Cultura | Letteratura

Vicino a Ian McEwan

All'anteprima Einaudi del nuovo libro dello scrittore inglese, un romanzo dal punto di vista di un feto: differenze tra pagina e vita.

di Clara Mazzoleni

(Uriel Sinai/Getty Images)

«Fra poco avrò 70 anni: scrivere questo libro, e mettermi nei panni di un feto, è stata una specie di vacanza per me». «A volte tra scrittori discutiamo della voce narrante, parliamo di reliable o unreliable narrator. Beh, il mio narratore è affidabilissimo. Puoi sempre fidarti di un feto». Ian McEwan ripete queste due frasi due volte, in entrambi i casi destando l’ilarità benevola e compiaciuta del pubblico. Sorridono i giovani blogger seduti al tavolo con lui, nella biblioteca della sede di Einaudi, chini sui loro quaderni a prendere appunti come all’università che forse ancora frequentano; sorridono gli uomini e le donne, di qualsiasi età, che affollano La Cavallerizza di Torino.

Sorrido anch’io, quando me lo ritrovo seduto accanto, così vicino che potrei dargli una gomitata. Lo guardo da vicino, provando a leggere sul suo corpo le tracce lasciate da una vita dedicata alla scrittura, ossia le impronte del genio. Ma non trovo niente che riesca a colpire la mia attenzione. Noto la fede sul dito, mi soffermo sul tessuto antipatico della sua giacca – e il brutto colore indecifrabile, sospeso tra il verde e il blu – osservo gli occhi piccolissimi e i capelli bianchi vaporosi. Nessun tic, nessuna cicatrice o stranezza, nemmeno le rughe supersexy e il tamarrissimo raso nero della blusa di Emmanuel Carrère (anche lui appena stato a Milano e a Roma a presentare il suo libro, Propizio è avere dove recarsi, pubblicato da Adelphi).

Nutshell (Nel guscio, nella versione italianaè magnificamente tradotto da Susanna Basso, che partecipa all’incontro privato per i blogger organizzato da Einaudi prima della presentazione ufficiale. McEwan risponde con la stessa espressione, la medesima gestualità (cioè nessuna gestualità) e un’uguale freddezza gentile alla domanda che gli pongo io, che mi presento dicendo: «Sono Clara Mazzoleni e scrivo per Rivista Studio» e quelle che gli vengono poste nel corso della presentazione, davanti a centinaia e centinaia di persone. Lui parla per ore, né troppo entusiasta né particolarmente stanco, forse annoiato, a tratti un po’ divertito: in tal caso, ovviamente, da qualcosa che ha detto lui stesso.

Ho letto la sua ultima fatica (che fatica non è) sul treno per Torino, pensando soprattutto alla fortuna di quest’uomo, che dopo una vita di ottimi libri (ognuno ha i suoi preferiti, i miei sono Primo amore, ultimi riti e Il giardino di cemento), di diritti venduti per filmoni da guardare la domenica pomeriggio (il prossimo sarà Chesil Beach), può godere della libertà di scrivere quel cazzo che vuole. Perché è questo, credo, che si respira più di tutto in Nutshell: la libertà di uno che nella letteratura si sente al sicuro, proprio come un feto nell’utero, uno che ha una dimestichezza ormai totale col materiale che sta maneggiando, uno che prende Shakespeare e lo usa come gli pare.

Il libro sembra un po’ un esercizio da corso di scrittura creativa: non soltanto per l’idea – neanche poi così innovativa – di riattualizzare un classico come l’Amleto (l’hanno fatto in tanti, come ricorda questa recensione del Guardian, ma anche e soprattutto per la trovata di assumere il punto di vista dell’aspirante bambino. Mi ha ricordato un blog di scrittura creativa che avevo letto da piccola, e il primo esercizio che il misterioso insegnante imponeva agli aspiranti scrittori si chiamava “E se …?”. Ognuno doveva inventare un po’ di “E se …?” e usarli per scrivere dei racconti. E se un giorno ti svegliassi e scoprissi di essere uno scarafaggio? E se ti trovassi a testa in giù nel corpo di una donna (che è più o meno l’inizio di Nel guscio)?

