Attualità

Il Village globale

L'autobiografia di Morton Feldman fotografa gli anni '50 di New York e del Cedar Tavern, una scenografia in cui si muovevano Pollock e Cage, nessun soldo e tante feste.

di Stefano Ciavatta

«Se Wahrol avesse messo piede al Cedar Tavern dove bazzicavano quei tipacci che erano gli espressionisti astratti, avrebbe ordinato un bicchiere di latte e si sarebbe beccato un sacco di botte per questo. Il passaggio per le pennellate rabbiose dinamiche e muscolari, intese come espressione di un tumulto interiore, ai molli mageggiamenti della iuta serigrafata, intesa come decorazione per le pareti, indicava che la lenta evoluzione dell’arte era finita a gambe all’aria. L’arte non era più una cosa da uomini duri». (Steve Martin, Oggetti di bellezza, Isbn).

Uno di quegli uomini che affollava l’economico bar (una birra 15 cent) di Universisy Place tra l’Ottava e la Nona nel Greenvich Village nel 1950, era Morton Feldman (1926-1987), ebreo di origini russe nato a Brooklyn. Non era un pittore ma un compositore. Sul Cedar Tavern un giorno confessò: «Posso dire senza esagerare che passammo ogni sera lì per cinque anni». Il plurale è riferito a Jackson Pollock, John Cage, Philip Guston, Robert Rauschenberg, Willem de Kooning, Mark Rothko: tutti sodali di Feldman, «furono la mia università» (fatta più di osmosi che di accademia), e avventori del Cedar fino a notte fonda, mentre di giorno ci bevevano gli operai.

Molti di loro finiranno nella rete del collezionista e mercante d’arte Leo Castelli (e della bellissima moglie rumena Ileana Sonnabend) che li rivendette a peso d’oro. Tutti usufruiranno almeno una volta delle sei settimane che secondo Felman potevano essere cruciali a New York: «Lo straordinario degli anni Cinquanta è stato il fatto che per un breve attimo (che so, sei settimane) non c’era nessuno che capiva l’arte – perciò sono potute succedere tutte quelle cose. Perché per un attimo, gli artisti sono stati lasciati in pace. Sei settimane bastano per cominciare, ma oggi in questa città non c’è nessun posto in cui puoi andarti a nascondere per sei settimane. Ecco, questo voleva dire essere un artista. A New York, a Parigi, ovunque».

Morton Feldman assomiglia allo scrittore Mario Puzo: un metro e ottanta per centotrenta chili, capelli lisci e unti, pettinati indietro, mani magre, le spesse lenti degli occhiali di tartaruga, il faccione alla Jeff Goldblum, la sigaretta appesa alle labbra un poco sporgenti, i forti appetiti: donne, cibo, mondanità, vitalismo. Anche i suoi scritti autobiografici raccolti da Adelphi e da B.H. Friedman (Pensieri verticali, pp. 305, euro 30) sono ingombranti, tanto che per afferrare l’oceano dei suoi “pensieri verticali” bisogna con pazienza e arbitrio buttare un secchio qua e là, tirarlo su e vederci dentro. Se non fosse per l’elegante standard grafico adelphiano, la raccolta di scritti meriterebbe un aspetto consunto, magari persino rilegato in pelle come le vecchie bibbie dei predicatori, o come una moleskine gonfiata a dismisura da fitti appunti.

«Ricordo una festa allo studio di De Kooning con l’avviso di sfratto esecutivo entro tre giorni sulla porta. Non aveva i ventidue dollari necessari per continuare l’attività. Persone così non erano disposte a cambiare una riga per compiacere le gallerie, Barney Newman resistette per venticinque anni, poi la gente cominciò a guardare le sue tele». La New York del Cedar per Feldman è quella dove con sedici dollari, «tutto quello che avevo in tasca», si poteva comprare un quadro di Rauschenberg appena conosciuto nello studio di Cage. Un rimpianto che ha fatto suo anche Lou Reed che in una vecchia intervista confessò di avere una sola nostalgia, «quella di NY di tanti decenni fa, dove si viveva ancora con pochi dollari».

