Attualità

Il sogno particolare di Xi

"Il nuovo sogno cinese", di Simone Pieranni, racconta la transizione del potere del Partito Comunista di Mao tra intrighi, scandali, auto di lusso e aperture all'economia di mercato.

di Davide Piacenza

C’è un’espressione, «il sogno cinese», (the Chinese dream) divenuta centrale nel panorama cangiante della Cina odierna. Quando Xi Jinping la pronunciò per la prima volta, il 29 novembre 2012, Shibada – il 18° Congresso del Partito Comunista, formale passaggio di consegne alla quinta generazione di leader cinesi – era già finito, in una Pechino blindata per l’occasione. Xi, appena indicato con tutti i crismi come prossimo Presidente, sfruttò una visita a una mostra in piazza Tiananmen dedicata alla riscossa cinese dalle umiliazioni inglesi del XIX secolo (una ferita aperta su cui il Grande Timoniere Mao fu il primo a creare consenso) e, con la parlata calma e suadente dell’aspirante statista, definì quel sogno «il grande rinnovamento della nazione cinese».

L’insolito connubio tra la dimensione onirica e il criptico mondo della politica cinese ritorna anche nel titolo de Il nuovo sogno cinese (manifestolibri), l’ultima fatica di Simone Pieranni, direttore dell’agenzia di news China Files, che vive in Cina dal 2006. Nel suo libro, uscito la settimana scorsa, Pieranni descrive i cardini essenziali di quella complessa transizione di potere, a partire dal «decennio particolare» della diarchia Hu Jintao-Wen Jiabao (a cui dedica un capitolo ricco di aneddoti sugli ex leader) verso il nuovo corso di Xi Jinping e del neo-premier Li Keqiang. Quello del sogno cinese, per l’appunto.

Chi non si è mai occupato di fatti cinesi potrebbe pensare che quello indicato dai nuovi grand commis de l’état cinesi sia un “sogno” declinato secondo gli standard culturali occidentali – e quindi, adottando schemi di ragionamento più in voga a Washington che alle porte della Città Proibita, che si concretizzi in più opportunità, più democrazia e una maggiore e più radicata diffusione dei valori liberali. Ma non è esattamente così.

«Alcuni definiscono il riformismo come un cambiamento verso i valori e il sistema politico occidentale. […]. La nostra è una riforma che ci fa proseguire sul sentiero del socialismo con caratteristiche cinesi» (Xi Jinping, 10 dicembre 2012).

La prima settimana dello scorso dicembre Xi – fresco di nomine a segretario del Partito e capo della Commissione militare, prodromi di quella a Presidente – visitò la zona economica speciale di Shenzhen, una replica simbolica del viaggio di Deng Xiaoping che nel 1992 pose il sigillo sul primo storico periodo di apertura economica del Dragone. Mentre i media di mezzo mondo azzardavano paragoni tra il vecchio leader e il Presidente in pectore, lo scrittore Gao Yu in quei giorni raccoglieva una dichiarazione rilasciata da Xi a porte chiuse, di fronte ai burocrati del Partito: «Alcuni definiscono il riformismo come un cambiamento verso i valori e il sistema politico occidentale. […]. La nostra è una riforma che ci fa proseguire sul sentiero del socialismo con caratteristiche cinesi». Una citazione denghiana, quella delle «caratteristiche cinesi», a cui Xi ha saputo aggiungere l’attrattiva del sogno, l’obiettivo ideale e mitico, condiviso da un Paese che negli ultimi trent’anni è passato da essere una società prevalentemente agricola alla seconda economia globale.

Nel libro di Pieranni vengono trattate con dovizia di particolari le grandi sfide che il Regno di Mezzo sotto la guida di Xi dovrà affrontare per cavalcare il suo Chinese dream: la povertà dilagante, la cui percezione è acuita da un sistema di welfare malfunzionante, la gestione delle gigantesche imprese statali e parastatali, spesso più o meno direttamente nelle mani di quadri di partito, il problema della proprietà delle terre dei contadini e la nascita di una nuova classe di sottoproletariato urbano.

Buona parte dei grattacapi dei nuovi legislatori passa attraverso l’hukou, il sistema di anagrafe pubblica che in Cina, tra le altre cose, consente di usufruire dei servizi di welfare. Nato nel 1949 con la presa del potere di Mao, questo meccanismo assegna lo status di residente rurale o di città in base al luogo di nascita e registrazione dell’individuo. Negli ultimi decenni, dal 1980 a oggi, si è assistito alla migrazione di circa 120 milioni di persone dalle campagne alle città, in molti casi divenute metropoli nel giro di pochi anni (l’intellettuale cinese Wang Hui, intervistato da Pieranni, la definisce «la più grande migrazione nella storia del mondo»). Pur lavorando in città, questi cinesi non sono riconosciuti come cittadini tout court – l’obiettivo originale dell’hukou era proprio quello di limitare le migrazioni interne, in ossequio alla politica di rigido controllo economico e della forza lavoro – e non hanno accesso ai servizi di assistenza statale. Sono nei fatti un’enclave di abitanti di serie B, il cuore pulsante dell’industrializzazione cinese lasciato indietro.

