Attualità

Il mio 11/9/1973

Ramón Diaz era membro di Unidad Popular, 40 anni fa. Questa è la sua testimonianza del Golpe, e il suo ritratto del Cile di quei mille giorni di Allende.

di Davide Coppo

Quando arrivo a casa di Ramón Diaz c’è ancora luce nel cielo, anche se il sole è coperto da quelle nuvole bianche molto familiari a Milano e nel nord Italia, che sono anche nuvole che non ti aspetteresti a settembre, eppure ci sono. Quando me ne vado, la lampada sopra le nostre teste e sopra il tavolo di legno, sopra il mio quaderno, sopra una copia di Tra parentesi di Roberto Bolaño, sopra le sigarette e un’altra copia di Confesso che ho vissuto di Pablo Neruda, quella lampada prima inutile e superflua è l’unico cerchio di luce nella casa completamente buia. Ho parlato per tre ore con Ramón Diaz, della sua vita, quella cilena, quella italiana, quella da esiliato o esule, della vita del Cile e di Salvador Allende e del governo di Unidad Popular di cui Ramón faceva parte e che non esiste più dall’11 settembre 1973, quaranta anni fa. Ramón Diaz era membro di Unidad Popular e del governo di Allende, lo è stato per tutti i suoi anni al governo, che sono stati tre, sono stati «mille giorni» come li chiama lui. Ramón Diaz è nato nel 1945 e faceva parte del Ministero per la propaganda, avendo una laurea e una cattedra all’università di Santiago nella facoltà di belle arti. Ramón Diaz non è nemmeno il suo vero nome, ma è il nome che era scritto sul passaporto che lo portò in Italia nel 1974, dopo essere uscito dal Cile per rifugiarsi in Argentina, e da Buenos Aires fino a Genova. Ha preferito che lo chiamassi con questo nome, perché troppi conti non sono ancora stati chiusi, da quarant’anni a questa parte. Il caso, che grazie a dio riesce a seminare ironia nella tragedia più nera, ha voluto che Ramón Diaz, pochi anni dopo il 1973, fosse anche il nome di un argentino che arrivò in Italia facendo il calciatore, e che giocò e segnò molto tra Napoli, Avellino, Firenze e Milano.

Non sono a casa di Ramón Diaz per fiuto giornalistico o in seguito a pressioni e richieste di un’intervista. A casa di Ramón Diaz sono già stato molte volte perché (ancora) è stato il caso a farci incontrare, e in quella casa più volte ho mangiato e bevuto e chiacchierato e imparato a cucinare il ceviche, che è un piatto peruviano e non cileno, ma Ramón Diaz dice che la cucina peruviana è la migliore di tutto il Sud America. Questa volta, uscendo da casa di Ramón Diaz, ho avvertito una sensazione che non saprei descrivere con nessun’altra parola se non “apnea”, un’apnea nella storia, che è un’apnea che non puoi combattere e di cui non ti puoi liberare, perché la storia è troppo forte, troppo pesante e troppo enorme per te. La storia è quella che Ramón Diaz ha vissuto da protagonista e che ora può testimoniare, non senza affanni e tentennamenti, e ansia. Credo sia sempre per colpa dell’apnea che Ramón mi dice che questi sono giorni strani, di angosce e ricordi, di «respiro difficile», giorni di telefonate con i compagni sparsi per il mondo. Per lui l’apnea è anche l’apnea del tempo. «Sono passati quarant’anni», mi dice stupito come prima cosa, e io lo so che sono passati quarant’anni, eppure so anche di non riuscire a capire davvero quella frase semplice.

Ho fatto poche domande a Ramón, credo di averne fatte quattro in tre ore, ossia circa una ogni ora. Per il resto ha parlato lui, prendendo deviazioni e curve e ponti, di memoria e di fatti, senza uno sbobinamento regolare dei ricordi. Mi parla delle elezioni del 1964, che Allende aveva perso, e di lui che aveva diciannove anni e con altri «compagni» andava a Valparaiso, o a Melipilla, con pezzi di cartongesso sotto braccio su cui dipingevano le facce da Allende. Parla poi delle elezioni del 1970, quelle vinte da Unidad Popular, il partito di centrosinistra che spaziava «dal partito comunista al partito socialista, al partito radical al Mapu, che era una scissione della Democracia Cristiana». E si arriva alla vittoria. Gli chiedo: com’era?

