In barba alle distinzioni tra una fantomatica cultura “alta” e “bassa”.

«Il vino ci porta via dal mondo, e il caffè ci riconduce lì. Nel mezzo mangiamo.» 
Per descrivere quell’intermezzo tra estasi e vita Adam Gopnik ha avuto bisogno di quasi quattrocento pagine fitte di urbanistica, rivoluzione francese, relazioni sentimentali. Tutte discipline che c’entrano poco con il mondo di una stucchevole Nigella Lawson, odierno record d’incassi nell’editoria culinaria. Adam Gopnik, invece, adora mettere in chiaro che il mangiare è un momento strettamente collegato alla vita reale, quindi anche al fare sesso, litigare, votare, pretendere e sentirsi a disagio per uno status sociale, «come quando finisci in fondo al tavolo, dove al massimo ti passano i broccoletti». Il giornalista del New Yorker non perde occasione per spiegare perché per realizzare il suo ultimo romanzo, In principio era la tavola (Guanda, 2012) abbia avuto bisogno di scandagliare ogni aspetto della nostra vita in relazione al cibo. Un esempio ben riuscito, che mette tutti a nudo, è l’incipit con cui introduce la storia della ricetta: «Un uomo e una donna sono a letto, la sera (…) e leggono, facendo le orecchie alle pagine più interessanti. Lei sfoglia una rivista di moda, lui un libro di cucina. Il guardaroba e la dispensa sono entrambi ben forniti, e se a chi sta leggendo la rivista possiamo concedere almeno che voglia sapere se una cosa va di moda, che motivazione potrà mai avere il lettore di ricette?».

Più che mera curiosità circa gli ingredienti in auge o le soluzioni per cucinare ecologicamente in lavastoviglie, la bramosia con cui si acquistano sempre più ricettari a tema è segno di un attaccamento al cibo più viscerale «Ci siamo sempre preoccupati del cibo», racconta a Studio il giornalista canadese, «perché nasciamo ossessionati dal non mangiare abbastanza. Ma la paura, rispetto al passato, è cambiata: ora ci interessiamo al cibo senza essere terrorizzati dallo spettro della carestia. Come con il controllo delle nascite e la contraccezione, così è stato – nell’Occidente per ultimo – con l’agricoltura moderna: quando ha smesso di essere concepita come un’attività sempre a rischio e si è tramutata in un piacere quasi fashion. Poi questi fashionisti sono diventati green, e hanno utilizzato il cibo come un rimedio con cui preservare salute e bellezza. Allora l’ansia contemporanea per il cibo è iniziata. Con un mix esplosivo tra status quo e rimedi di longevità». Durante tutto il romanzo – chiamarlo saggio ha del ridicolo – Gopnik inciampa spesso nella visione francese che gli è rimasta da quel Paris to the Moon (primo romanzo che racconta i cinque anni di lui, moglie e prole sull’Île de France). Non è una caso che la Francia riecheggi in tutto il libro, dalla parola e concetto di ristorante (restaurant in origine era il nome di una zuppa e i ristoranti moderni sono nati per l’esigenza dei cuochi di trovarsi un nuovo lavoro dopo che i loro padroni erano stati ghigliottinati), ai termini nati in vecchie stamberghe provenzali e che ora scandiscono i tempi di cottura della cucina fusion. Francia come (eterno) ombelico del mondo culinario? Eppure la globalizzazione della cucina, specie quella stellata, con orde di chef e ingredienti di di lusso, sembra non conoscere più confini territoriali. «Infatti è necessario ricordarci che molte cucine che definiamo “locali” in prima istanza nascevano da prestiti di altre tradizioni. Nessuno ipotizzava che i sapori provenzali fossero distintamente francesi fino a quando i piatti tipici di Avignone non comparvero a Parigi a inizio del diciannovesimo secolo; c’è stato persino un periodo in cui gli italiani non mangiavano la pasta! La cucina locale in parte è un’invenzione moderna, una tradizione nostalgica inventata e letta in retrospettiva. Tuttavia il paradosso è che quando il cibo è diventato davvero globalizzato abbiamo cercato nel piatto quello che fosse più a portata di mano. Ed è diventato volgare chi mangia fragole a dicembre, anche se solo un secolo fa sarebbe stato le connoisseur».

