Attualità

Impasto generazionale

Pastamatic e i suoi fratelli, tra aspirazioni italiane anni Ottanta, Berlusconi e Charlie Sheen.

di Michele Masneri

Nel 1987 gli elettrodomestici italiani avevano un ruolo determinante nel mondo. In Wall Street di Oliver Stone il segnale della raggiunta ascesa sociale di Bud Fox-Charlie Sheen era l’acquisto, da procace immobiliarista, di un attico upper east side (“cos’ha l’upper west da offrire? Sean Penn e Madonna”) che viene poi inaugurato con cena e amplesso post rogito con fidanzata-trofeo Daryl Hannah, e qui il made in Italy è fondamentale.

Dopo il corteggiamento con la inferior decorator in comodato da Gordon Gekko (i due dialogano sui desideri di quegli anni come i fidanzati delle solite Cose di Perec. Lui. “Se entro i trent’anni riesco a fare i soldi veri e uscire dal giro, faccio il giro della Cina in moto”. Lei: “Vorrei un Turner, un diamante purissimo e la pace nel mondo”. E poi “fare per i mobili quello che Laura Ashley ha fatto per i tessuti”), la consacrazione di Fox-Sheen si realizza come è noto con la ristrutturazione e decorazione dell’appartamento con orridi Haring e Schnabel e Basquiat alle pareti e con conseguente cena fatta in casa e amplesso su sfondo Hudson; qui (nella cena) si cristallizzano molte aspirazioni di quegli anni, in un sincretismo culinario che contempla il sushi ma soprattutto la pasta.

Bud Fox taglia filetti di pesce e pigia blocchetti di riso sulle note del Rigoletto verdiano (“questa o quella per me pari sono”) con la stessa apposita macchinetta in cui più o meno negli stessi anni, qualche isolato più in là, si cucina in onore di Patrick Bateman (“dobbiamo salvare Evelyn. È da un’ora che è alle prese col sushi. Sta cercando di scrivere le tue iniziali: la P con il persico, la B con il tonno”, è l’inizio di American Psycho).

Ma nel film di Stone la componente italiana è preponderante; Sheen-Bud Fox, dopo aver messo a segno i suoi colpi sulla scalanda Teldar Paper e aver affidato la ristrutturazione dell’appartamento a base di scaglie d’oro, finti mattoni a vista attaccati con la sparachiodi e finti stucchi al soffitto (mentre attacca This Must be the Place), celebra la sua cena romantica soprattutto con una pasta fatta in casa con l’impastatrice cubista e supremo status symbol di quegli anni, la Pastamatic Simac.

Residuato bellico e archeologico degli anni Ottanta, faceva parte di una gamma tra cui il BravoSimac, progenitore iconico dei vari Bimby e Kitchen Aid; l’ancora più prestigioso (termine allora molto in voga, senza ironia), Gelataio Simac, macchina per gelato semi-professionale (tutto in quell’epoca doveva essere semi-professionale) e il CaffèSimac, progenitore del sistema di schiavitù di massa Nespresso, arrivato chiaramente in anticipo sui tempi – e in era pre-cialde, bisognava pigiare il caffé con un apposito pestello, nero, però molto ben disegnato.

Qui, con la sua Pastamatic, Bud Fox produce spaghetti fatti a mano che sgorgano dalla trafila italica con ardita metafora sessuale – e la metafora sessuale sarà sempre un cavallo di battaglia dell’impastatrice aspirazionale anni Ottanta. Lo slogan era “la forza di venti braccia” cioè poi di dieci impastatori muscolosi, come si vede nella copertina dell’apposito ricettario che veniva fornito insieme all’elettrodomestico. Si intitola “La  pasta su misura”, con influenze Franco Maria Ricci, rilegato in brossura,  e faceva parte di una un po’ pomposa “Biblioteca Simac”, con volumi di sofisticate ricette per ogni manufatto della casa. Qui le famose venti braccia sono di dieci cuochi baffuti e tatuati con bicipiti appoggiati sul tavolo, che promettevano prestazioni importanti. La metafora sessuale è presente anche in una campagna televisiva, con un seduttore single italiano brizzolato ma inopinatamente chiamato “Francisco” che in smoking sforna e prepara “gnocchi per Luisa, bucatini per Marina, maccheroni per Annie. Per Veronica, tagliatelle”.

