Attualità

Il sindaco

In un documentario la storia di Mauricio Fernández Garza, primo cittadino messicano che ha deciso di rispondere ai narcos con milizie paramilitari, tra un mare di polemiche.

di Leonardo Bianchi

«I problemi non si risolvono da soli. E noi abbiamo un problema molto difficile. So che le competenze sono molto chiare nella Costituzione: io ho determinati compiti, lo Stato altri, la Nazione altri ancora. Io semplicemente annuncio che mi assumo dei compiti che non mi spettano, perché prenderemo il toro per le corna».

È il 31 ottobre 2009 e Mauricio Fernández Garza sta parlando a braccio nell’auditorium di San Pedro Garza García, la più ricca municipalità del Messico, sede di alcune delle più importanti imprese del Paese, situata nell’area metropolitana di Monterrey (100 km al confine con il Texas). È il suo discorso inaugurale come Sindaco, incarico che aveva già ricoperto dal 1989 al 1991. Fernández trattiene un attimo il respiro, poi continua la sua orazione.

«Sono stato informato che uno di quelli che apparentemente chiedeva la mia testa, “El Negro” Saldaña, è stato trovato morto stamattina a Città del Messico. Era il responsabile dei sequestri a San Pedro».

La platea si alza in piedi e applaude fragorosamente per quasi tre minuti. Negli ultimi mesi, a San Pedro le estorsioni e i sequestri di persone sono aumentati esponenzialmente. Hector Saldaña, nonostante fosse considerato il responsabile delle attività criminali dell’area per conto del cartello Beltrán-Leyva, girava tranquillamente in città a bordo della sua Lamborghini Murcielago gialla. Ora giace riverso in un Suv sfondato dal piombo, e sul suo corpo sono appoggiati due bigliettini. In uno si legge «Giobbe 38:15» («È sottratta ai malvagi la loro luce ed è spezzato il braccio che si alza a colpire»); nell’altro: «Per i sequestratori, firmato el jefe de jefes», ossia Arturo Beltrán Leyva.

Nell’annuncio del Sindaco, però, c’è qualcosa che non torna. Le autorità, infatti, non sapevano nulla dell’assassinio di “El Negro”. La polizia troverà il corpo quattro ore dopo il discorso nell’auditorium, e l’autopsia confermerà l’identità del cadavere soltanto due giorni dopo. Chi aveva passato quell’informazione a Fernández? Come poteva un sindaco di un comune a quasi mille chilometri dalla capitale essere più informato dei Servizi e degli agenti federali del luogo?

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Mauricio Fernández Garza nasce il 12 aprile del 1950. È un rampollo dell’alta borghesia industriale di Monterrey. Suo padre era Alberto Fernández Ruiloba, fondatore della sezione statale del Partito di Azione Nazionale (Pan, conservatori e cristiano-democratici). La madre, Margarita Garza Sada, era invece la figlia dell’imprenditore Roberto Garza Sada, che insieme al fratello Eugenio e altri colleghi avevano fondato il cosiddetto Grupo Monterrey, un consorzio industriale tra i più importanti in Messico.

Studia ingegneria industriale negli Stati Uniti, all’Università di Purdue nell’Indiana, e finisce i corsi post-laurea a Monterrey. Successivamente, come vuole la tradizione familiare, si butta a capofitto nel mondo degli affari. Fonda aziende (anche a Cuba), siede nel consiglio d’amministrazione di diverse imprese, diventa collezionista e mecenate. La sua fortuna attuale è stimata da alcune riviste messicane di business in quasi 900 milioni di dollari.

L’imprenditore-politico vive in una specie di castello-fortezza, chiamata “La Milarca” in omaggio a un personaggio della letteratura medievale. È proprio qui dentro che inizia il documentario El alcalde («Il sindaco») del giornalista freelance Diego Enrique Osorno, che non a caso descrive il suo lavoro come «un’indagine sull’intimità del potere». La telecamera indugia sui sontuosi soffitti in stile mudejar del XII-XIV secolo (appartenenti, si dice, a William Randolph Hearst, il Citizen Kane di Orson Welles), sull’enorme cranio di triceratopo esposto in salotto, sulle teste umane ristrette dei Jíbaros e sulle collezioni di mappe antiche fatte con la pelle di un orso cacciato dallo stesso Fernández. Le guardie del corpo camminano nell’enorme giardino con gli AR-15 spianati e pronti all’uso. La magione si trova nella parte più alta di San Pedro: domina l’intera città e la capitale di Nuevo León, Monterrey, che la giornalista Cynthia Rodriguez ha definito la «Milano del Messico».