Un altro problema che Xi e gli altri alti ranghi del Partito dovranno affrontare è quello della questione delle campagne. Ne Il nuovo sogno cinese l’autore scrive che «fino al 1982 la terra apparteneva alle Comuni di villaggio. Da allora, invece, la terra in Cina appartiene allo Stato. Viene affittata per 70 anni ai contadini, ma la proprietà resta statale». Spesso gli appezzamenti diventano pedine in mano ai funzionari delle province, che col tempo hanno imparato a far fronte alla chiusura dei rubinetti di finanziamento di Pechino rivendendo terreni espropriati ai contadini locali.

La Cina odierna è anche un susseguirsi di parole d’ordine mutuate dai frasari-simbolo delle diverse leadership, che a Pechino – lungi dal ritirarsi a vita privata – mantengono la loro presa sul potere anche a decenni di distanza (è il caso di Jiang Zemin, Presidente dal 1993 al 2003, che ha giocato l’ultimo congresso da protagonista ed è il dominus del clan dei funzionari di partito di Shanghai: la sua «teoria delle tre rappresentatività», colonna portante del pensiero del PCC, segnò l’apertura dei ranghi del Partito agli imprenditori). Oltre al zhongguo meng (il sogno cinese) c’è il mantra del weiwen («mantenere la stabilità») che porta la nuova leadership a porre il ruolo del partito e dell’esercito in una posizione preminente rispetto a qualsiasi riforma. E c’è la xiaokang («moderata prosperità»), termine anch’esso denghiano e di risonanza confuciana, che indica nell’incontro dei bisogni fondamentali dei cittadini il primo vero obiettivo del nuovo establishment. Confuciana era anche la hexie, l’armonia propugnata dal 2005 fino a fine mandato dalla macchina propagandistica di Hu Jintao. Tutti questi slogan risuonano nella leadership di Xi Jinping, il riformatore «con caratteristiche cinesi» che la settimana scorsa, con la fine del Terzo Plenum, ha posto il suo placet sull’abolizione dei campi di lavoro (i tristemente noti laogai) e la progressiva dismissione della politica del figlio unico, oltre a un’apertura programmatica al mercato dell’economia nazionale.

Sul New Yorker lo scorso marzo Evan Osnos – un altro laowai, il termine non lusinghiero con cui i cinesi si riferiscono agli occidentali che vivono nel loro Paese – testimoniava con quale rapidità e pregnanza queste parole d’ordine diventino parte integrante della vita quotidiana cinese: «Mentre viaggiavo per la Cina, nelle scorse settimane, mi ha colpito la velocità con cui uno slogan politico, anche in questa epoca di rumore digitale e distrazione, può ancora entrare in circolo e filtrare attraverso strati di pensiero e aspettative».

Come scrive Pieranni, «Xi ha lanciato una campagna contro la corruzione che, oltre ad aver ricevuto l’appoggio dei media statali, ha saputo incrociare al momento giusto lo sdegno della popolazione cinese». E la congiuntura, in effetti, non potrebbe essere migliore: il caso Bo Xilai – la più clamorosa condanna giudiziaria di un importante membro del PCC – esploso nel febbraio 2012 ha scosso l’opinione pubblica: un taizi (principe rosso, l’appellativo con cui si fa riferimento ai discendenti degli eroi della rivoluzione comunista del ’49) che nelle delicate alchimie d’apparato era destinato a un futuro in pompa magna e – nel suo feudo di Chongqing, la più estesa e popolata municipalità della RPC, da lui amministrata dal 2007 fino al 2012 – aveva riportato in auge alcuni cardini del maoismo è crollato sotto il peso della stessa corruttela di cui voleva essere la Nemesi. Appena un mese dopo è stata la volta di Ling Gu, figlio di un importante funzionario vicino a Hu Jintao, morto in un incidente su una strada ghiacciata di Pechino dopo aver tirato la sua Ferrari oltre il consentito. Il sogno di Xi è più pragmatico di quanto possa sembrare: innanzitutto, si tratta di restaurare la credibilità del partito.

Il sogno di Xi è più pragmatico di quanto possa sembrare: innanzitutto, si tratta di restaurare la credibilità del partito.

Il nuovo Presidente ha anche una moglie popolarissima in Cina, Peng Liyuan, cantante folk e presenza fissa al Gran Galà di Capodanno della tv nazionale CCTV – lo show più visto del globo. E il suo mestiere di riformatore post-denghiano l’ha preso sul serio: la relazione del Terzo Plenum, diffusa dall’agenzia governativa Xinhua, recita: «Il settore pubblico e quello privato sono componenti altrettanto importanti di una economia socialista di mercato e le fondamentali basi dello sviluppo economico e sociale della nostra nazione». Il primo resoconto attestato di un’assemblea comunista che approva un viatico di apertura al mercato. Poi andranno affrontate le questioni elencate sopra, oltre alla riforma del settore giudiziario, la questione dell’impatto ambientale – che in Cina ormai è di interesse pubblico – e l’integrità del Partito di fronte alle spinte divisive interne ed esterne, per non fare la temuta fine dell’URSS. Come in un sogno, ma con caratteristiche cinesi.
 

Nella foto: Xi Jinping al 64° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese in piazza Tiananmen, 1 ottobre 2013. (Feng Li/Getty Images)