«Era esaltante» dice. Poi lo ripete con più soddisfazione, ESALTANTE. «Rispetto a prima era cambiato che c’erano le condizioni oggettive, non più soltanto soggettive. Allende vince contro Jorge Alessandri, che era già stato presidente, ma vince per ventimila e qualcosa voti, un margine inesistente (in realtà erano quasi 40.000, comunque pochissimi). Allende parla il 4 settembre dalla sede della Fech, la Federación de Estudiantes de la Universidad de Chile, un nucleo di effervescenza politica, e di lì parla ai balconi e ci saranno state un milione e mezzo di persone. Era una cosa… ricordo che in quel momento lì io avevo 25 anni, eravamo puro sangue. Come diceva il Che, eravamo “patria o muerte”».

Continua: «Dal primo giorno c’era la consapevolezza di aver fatto qualcosa di nuovo, il socialismo per via democratica, ma c’era anche l’idea che non sarebbe stato facile. Abbiamo cominciato subito a lavorare per l’alleanza di classe, chiamalo se vuoi compromesso storico, lo sapevamo perché storicamente era l’unica strada possibile. Lì si è mosso qualcosa. Addirittura alle elezioni del ’71, per eleggere il senatore che avrebbe dovuto prendere il posto di Allende, prendemmo il 52 per cento (fu eletto il candidato socialista Adonis Sepúlveda Acuña, che distaccò di venti punti il democristiano Andrés Zaldívar)». «Fu lì» dice poi più severo «che iniziarono le provocazioni della destra».

Non riesco a chiedere a Ramón che tipo di provocazioni, lui sta già ricominciando a parlare: «Noi, con le JAP (Juntas de abastecimiento y control de precios) trovavamo magazzini pieni di polli putridi, sigarette, vino. Lasciati a marcire deliberatamente. E dopo arriva questa cosa dei camionisti. (Si riferisce allo sciopero dei camionisti che mise in ginocchio il paese nel 1972, e che spianò la strada a Pinochet) I camion erano la principale rete di rifornimento per tutto il Cile. E il sindacato dei camionisti era di destra, sì».

Gli dico, cosa ti ricordi di quell’undici settembre? Ti ricordi che giornata era? Mi incuriosisce questo, se riesci a ricordarti che tipo di cielo c’era. Lui dice che forse c’era il sole, di sicuro l’aria era fresca, perché a settembre in Cile lo senti che la primavera sta arrivando. Poi dice: «La sera del 10 ero con un compagno dirigente, Américo Zorrilla, che aveva dieci anni più di me, e il partito aveva capito che c’era qualcosa che non andava, i compagni avevano fatto dei commenti che c’erano dei problemi a Valparaíso, che era la sede della marina da guerra, era cominciato il “rumor de sable” come diciamo in Cile, il rumore di sciabole, e Zorrilla mi dice “siamo messi male”. Credo di non aver dormito quella notte lì, abitavo con una compagna socialista, la mattina la prima cosa che faccio è accendere la radio, e sento Allende parlare».

Gli chiedo se ha sentito il discorso più celebre di Allende, l’ultimo discorso prima dell’irruzione dei carabinieri e dell’esercito nella Moneda, quell’irruzione raccontata in maniera terrificante dai nastri registrati di Interferencia Secreta, in cui si sente Pinochet dare l’ordine di bombardare il palazzo alle undici, e in cui pronuncia una delle frasi più spietate e disumane della storia, quando il viceammiraglio Carvajal gli comunica che Allende è ancora nel palazzo, e Pinochet dà l’ordine così: «Si ammazza la cagna e ci si sbarazza della figliata». (Si può ascoltare qui)