Ma la forza di Nutshell risiede proprio nella sua leggerezza, nella sprezzatura: anche se racconta l’omicidio di un padre guardato con gli occhi di un figlio non ancora nato – testimone interno alla madre assassina, complice del cognato, che è anche il suo amante – anche se è super-sofisticato nel gioco di citazioni e riferimenti, è un libro divertentissimo. Ed è proprio la conferma di questa sensazione che volevo ricevere quando ho chiesto a McEwan: «Si è divertito un casino a scrivere questo libro, vero?» «Sì. È stato il libro più facile per me, in assoluto il più divertente», ha risposto lui, serissimo. «Mi divertivo così tanto, mentre lo scrivevo, che mi sentivo terribilmente in colpa. Durante la prima stesura non vedevo l’ora di sedermi lì e scrivere un altro paio di pagine. Che imbarazzo. Perfino la prima frase è arrivata da sola. Mi è balenata nella mente mentre assistevo a una conferenza noiosissima, ostentando un’educata espressione di interessamento. So here I am, upside down in a woman. In quel periodo stavo rileggendo l’Amleto, un testo che ho letto tante volte nel corso della mia vita. All’inizio ho faticato un po’ per trovare il tono giusto. Doveva essere un po’ arcaico, volevo una specie di feto shakespeariano. Quando ho trovato il tono, il libro è cresciuto da solo».

È cresciuto da solo, proprio come un feto, eppure si tratta di un ordigno perfetto, acutissimo e artificioso. In un testo di meno di duecento pagine McEwan è in grado di tessere infinite corrispondenze. Il guscio può essere una metafora dell’arte e della scrittura, ma anche della posizione di Amleto, uno che non riesce ad agire perché pensa troppo, che in questo caso è in contrapposizione con l’amante della madre, Claude, un uomo del tutto imbecille, ma d’azione. C’è il rapporto madre/figlio e tutto quel che significa. Ci sono le riflessioni sull’Europa, sulla politica, sul mondo, che il feto apprende dalla radio. Il feto, che è un po’ l’alter-ego dello scrittore intellettuale, testimone inerme che ascolta e riflette sul male senza poterlo in alcun modo fermare. C’è il tentativo di suicidio del feto, che quindi, in un certo senso, si domanda «to be or not to be?». C’è il tema della poesia, perché il padre naturale del feto, quello che viene ucciso, è un poeta, proprio come Shakespeare. «La poesia è l’arte più nobile: nessun libro di prosa potrà mai eguagliare la potenza di una poesia, e ogni scrittore lo sa. Per questo ho voluto esprimere, attraverso il mio feto, tutta la reverenza e l’ammirazione che nutro per quest’arte».

In tutto questo, però, qualcosa mi turba. È il tono distaccato con cui McEwan ripete le stesse frasi a effetto, è la semplicità di quello che dice quando risponde alle domande sul mestiere di scrivere, tipo: «Il blocco dello scrittore non esiste: per me è una fase come un’altra che si chiama esitazione. Durante questa fase non bisogna scrivere… bisogna vivere, andare in giro». È la chiarezza e l’educazione con cui risponde alle domande che gli vengono fatte, quando invece, nei libri, il suo modo di pensare appare completamente diverso, e cioè errante, dubbioso, articolatissimo, a tratti sardonico e brutale. Dopo quattro ore che lo sento parlare, mi sento probabilmente più stanca di lui. E mi balena nella mente una frase, quella con cui inizierà il mio prossimo libro (uffa, non è vero). Mi balena nella mente quello che mi ha confidato una giovanissima, bravissima attrice che ho intervistato tempo fa: «Queste cose (le interviste, le presentazioni, le conferenze stampa, ecc) sono una vera rottura di cazzo per me. Non ho mai nessuna voglia di farle. Ma mi dicono che devo, che è per il bene del mio lavoro. Non so come potrò imparare a gestire questa roba. Sicuramente imparerò. Per adesso penso che vorrei poter fare soltanto quello che so fare: recitare».