Ostentazione enciclopedica, aneddoti scovati e testati in prima persona (come ci insegna un divertito Gopnik), cuochi in erba allora alchimisti del gusto moderno oggi, sette di illuminati che hanno battezzato drogherie inespugnabili: il livello qualitativo della cucina si è alzato vertiginosamente. Troppo, tanto da diventare scomodamente elitario? «Partiamo dall’idea che, per esempio, in America esistono due tipi di cultura culinaria: la grande fetta dell’obesità legata al fast food e poi la fetta, molto più piccola, della cucina locale e stagionale. Un vebliano (io suppongo un marxista) insisterà che queste due culture sono puramente legate a uno status sociale ed economico: l’unico modo che la classe medio borghese ha di mostrare la sua differenza rispetto alla piccola borghesia è di iniziare a mangiare secondo abitudini originarie, contadine, enfatizzando ciò che è locale, stagionale, etc. Così come prima ancora sceglievano di emulare la vita agreste indossando abiti da lavoro e ritrovando l’uso delle candele. La mia discussione in In principio era la tavola è che mentre i vebleniani cercano di spiegarti molto, in realtà non si lasciano scappare nulla: sono davvero conservatori, preservano i valori, con il movimento slow food, e la continua ricerca di stabilire il loro status». Nel suo testo Gopnik non lascia da parte nessuna fetta della grande torta sociale: il cibo caratterizza la vita di tutti, ha modificato le nostre abitudini, e continuerà a farlo che tu sia un fervente ricercatore di fagiolini kenioti o abbia passato l’infanzia da KFC (lo scrittore ammette che nel suo curriculum vitae ha alcuni mesi passati da bambino a Parigi, a mangiare il pollo fritto di Kfc). Chiama in causa anche il gastronomo di metà Ottocento, Brillat-Savarin, che con la sua dottrina riassume (e prevede) la grande bolla della cultura culinaria: il fine di mangiare bene è trasformare meri bisogni in desideri. Non c’è nessun anno zero a tavola.

Negli ultimi vent’anni siamo cresciuti masticando il concetto di cibo attraverso recensioni autorevoli, rigorosissime, elitarie tanto da raggelare al solo sentire nominare le temibili guide Zagat, poi è arrivata la stagione in cui si testavano cotture attraverso le biografie di personaggi che sì, tra le altre cose erano anche chef rivoluzionari, come Anthony Bourdian che in tutto il suo Kitchen Confidential molto spesso si dimentica di dirci dove siamo, cosa stiamo mangiando e come, preferendo raccontarci di donne, coltelli e sesso. Il cibo è diventato una cornice, il mondo che gli gira intorno – cuochi, ristoranti, città, media – ha preso il sopravvento, come quando la musica nei ristoranti è arrivata ai decibel per cui ordinare è un’impresa. Qualche vebliano dal palato educato si destreggerebbe anche nelle squisite recensioni del New Yorker, “Table for Two”, prediligendo sempre e comunque il gusto rispetto a un interior curato. E Gopnik riesce benissimo nell’intento di relegare il ristorante a un vitale spazio sociale e non a un ingrediente eccellente quando descrive il ristorante come «il luogo dove qualcuno ti serve e da dove te ne andrai per fare sesso». «L’esperienza dei ristoranti stellati – i corsi di degustazione di tre ore alla fine dei quali diventi un gourmand così come il chiamarli templi dell’haute cousine – sta sicuramente passando. Ma i ristoranti restano necessariamente una sorta di abitacolo dove si consumano scene di romanticismo, intrigo, lavoro, amicizia, persino abbandoni – non c’è alcun pericolo, si continuerà a cenare, anche se la cena viene consumata in 20 minuti e il momento cruciale del flirt ne prende almeno 10», confessa il critico. Nel capitolo dedicato alle droghe culinarie, ovvero alcool e caffè, Gopnik spiega come la nascita distinta di caffè e bar abbia creato il varco per l’istituzione del ristorante concepito come zona temporale oltre che di consumo: al bar si andava per bere, offuscare le idee, mentre il caffè riportava al presente appunto, chiudendo il circolo del consumo di cibo. Il ristorante diventava così il non-luogo dove vivere storie, lasciarsi accarezzare da sensazioni, culinarie e non, a cui normalmente non saremmo propensi cedere.

Se un ristorante può ricreare così tante trame e racconti, ecco allora perché quattrocento pagine “alla” Gopnik risultano ancora poche considerato che in mezzo entrano chef dall’ego rubicondo, fortini di champagne, burro sbiancato caduto in prescrizione, uova strapazzate per figliol prodighi. L’autore parla della spinta nella narrativa della cucina come qualcosa di più di una reazione alla crisi dell’editoria e alla cultura trainata dal culto della personalità: «se il gusto può essere il personaggio di un romanzo? Non ne sono sicuro ma ho appena finito di scrivere una commedia musicale, Table, dove il primo momento corale si chiama “Taste!” e dove tutti, contadini, cuochi, foodies e amanti, cantano e invocano questo strano dio a due facce, un misto tra giudice e divinità a cui si rivolgono per soddisfare i loro appetiti. il protagonista del romanzo? Forse. È il tema di una canzone romantica? Sicuramente».

 

Dal numero 12 di Studio
Illustrazione: Studio Temp
Foto: Will Ragozzino/Getty Images