Attualità

Il keynote di iPhone

Era il 2007, a San Francisco, e Jobs presentava uno degli oggetti più rivoluzionari del decennio

di Francesco Pacifico

MacWorld, San Francisco, 2007. Steve Jobs, maglietta nera e jeans, comincia così: “Sto aspettando questo momento da due anni e mezzo. Apple ha avuto la fortuna di introdurre diversi device rivoluzionari. 1984: il Macintosh. Non ha cambiato solo Apple, ma tutta la computer industry. 2001: il primo iPod. Non ha cambiato solo il modo in cui ascoltiamo la musica ma l’intera music industry. Be’, oggi presentiamo 3 prodotti rivoluzionari. Il primo è un Widescreen iPod con controlli touch”. Applausi e urletti del pubblico. “Il secondo è un mobile phone rivoluzionario”. Applausi e urletti. “E il terzo, è uno strumento per navigare rivoluzionario”. Meno urletti. “Insomma: tre cose: un iPod, un Telefono e Internet”. E compaiono le tre iconcine arancione verde e azzurro con sovraimpressi rispettivamente un iPod, una cornetta del telefono, una bussola – simboli che ora sono la norma nel pensare le tre funzioni musica, telefono, navigazione.

Le tre icone iniziano a girare, quasi tipo gioco delle tre carte. Jobs, continua a ripetere: “Un iPod, un telefono, un Internet Device… Ci siete arrivati? Non sono tre device, è uno solo”.

La folla lo acclama. Io mi commuovo per il colpo di scena anche se quel mattino ero andato sul sito Apple a guardare il discorso sapendo già cos’era stato annunciato.

“E lo chiamiamo: iPhone. Oggi, Apple reinventa il telefono”.

Quante volte hai sentito sparate così da qualcuno che voleva venderti la sua idea? Non erano mai vere.

Non sono un nerd, non sono un early adopter, ho scoperto l’iPod solo nel 2004, spinto a pagare non ricordo più quante centinaia di euro per l’iPod 64G dalla comodità dell’iTunes scaricato gratis sul mio PC come un cavallo di Troia che mi avrebbe conquistato e portato via da Bill Gates. iTunes era così comodo che dopo quell’iPod sono passato al Macbook, ho avuto altri iPod, poi un Mini e un Macbook Air 11 pollici. Ho comprato l’iPhone nell’estate del 2009, dopo aver tanto resistito il più possibile all’effetto magico del discorso di lancio di Steve Jobs. Avevo comprato troppi iPod in vita mia, dovevo trattenermi almeno per il telefono. Ricordo la prima volta che ho toccato lo schermo di un’iPhone, era il 2007, in una pizzeria di Milano, l’iPhone apparteneva a una persona che consideravo e considero un guru. Quando comprai il mio, l’anno dopo, ricordo che per mesi, prima di cominciare a vederlo in mano a chiunque, tiravo fuori dalla tasca il mio con circospezione, perché mi sembrava indelicato aggirarmi chessò in tram o al supermercato con un computer in mano. In due anni, quella quantità di roba che tenevo in tasca ha smesso di sembrarmi eccessiva ed è diventata la norma di ciò che è a disposizione di chi possiede un telefono. Una norma che si può trasgredire affermando in maniera fondata di non averne bisogno, ma pur sempre una norma.

Il punto è: in mezzo alla mia storia con Apple, c’è una pausa pranzo del 2007 passata a guardare su internet uno che fa un lunghissimo e pure fanaticissimo discorsetto per vendere un prodotto.

Mi accorgo che sto a pranzo da solo su un divano col Macbook accanto a guardare il discorsetto, e che sto piangendo. Quel giorno cominciano a farsi strada in me due certezze di diverso peso: la prima è che la televisione è finita, se io passo la pausa pranzo a guardare una pubblicità lunga un’ora su un sito americano. La seconda è: se piango commosso dalla stima, dall’esaltazione tecnologica, vuol dire che sono disperato. Non “un disperato” come si potrebbe pensare, ma solo disperato: vuol dire che il futuro non esiste più e che la vertigine per la novità la posso trovare solo con Steve Jobs.

In un’epoca in cui la storia non fa progressi nel senso in cui il secondo dopoguerra ci aveva promesso progressi a oltranza; in un mondo in cui l’arte, per ormai due decenni, si è intrippata con la citazione sempre più pedissequa del passato, l’unica emozione di futuro me la possono dare il touchscreen e i relativi scrolling e pinching.

“How do I scroll through my list of artists?” (minuto 6.22) “I just do it. I just take my fingers, and I scroll”. Jobs scrolla la lista, e il pubblico gode. Questo, ci diciamo, è certamente il futuro. Sempre sullo scrolling: in un momento del discorso che non riesco a ritrovare perché la versione intera è scomparsa sul sito Apple (o forse io semplicemente non sono neanche l’ombra di un nerd), Jobs riferisce la reazione di un amico cui stava raccontando la sua ultima opera. Sentitosi raccontare tutto, l’amico dice: “You had me at scrolling”, cioè: quando hai detto che si scrollava la pagina col dito ero già tuo.

Per anni sono andato dicendo che finanziare Apple comprando i suoi prodotti è parte dei doveri di un occidentale: per lo meno Apple sta lavorando su qualcosa che ci serve e che ci piace. Per lo meno crea bellezza estraendola dal futuro, ci dà quella sensazione di teca di minerali riportati da una missione spaziale. Nel definire cosa intendevo per finanziamento pubblico di un’impresa privata, un tempo tiravo in ballo, in maniera tanto stupida quanto rivelatrice, le Compagnie delle Indie, che dall’Olanda e dall’Inghilterra organizzavano la conquista delle economie orientali nel ‘600 o giù di lì. Erano privati e cambiavano gli equilibri politici, grazie all’investimento di altri privati nelle loro imprese economiche. Che metafora ingenua: così cercavo di dire, senza voler minimamente criticare in maniera consapevole Apple, che era in corso una nuova opera di colonizzazione, che qualcuno stava andando alla ricerca di nuovi mercati e nuove terre inesplorate. Le terre da conquistare erano, per esempio, la mia voglia di spendere 0,79 centesimi per un giochino da giocare ubriaco alle due di notte prima di dormire: una fascia di mercato che nessuno era stato ancora in grado di far sua.

D’altra parte, di solito di questi tempi gli intellettuali responsabili devono porsi il problema di come il mercato si nasconde anche nelle esperienze apparentemente più libere e spirituali della gente: i marchi che sponsorizzano le band, per esempio. Con Apple succede il contrario: con Steve Jobs, entriamo per pagare, ma usciamo più puri e spiritualmente appagati: cercare sul telefono un ristorante sperduto o la forma del tetto della casa di un’amica in un altro continente; Angry Birds; controllare su Wikipedia se hai appena sparato una balla; girare un video di tua sorella che si taglia le unghie: l’iPhone, a ben vedere, risponde per lo più a bisogni spirituali.