La voce di Feldman è fatta di vastità, densità, e dedizione totale all’arte. «Penso che ci siano tre cose che lavorano con me: le mie orecchie, la mia mente e le mie dita. Una delle ragioni per cui lavoro al pianoforte è che mi rallenta e posso sentire molto meglio l’elemento tempo, la realtà acustica. Io sono dentro la realtà acustica: per me non esiste qualcosa come realtà compositiva».Per il compositore Wolfgang Rihm «tutto in Feldman è sempre arte, arte dura come un osso, grande e incommensurabile». Secondo Cyril Connolly «imprigionato in ogni grassone c’è un uomo esile che chiede disperatamente di essere liberato» e Feldman non fa eccezione. I Pensieri verticali sono scritti faziosi, per nulla diplomatici, sembrano colloquiali ma tutto ha una struttura: conversazioni, giudizi, confessioni, cronache, ritratti, polemiche («le bestie nere da Schoenberg a Boulez»), omaggi, battute, tristezze («I nemici non possono ferirci ma gli amici che ci amano per i motivi sbagliati, sì»). Convivono insieme ammirazione e disprezzo, e grandi fedeltà.

La prima è quella verso il poeta e pittore Frank O’Hara, suo coetaneo e compagno di Cedar: «Era il nostro Stendhal, nessuno ci si è avvicinato. È il suo nome completo che comunica il senso completo di questo poeta. Diciamo sempre Gertrude Stein, E.M. Foster perché ci occorre quell’ampiezza in più per distinguere coloro che hanno rappresentato un’epoca da quelli che si sono spinti al di sopra». Quando Don Draper torna a casa rapito dai versi di Meditations in an Emergency (1957) di O’Hara, Morty sta aspettando l’amico poeta al Cedar (sappiamo che la serie di Weiner pur svolgendosi negli anni Sessanta è un compendio del decennio precedente). Ecco allora, rispetto agli inappuntabili Mad Men, il controcanto notturno dei geniali squattrinati del Village: «Dio santo che c’entra l’artista con il fare? È come dire vivere. Se è questo che vogliamo, basta alzarsi dal letto la mattina».

Al Cedar dei frenetici, alcolici, eccentrici espressionisti astratti (molti dei quali ebrei) Feldman ci era arrivato grazie a una fuga. Nel 1950 a soli 24 anni insieme alla moglie minorenne, si recò alla Carnegie Hall per sentire Mitropoulos che dirigeva la NY Philarmonic nella Sinfonia per orchestra da camera op. 21 di Webern: «Nessuna musica ha avuto, prima o dopo quella sera, l’impatto di quel lavoro di Webern. Il pubblico schiamazzava, rideva fischiava, molto abbandonarono la sala». Tra quelli anche John Cage che lo sconosciuto Morty raggiunse nella hall, riconoscendolo grazie a una foto su una paginata di un tabloid. Erano gli unici due entusiasti per Webern. Da quel momento Feldman fu adottato e divenne un enfant terrible della scena artistica: «John, che non aveva mai un centesimo in tasca, dava delle feste assolutamente sontuose. Si aveva la sensazione, nel Village a quei tempi, di condividere nell’arte qualcosa che al resto del mondo era sconosciuto. Era come stare in un avamposto isolato, un sentimento che ricordo ancora con piacere. Ma quello che è difficile da capire degli anni Cinquanta è che gli artisti non volevano essere salvati nell’arte. Ecco perché se parliamo di influenza, essi non hanno dato un contributo all’arte. Il loro contributo è stato di avere tolto importanza all’idea stessa di contributo all’arte».

Però con le ambizioni al Cedar Tavern si puntava grosso lo stesso: «Il giorno che morì Jackson Pollock (1956) telefonai a un grandissimo pittore, per dargli la notizia. Dopo una lunga pausa, lui mormorò, a voce così bassa da riuscire poco più di un sussurro: Quel figlio di puttana ce l’ha fatta. Capii benissimo. Con quel gesto supremo Pollock aveva impacchettato tutta un’epoca e se l’era portata via con sé».