Nel giro di qualche anno, Monterrey è passata dall’essere un modello di sviluppo per le economie emergenti dell’America Latina al simbolo insanguinato della narcoguerra – una città risucchiata in una macabra spirale di massacri tra cartelli rivali, cadaveri decapitati e mutilati abbandonati sulle strade in pieno giorno, sparatorie continue, imprese taglieggiate e costrette a chiudere o delocalizzare. La violenza e il traffico di droga sono risaliti dai bassifondi della città, senza che l’Esercito riuscisse ad arginarli, e hanno travolto anche le zone d’élite di San Pedro Garza García.

Nel 2003 – dopo un mandato passato in Senato a sfoggiare cravatte di Topolino, presiedere la Commissione Cultura e caldeggiare la legalizzazione delle droghe – Fernández è il candidato del Pan per le elezioni statali di Nuevo León. Durante la campagna elettorale viene avvicinato da emissari dei cartelli, che gli propongono finanziamenti e voti in cambio di un trattamento di favore sul narcotraffico. Fernández rifiuta. Alla fine vince il rivale, Natividad González Parás del Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri). Fernández decide di ritirarsi dalla vita pubblica per dedicarsi completamente alle sue aziende e all’arte. Nel 2008, però, sua figlia Milarca riesce a salvarsi per miracolo da un tentativo di sequestro. Il nefasto avvenimento da un lato lo sconvolge; dall’altro, come confida Fernández a Osorno, lo spinge a ritornare in politica.

«Io penso che mediamente le persone siano mediocri. L’essere umano medio è mediocre, aggressivo, distruttivo, invidioso, e un sacco di altre cose», dice il Sindaco davanti alla telecamera. «Io cerco di risolvere problemi. Posso anche non usare i metodi più convenzionali, però credo che la gente sia stanca del politico che mente per avere il tuo voto e che alla fine non fa nulla. Io non sono un politico. Non me ne frega nulla della politica. Quello che mi interessa è il mio Paese». E nel suo Paese c’è la guerra vera – una guerra sudicia, infida, senza regole. «Non credo che le guerre siano vinte dalle suore o qualcosa del genere. Le guerre sono toste».

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«A volte, nella vita, ci sono delle coincidenze», continua a ripetere il Sindaco ai giornalisti che gli chiedono delucidazioni sulla morte di “El Negro”. Il sospetto è che a San Pedro operino delle ronde paramilitari – o, peggio ancora, degli squadroni della morte in stile colombiano – finanziate dall’imprenditoria locale e incaricate di «fare pulizia» di narcos sotto il diretto controllo di Fernández. L’omicidio di Saldaña rappresenterebbe un chiaro messaggio ai cartelli: state lontani da San Pedro – o pagatene le conseguenze.

All’inizio del dicembre 2009, il Sindaco ammette l’esistenza di queste ronde, chiamate da lui stesso «grupi rudi». «Non è una cosa prevista dalla legge, ma non è nemmeno contro la legge», si giustifica con il Los Angeles Times. Fernández, però, non si è limitato a creare le ronde. Con l’aiuto di un uomo chiave dei Servizi federali – Jorge Tello Peòn, ex direttore del Centro d’Indagine e Sicurezza Nazionale (Cisen) e da anni residente a San Pedro – l’amministrazione comunale ha anche creato una rete di intelligence parallela. Una specie di servizio segreto disposto a pagare profumatamente qualsiasi tipo di informazione utile, proveniente da qualsiasi fonte. «La cosa importante è avere l’informazione – spiega il Sindaco – Come si arriva a questa informazione? Non m’interessa. Datemela e basta». Si calcola, inoltre, che siano stati investiti 65 milioni di dollari in telecamere, apparecchiature di sorveglianza, armi e altre misure di prevenzione.

Inevitabilmente, questa politica securitaria estrema attira una selva di critiche. Alcuni chiedono l’arresto di Fernández, altri dicono che una simile forma di giustizia privata è aberrante. Ma molti lo lodano. L’iniziativa, infatti, è sostenuta dai dieci uomini più ricchi dello Stato, dall’esercito, da alcuni governatori statali e da quasi tutte le maggiori figure politiche del Nordest. Dei cittadini, neanche a parlarne: 9 su 10 sono dalla parte del Primo Cittadino.

I narcos reagiscono. Due capiscorta di Fernández vengono uccisi – uno dopo l’altro. Lo stesso Sindaco sfugge a due attentati. Nell’estate del 2011 la sfida raggiunge il culmine. Il 20 luglio una vettura della polizia municipale è ferma ad un incrocio di San Pedro piuttosto trafficato. I vetri del finestrino sono frantumati. Dentro l’abitacolo c’è il corpo dell’agente di polizia municipale José Antonio Coronado Ábrego. Sul cadavere viene rinvenuto un biglietto rivolto all’amministrazione comunale: “Un saluto ai nuovi capi, noi siamo qui. Firmato: Comandante Azero”. Il giorno dopo, verso le 13.15, il Comandante Azero (nome vero: Romel Alán Treviño Villarreal), sta guidando non lontano da dove è stato ucciso il poliziotto. Improvvisamente un’auto si mette di traverso e da una camionetta spuntano dei fucili d’assalto, che crivellano di colpi conducente e passeggero. Fernández commenta così l’omicidio del malavitoso che, solo 12 ore prima, lo aveva provocato pubblicamente: «Qualcuno lo ha ucciso. È passato a miglior vita».

