Attualità

Il talento “mostruoso” di Virginia Raffaele

Piccolo elogio d'autore e personale dell'imitatrice che ha dominato il palco dell'Ariston durante il Festival di Sanremo.

di Simone Lenzi

Virginia-RaffaeleL’imitatore testimonia, nel paradosso, l’essenza relazionale dell’esistenza umana: solo un altro può davvero interpretarci. Solo un altro, di noi, può saperne più di noi stessi. Come interprete estremo allora, l’imitatore è quell’attore che davvero non può riposare in nessuna terra consacrata, perché, nel giorno della Resurrezione della Carne, rischierebbe di farci saltare una volta per tutte la teologia del principium individuationis che vuole si dia un’anima per un corpo. Una e una sola.

E invece Virginia Raffaele è andata incarnandosi in questi anni in decine di altre donne. Lo ha fatto con assoluta maestria, con spietata precisione nello svelare, di volta in volta, quel che dell’altra era già da sempre sotto l’occhio di tutti, ma che nessuno aveva mai compreso appieno. Il suo è stato il lavoro attento di una semiologa il cui frutto sono stati veri saggi di bravura scritti con il corpo e con la voce. E mentre tutti la ricordano nei panni della Minetti o in quelli della Boschi, è chiaro come la sua arte abbia dato il meglio di sé quando ha fatto a meno di quell’aiuto sicuro che viene dal prendere di mira chi sia esposto alla ribalta mediatica in virtù della relazione con il potere: nell’epoca in cui alla politica è demandata soprattutto la funzione di capro espiatorio, il pubblico è già troppo ben disposto ad accettarne la satira perché si possa comprendere davvero la qualità dell’interpretazione.

Per questo l’arte della Raffaele si impone una volta per tutte nel confronto con icone dell’immaginario collettivo cui è riservato un ruolo tutto sommato defilato. Lo si era già visto con quella splendida Vanoni che, nel mangiarsi le parole, fra un incontrollato falsetto e un altro, appariva come reduce svampita della libertà sessuale degli anni Settanta e della Milano da bere degli Ottanta: “ma l’abbiamo già fatto l’amore io e te?”.

Virginia-Raffaele-1Così Sanremo 2016 è stata un’occasione d’oro per due saggi di bravura assoluta. Giusto il solito paradosso, se la Ferilli è così presente ai nostri occhi (seduta sul divano in veste di artiggiana della qualità), da permetterci di godere soprattutto della verosimiglianza dell’imitazione, se la Belen pieghevole e reclinabile, trampoliera e fotomaniaca è tanto fedele all’originale da suggerire un dubbio di omozigosi, la cifra specifica della Raffaele emerge in tutta la sua genialità con Carla Fracci e Donatella Versace. Per la Fracci, la compitezza compressa di tutta una vita spesa nell’aplomb delle movenze e dell’eloquio, spinta al limite del sussiego, che alla fine si libera in quei cazzi per mazzi, o in quei passi di danza dai raffinati nomi francesi trasformati in mosse di karate micidiali per chiunque le si metta di traverso. La chirurgia estetica della Frankenstein-Versace di gomma e silicone, che perde pezzi e si deforma. Un corpo fuori controllo, con la testa rovesciata di novanta gradi e la palpebra caduta. La sua strafottente ed esilarante sprezzatura, che è quella di chi può fregarsene del cerimoniale e delle regole, e vuole accendersi una sigaretta sul palco dell’Ariston in prima serata. In tutti i casi, le imitazioni della Raffaele colgono sempre il tratto mostruoso dell’altra, e lo restituiscono senza pietà. E, se di tutte, la voce più mostruosa che si possa immaginare è quella sintetica e inumana, non è un caso che l’imitazione in cui la Raffaele raggiunge la perfezione assoluta sia proprio quella dei risponditori automatici.

E allora sbagliano le celebrità quando se la prendono per essersi guardate in questo specchio deformante. Sbagliano, e non solo perché, come sappiamo, non c’è imitazione che non testimoni anche ammirazione, per quanto perversa. Sbagliano perché le imitazioni di Virginia Raffaele sono anche un esorcismo: costringono i demoni allo scoperto e ce ne liberano con una risata. Sbagliano perché non tengono conto della verità elementare di quello splendido modo di dire americano: it takes one to know one. Sbagliano perché, se è vero che l’imitazione può ferire, dovrebbero infine chiedersi quale sia il prezzo che costa tutto questo talento a chi lo porta addosso:

Gesù gli domandò: «Qual è il tuo nome?»

Egli rispose: «Il mio nome è Legione perché siamo molti».

(Mc, 5, 9)