President Allende

Ramón ci pensa allora e dice no, ho sbagliato, mi sono ingannato, quando Allende parla io sono già fuori di casa. Lo dice così, usando il tempo presente, come quando si guardano delle fotografie o diapositive che scorrono. Poi riprende la strada di quel giorno e continua: «Ho preso la bicicletta e la pistola, sono andato alla Moneda (il palazzo presidenziale)a difendere la rivoluzione. Proprio così, a difendere la rivoluzione. Due mesi prima, circa, c’era stata una prova di un altro colpo di stato, ma era ancora in carica il generale Prats, un democratico, e i carri armati erano rientrati. Invece io lì ho trovato un carro armato, non potevo tirare fuori la pistola, cosa facevo, sparavo a un carro armato? Allora me ne sono andato via. Ma il partito aveva un’organizzazione fantastica. Sapevamo che dovevamo andare in un posto, e se non c’era nessuno in quel posto sapevamo di dover andare in un altro posto, insomma prima o poi ci trovavamo. E quindi arrivo al centro, e non si poteva entrare, c’erano tre cordoni armati. Era una dichiarazione di guerra. Pieno di camion, soldati, carri armati. Abbiamo visto gli aerei e abbiamo capito che la cosa era grave. Mi sono trovato da qualche parte con qualcuno, non ricordo bene dove, immediatamente siamo andati in un secondo posto dove abbiamo trovato altri compagni. Lì ci siamo tagliati tutti immediatamente la barba, avere la barba era un segno rivoluzionario, eravamo riconoscibili, ci chiamavano i barbudos». Io, mentre Ramón Diaz parla, mi appunto questa immagine, questi “compagni” sperduti che si tagliano tutti la barba. E mi immagino la scena di questo paradossale camuffamento, i volti lisci senza più baffi, questi pezzi di barba per terra a mucchi come nelle botteghe dei parrucchieri che significano insieme “abbiamo perso”, o “stiamo perdendo”, o “ci dobbiamo nascondere”.

I giorni successivi, racconta Ramón, sono confusi, e lui si sente sperduto, senza più riferimenti, e con la paura folle dei delatori che possono essere ovunque, nascosti nel tuo passato e nelle tue amicizie e nella routine quotidiana della vita precedente, quella prima dell’undici settembre. Racconta di una vecchia amica, che è una “compagna”, e che incontra su un autobus un giorno. E lei lo guarda e lo indica e urla “Un comunista! Un comunista!”. «Era terribile», dice Ramón Diaz. Oppure racconta di un compagno di giochi dell’infanzia, un vicino di casa, si chiamava Gustamati. «È diventato carabiniere, e siamo rimasti amici» dice, «un giorno dopo il Golpe mi dice “Cucho, cuchito”, mi chiamava così, “vattene via perché ho ordine di spararti, ti devo sparare, vattene”».

Dopo pochi mesi iniziano i tentativi di fuggire. Iniziano così, con un compagno che lo avvicina e gli chiede, Ramón, se ti prendono e torturano, tu parli? E Ramón risponde, non lo so. Allora devi andartene, dice l’altro. Per due volte ha la possibilità di salvarsi in un’ambasciata. «Avevo un amico con cui avevo vinto un premio di disegno prima del colpo di stato, un architetto, più anziano di me, un giorno mi dice “cucho, devi cercare di andartene. C’è la segretaria dell’attaché culturale dell’ambasciata di Francia che si sposa. Tu vai lì, io ti do l’invito, e allora vai al matrimonio, entri all’ambasciata francese e ci rimani”. Ma ovviamente l’hanno saputo i militari, e quando sono arrivato non sono potuto entrare e abbiamo brindato attraverso l’inferriata della finestra».

«Un’altra volta è stata all’ambasciata olandese. Una compagna di scuola che mi nascondeva aveva relazioni con dei preti olandesi. Arriva un prete un giorno con un pulmino e mi dice sì, noi possiamo aiutarla. Mi portano all’ambasciata, davanti all’entrata, e c’erano due carabinieri che a un certo momento facevano il giro del palazzo, per la ronda. Io dovevo aprire la porta e correre prima che loro finissero il giro. Corri, mi hanno detto, corri e prega» E tu? Gli chiedo. «Non me la sono sentita».