Il piano del Sindaco – già abbastanza torbido di suo – è costellato di lati oscuri. Nel marzo del 2010, le teste di cuoio dell’Esercito messicano arrestano Alberto Mendoza Contreras (detto “El Chico Malo”), ritenuto organico al cartello Beltrán-Leyva nonché il capo dello spaccio di droga a San Pedro. Interpellato sull’arresto, Mauricio Fernández Garza sorprendentemente ammette che Mendoza era un suo informatore, regolarmente pagato, e che grazie a lui erano stati destituiti 50 poliziotti corrotti.

In un cablogramma del Dipartimento di Stato americano pubblicato da WikiLeaks, i funzionari si dicono convinti che vi sia una «dimostrata vicinanza» tra Fernández e Beltrán-Leyva, e che anche le “squadre” del Sindaco abbiano collegamenti con il cartello. Il Sindaco, intervistato da Osorno per la rivista Gatopardo, nega di essere un mafioso. Piuttosto, si ritrae come un semplice amministratore pubblico che cerca di garantire ai cittadini quello che aveva promesso in campagna elettorale: più sicurezza. E per raggiungere l’obiettivo è disposto a tutto – persino a pagare le informazioni dei narcos e scendere a patti con loro.

Osorno, sempre su Gatopardo, tratteggia anche una strategia follemente spregiudicata, ai limiti dell’incoscienza: «Un ex capo della polizia locale mi ha detto che, se questa circostanza fosse vera, il sindaco starebbe giocando col fuoco. Secondo lui i narcos, dopo aver siglato un patto, rimangono silenziosi come gli avvoltoi. Aspettano il loro momento. Sono […] come un governo ombra. Nella storia della mafia, tutto indica che, una volta dentro, è impossibile tirarsene fuori».

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Non è la prima volta che autorità e imprenditori di San Pedro utilizzano metodi del genere. Il 17 settembre del 1973 Eugenio Garza Sada, prozio di Mauricio Fernández Garza, venne ucciso in uno scontro a fuoco con i guerriglieri della “Lega Comunista 23 Settembre”, che avevano cercato di sequestrarlo. La morte dell’imprenditore scosse profondamente la città. Quando l’allora Presidente federale, Luis Echeverría, si recò al funerale del magnate, venne insultato e fischiato. Echeverría, pur avendo messo tra le priorità del governo la lotta senza quartiere alla guerriglia, non lesinò mai le critiche alla borghesia di Nuevo León. Quest’ultima, di contro, era infuriata nei suoi confronti per la sua gestione populista dell’economia nazionale.

La morte Garza Sada non fece altro che inasprire il sentimento antigovernativo dell’imprenditoria locale – peraltro già fortemente radicato. Sentendosi soli e abbandonati dallo Stato, gli uomini d’affari di San Pedro finanziarono dei vigilantes privati e presto cominciarono ad apparire cadaveri di giovani guerriglieri, ammazzati in circostanze misteriose. In quegli anni Fernández era ancora all’università, ma è difficile che non si ricordi quel periodo e che, soprattutto, non abbia preso ispirazione da esso. L’ex Sindaco di San Pedro Margain Berlanga ha raccontato ai diplomatici americani che la posizione economico-sociale privilegiata di Fernández gli permette di «non avere bisogno di rispettare le limitazioni che altri politici hanno dovuto rispettare. Fernández è abituato a fare di testa propria e non ascoltare nessuno».

Verso la metà del documentario, il regista inserisce uno spot presumibilmente realizzato tra la fine degli anni 80’ e i primi anni ’90. Nel video, San Pedro Garza García brulica di macchine sportive, concessionarie di Ferrari, centri commerciali di lusso, famiglie felici, capannoni, donne piacenti con capelli cotonati che strisciano furiosamente la carta di credito del marito in negozi à la page, e uomini d’affari impomatati che reggono in mano cellulari grossi quanto un ferro di stiro. L’edonismo e la pace sociale regnano sovrani – tutto è perfetto, scintillante, proiettato verso il benessere più totale. Una voce maschile, raggiante e confidente, annuncia alla fine della pubblicità: «San Pedro è come sarà il Messico del XXI secolo».

Non è andata esattamente così.

 

(Immagine: il sindaco Mauricio Fernández Garza, via Sipse)