La “forza di venti braccia” era un tassello di una efficace strategia di comunicazione – i modelli erano molto diversificati, il Gelataio per esempio era in versione da 1,6 o 0,8 chili e si chiamava rispettivamente “The ice cream man” e “The ice cream boy”, la Pastamatic era in tre versioni, 700, 1000 e 1400, un po’ come la scelta tra Thema i.e. o i.e. Turbo: i prezzi erano differenti, e si doveva capire subito (come dice l’immobiliarista a Bud Fox, “ragazzo, il tassametro gira, c’è qualcuno in casa?”).

La Pastamatic e i suoi fratelli erano la risposta ingegnosa italiana a più tecnologici elettrodomestici tedeschi, e una storia che racconta molto di quegli anni: fondata nel 1977 dall’ingegner Alfredo Cavalli di Gessate, già produttore di pentole con la sua Italinox, Simac era l’acronimo dei nomi delle due figlie (Simona e Maria) e la C di Cavalli, con due cavallini rampanti contrapposti come logo. Proprio grazie a modelli come la Pastamatic, squadrata e cubista come una casa di Eileen Gray, e al primo affacciarsi di manie e smanie fast e slow food nei primi anni Ottanta (la Pastamatic aveva trafile in bronzo, per dire), l’azienda passò da 16 a 100 miliardi di lire di fatturato nel giro di pochi anni, imponendosi soprattutto nell’immaginario transatlantico; nel 1985 il tribunale di Brooklyn dà ragione a Cavalli e condanna l’americana Osrow a pagare una multa di 5 miliardi di lire per aver violato i brevetti della Pastamatic, che nel frattempo vendeva 1,8 milioni di pezzi all’anno, di cui duecentomila in America. Sono gli anni di Calisto Tanzi fotografato in F40 a Brooklyn sulla copertina di Capital, ma anche del boom del cibo italiano con l’apertura del primo negozio Dean & De Luca a Soho. Nel 1985 l’Espresso dopo una recensione di “Rimini”, il romanzo disimpegnato di Pier Vittorio Tondelli, trattava dello “sbarco della Pastamatic a Pechino”.

Il modello Simac – peraltro abbastanza rivoluzionario, con un centro progettazione interno e la produzione completamente esternalizzata (cioè poi Apple) non durò però molto. Forse il famoso passo più lungo della gamba: acquisizioni strambe (le lavatrici Philco), poche risorse proprie, già nel 1987 serviva un aumento di capitale da 14 miliardi di lire. L’azienda era già in crisi, e a tentare di salvarla fu Silvio Berlusconi. La Simac era legata infatti al mondo Fininvest (non ancora Mediaset): i suoi prodotti molto pubblicizzati sulle reti del biscione, l’immagine consustanziale a quello stile di vita (gli stessi anni in cui la Barilla pubblicizzava la sua pasta non su misura ma prêt à porter con Mercedes da superbollo che salivano sinuose su ville toscane di proprietà Nannini, con musiche di Vangelis); e gli elettrodomestici dell’ing. Cavalli molto utilizzati dalla dirigenza Fininvest come regali importanti natalizi per uffici stampa grazie a massicci cambi-merce.

Lo stesso ingegner Cavalli vantava una solida amicizia col cavaliere, che si diceva telefonasse il giorno di Sant’Alfredo (15 agosto) a Biondi e appunto Cavalli. Berlusconi tentò di salvare quest’ultimo tramite i buoni uffici di Mediobanca, di cui non era ancora azionista, ma che convinse a utilizzare il proprio fondo Consortium, nato proprio per aiutare medie imprese in crisi. L’operazione non riuscì e, morto il fondatore, l’azienda passò alla De Longhi, e oggi produce elettrodomestici poco iconici, coi  due cavallini spariti dal marchio. Il nome rimane legato a una squadra di basket, mentre Charlie Sheen, trent’anni dopo, liftato e tinto come Silvio Berlusconi a cui oggi somiglia, pubblicizza un altro prodotto italiano, la Fiat 500 Abarth, ironizzando sui suoi (di Charlie Sheen) problemi giudiziari, con effetto molto malinconico.