Finalmente riesce ad andare in Argentina, che non era certo il paradiso, anzi, ma era meglio della Santiago di Pinochet. Se ne è andato, però, mi dice, con la speranza di tornare in Cile subito. Dice: «Non si pensava mai a un colpo di stato di quella forza lì, mai mai mai. Non pensavamo potesse essere così organizzato, migliaia di morti nel giro di una settimana. E poi i prigionieri, gli spariti».

Com’era Allende? gli chiedo. «Di lui ricordo che lavorando lì, alla Moneda, ogni tanto entrava nel nostro ufficio, entrava Allende con una bottiglia di whisky per tutti e si aggiustava il cavallo dei pantaloni, e ci parlava, ci dava consigli, ci ascoltava. Lo chiamavamo bigote blanco, il baffo bianco».

Poi il flusso dei ricordi, naturalmente disomogeneo e discontinuo, torna come un elastico all’inizio, al prima, ai giorni che non erano dell’innocenza ma dell’euforia, anche se erano giorni del caos, un caos di disordine e non di crudeltà, un caos di entusiasmo e di impegni e di lavoro. Dice: «Ogni giorno avevamo cose da fare, da pensare, da disegnare, dalla mattina alla notte, viaggiare per il Cile per la propaganda. Non riesco a ricordarmi quante cose facevamo». Era bello? gli chiedo. «Cazzo se era bello» dice Ramón Diaz, «stavamo costruendo una cosa sul serio».

«Non so se stavamo scrivendo la storia, noi stavamo facendo una rivoluzione, che è un modo per scrivere la storia. È come un tavolo. Eravamo intorno a un tavolo, sono arrivati i militari e l’hanno rovesciato. Sul tavolo c’era un progetto, mio personale, e collettivo. È come con l’amore», dice, poi cita una poesia di Neruda. «Preguntar al amor es cosa rara, es preguntar cerezas al cerezo. Era un atto d’amore». Questo lo ripete per tre volte, per tre volte dice «era un atto d’amore, era un atto d’amore, era un atto d’amore». A questo punto, che è un punto in cui, si capisce, c’è meno cronaca e più emozione, Ramón Diaz inizia a fare molte pause tra una frase e l’altra. Poi, come per riprendere una frase lasciata a metà: «E ci credevamo. Cazzo, mille giorni sono stati. Giorni straordinari».

Pochi giorni fa ho letto, nella raccolta Tra parentesi di Bolaño, il testo “Frammenti di un ritorno al paese natale”, scritto da Bolaño nel 1998, nell’occasione del suo ritorno in Cile, 25 anni dopo l’esilio. Inizia così: «Andare in esilio non è scomparire ma rimpiccolire, ridursi lentamente o a velocità vertiginosa fino a raggiungere la propria vera statura, la statura dell’essere». In quel testo ci sono anche altre parti, parti molto politiche, condanne fortissime e spietate, che smentiscono immediatamente qualsiasi sospetto disonesto che vuole dipingere il poeta cileno come “disimpegnato”. Ma mi sono servito di quelle prime righe, solo di quelle, per l’ultima domanda per Ramón Diaz, che sapevo essere la domanda più difficile. Questa che segue è la sua risposta, e credo possa essere la risposta di moltissimi altri che se ne andarono dal Cile nei mesi e negli anni successivi, quarant’anni fa. Dopo questa risposta erano passate tre ore, e ci siamo salutati, e termina questo testo che non è né un’intervista né un articolo, ma una testimonianza. Preziosa, perché i testimoni prima o poi se ne vanno. Dunque, Ramón Diaz, com’è dover lasciare il proprio paese?

«Terribile. Io a Milano andavo al Duomo, la sera, e non mi abituavo a vivere così, andare a letto alle dieci di sera, allora andavo in Duomo per vedere se trovavo qualche cileno in giro, ma non c’era nessuno. Non vivi né qua né là. Vivi sempre con una valigia a fianco, dici devo tornare in Cile, devo tornare in Cile. Sei straniero sempre. Ogni tanto mi spaventa, questa cosa surreale per cui ti chiedi perché cazzo sono qua? E me lo chiedo tuttora, e non lo faccio per poetica. Ho avuto una vita rotta, in un certo momento, spezzata. Non abbiamo avuto nessun’altra possibilità.

Siamo stati ingenui, forse».