Attualità

Imparare la scorrettezza

La comicità non asservita al politically correct, un debito culturale tutto italiano

di Federico Bernocchi

Aspettavo di poter scrivere questo pezzo da tempo. Poi mi sono reso conto di un problema di fondo non indifferente. Ricky Gervais in Italia non è famoso. Dico a voi che invece lo conoscete: non fate quelli che “ma cosa dice questo? Gervais io lo conosco da anni! Egli è famosissimo e io posseggo tutti i suoi lavori in Blu-ray versione deluxe!”. In Italia Ricky Gervais non è famoso. Ho controllato: da noi lo conoscete se avete visto Una Notte al Museo I o II. Più o meno questo è tutto. Sì, c’è anche la possibilità che voi siate tra i pochi ad aver visto il suo film da regista Il Primo dei Bugiardi. O che siate tra i pochissimo ad aver visto il suo secondo film da regista, L’Ordine Naturale dei Sogni, uscito da noi il 20 agosto del 2010. Sai le folle al cinema il 20 agosto? Per cui, insomma, il problema è che quando parliamo di Ricky Gervais in Italia, fondamentalmente parliamo di uno sconosciuto. Ma qual è il problema? Perché nel resto del mondo Gervais è gigantesco, mentre da noi è un Signor Nessuno? Chi trama contro il nostro divertimento? È divertente immaginare una setta di men in black, di oscurantisti, seduti ai posti di comando della distribuzione italiana. Loro sanno che esiste Gervais. Hanno visto The Office e Extras. Hanno visto i suoi spettacoli di stand up, qualcuno ha anche sentito i suoi podcast radio. Sanno che è stato chiamato per presentare i Golden Globe, l’hanno visto ospite da Letterman, hanno anche registrato lo speciale Talking Funny, dove dice la sua sul concetto di comicità insieme a Jerry Seinfield, Chris Rock e Louis C.K. Sanno tutto. Ma hanno deciso che non fa ridere. Meglio: che non farebbe ridere noi italiani.

Mi ricordo di aver letto un’intervista a John Carpenter in cui spiegava che fare horror è più semplice che fare delle commedie. La spiegazione è che la paura, a differenza della risata, è suscitata dalle stesse cose in tutto il mondo. Per un motivo che non vi so spiegare, tutti hanno (avuto) paura del buio, ma solo i francesi ridono se fai una battuta sui belgi. I francesi fanno Giù al Nord e noi rispondiamo con Benvenuti al Sud. Ci sono una serie di elementi che caratterizzano una comicità, che la rendono più o meno appetibile per un certo pubblico a seconda delle sue abitudini. Ok, è comprensibile. Ma il problema per noi rimane. Perché Gervais è famoso praticamente in tutto il mondo tranne che in Italia? E qui, per tentare di dare una spiegazione, torniamo a un punto dolente: nella ormai famosa lettera contro I Soliti Idioti, Concita De Gregorio, tra le altre cose, faceva capire come lo sketch sui gay non fosse proprio “nelle sue corde”. Ma Concita non è da sola: leggendo in rete vari commenti, mi sono reso conto che sono tantissimi quelli che considerano sbagliato fare umorismo sugli omosessuali. Per rimanere nell’esempio I Soliti Idioti, non solo dunque non si capisce per quale motivo la gag del gay convinto di essere incinta che vede razzismo ovunque non viene compresa, ma la si trova sbagliata e pericolosa. In Italia persiste questo senso (ovviamente ipocrita) di perbenismo, di correttezza, che ci impedisce di ridere di determinati argomenti. Per cui il problema qual è? Gervais non fa ridere noi italiani perché nelle sue serie televisive non c’è nemmeno una pizza? Sfortunatamente non è questo il motivo. Gervais non farebbe ridere in Italia perché, ammettiamolo, non siamo pronti al suo umorismo.

Veniamo alla sua nuova serie. Il 10 novembre è andata in onda su BBC Two la prima puntata di Life’s Too Short. Scritta al solito con il suo fido pard Stephen Merchant, lo show è un mockumentary sulla vita di Warwick Davis. Conoscete? Davis è un famoso attore inglese affetto da nanismo. Diciamo che, insieme a Peter Dinklage e Verne Troyer, è uno dei nani più famosi del mondo del cinema. Ha interpretato Wicket, l’unico Ewok con un nome, ne Il Ritorno dello Jedi. Ha praticamente la parte del protagonista in Willow e ultimamente lo abbiamo visto interpretare il Professor Filius Flitwick nella serie di pellicole dedicata a Harry Potter. In Life’s Too Short interpreta semplicemente se stesso. Fa la parte di un attore nano che ha forse già avuto i suoi 15 minuti di celebrità, che se li ha avuti li ha passati vestito da Ewok, e che oggi non se la passa troppo bene. Esattamente come David Brent (il personaggio interpretato da Gervais in The Office, quello che l’ha reso famoso), Davis è un tristissimo fallito incapace di vedere i propri limiti. Arrogante, egocentrico, fastidioso e insicuro, Warwick Davis vuole dare di sé l’immagine di un uomo di successo. In realtà quello che viene fuori è un ritratto di rara tristezza: sua moglie lo ha lasciato, di lavori non se ne parla da anni, nessuno per strada lo riconosce e arrotonda facendo il manager per altri nani che tentano di sfondare nel mondo dello spettacolo umiliandosi con numeri musicali imbarazzanti. Passa le giornate nell’ufficio dei suoi due agenti (gli stessi Gervais e Merchant, anche loro nella parte di loro stessi) che non lo possono vedere. È proprio qui che, in ogni puntata incontrerà, una special guest. Nell’arco di queste prime sei puntate sono previsti i camei di, tra gli altri, Helena Bonham Carter, Sandra Bullock, Steve Carell, Johnny Depp, Sting e I Right Said Fred (concentratevi forte e pensate: Right Said Fred). Nella prima puntata s’è visto Liam Neeson che, giocando proprio sul concetto di “ciò di cui è lecito ridere e ciò che invece è – for the sake of comedy – intoccabile”, riesce a far ridere parlando di temi assolutamente tabù (non li scrivo non per pudore, ma per non rovinarvi la sorpresa). Ricapitolando dunque, si ride di (non con, si ride proprio di) un nano e per delle battute che definire scorrette è poco. Ciò detto Life’s Too Short non è un prodotto volgare che incita alla violenza nei confronti di qualche minoranza, non è indice della pochezza culturale del popolo inglese, non è volgare, eccetera. Anzi. Ora, io mi chiedo sinceramente: in Italia ce la faremmo a ridere di un prodotto del genere? Come sarebbe percepito? Possibile che per paura di essere scorretti si debba pagare un debito culturale?