Attualità

Il giornale che non c’è

Storia del New York Ledger, il quotidiano a tasso zero di eticità che trovate in molte serie TV

di Violetta Bellocchio

E’ stato fondato nel 1856, come settimanale, ha chiuso nel 1898. Ha trovato una nuova vita negli anni Novanta, e da allora esce ogni giorno, tira milioni di copie. Detta la linea, a volte. Non chiamatelo grande ritorno; lui non se ne è mai andato.

Il New York Ledger è il quotidiano che sbuca, per intesa non si sa quanto tacita, in molti polizieschi ambientati a Manhattan e dintorni, sempre con conseguenze disastrose per le vite e le indagini in corso. Entra in scena una copia, dopo pochi secondi scattano le bestemmie. “Accidenti, siamo finiti sul Ledger.” “Maledetto Ledger!”  Viene odiato con l’intensità che molti non riservano al vicino che picchia il cane, ma viene sfogliato, comprato, lasciato in metrò. Tenuto d’occhio.

Il Ledger è rinato dentro Law & Order, a cui serviva, all’inizio, una caricatura-fotocopia del New York Post, con gli stessi toni esasperati e le finte crociate anti crimine. Ma non si è fermato lì. E’ stato utilizzato all’interno di CSI: NY, di White Collar, il giallista paraculo Richard Castle è finito sulle sue pagine almeno una volta. Il senso del creare un finto quotidiano è ovvio. Lo puoi usare quando vuoi, come vuoi, ogni volta che vuoi; non c’è da chiedere il permesso a nessuno, non va pagata una quota per lo sfruttamento del marchio. Che il Ledger sia diventato il giornale fantasma per eccellenza in così tante storie noir, l’oggetto inesistente invocato da chiunque, è meno comune.

Intanto: se non gli è mai toccata una de-fictionalization in piena regola, è perché, ce lo ripetono tutti, i quotidiani vanno molto male, malissimo. La carta è morta (Um, evviva?). Però nessuno ha mai raccolto i suoi titoloni in un archivio online, nonostante la diffusione televisiva. Rimane un prodotto invisibile, per questo più subdolo. Cercando informazioni su un fatto di cronaca nera del passato recente, mi sono sorpresa a stupirmi che Google non riportasse il Ledger nei primi dieci risultati. Certi percorsi incidono sulla nostra esperienza al di là di una serata televisiva, e le ragioni di certe fortune sono molto reali.

Il Ledger opera lungo parametri familiari. È totalmente destituito di ironia, come Dallas. Si incarna in tre componenti fondamentali, mai variate perché non possono essere variate: uno, il reporter scassacazzi, due, l’editor cialtrone, tre, l‘auto-importanza grottescamente sproporzionata (in teoria) ma poi giustificata dai fatti.

Il reporter scassacazzi, il più visibile anello della catena, è quello che ciondola intorno alla scena del crimine, e poi sulle scale del Tribunale – sempre invadente, sempre cinico, in malafede, destinato a prendersi pedate e reiterati va’ a lavorare, barbone. Conoscete il tipo. (Lo sbirro disprezza il cronista, da sempre.) L’editor è quello che si frega le mani mentre prepara prime pagine che ricordano Libero nelle annate migliori, destinate a essere brandite dal commissario di turno come prova che «la città guarda i nostri fallimenti!» e «c’è stata una fuga di notizie! Chi ha parlato?». Ma per gli amanti di Law & Order: Unità vittime speciali, c’è quella prima pagina sui titoli di testa – EASTSIDE RAPIST CAPTURED – i caratteri rozzi sparati in fermo-immagine in mezzo alle facce serissime del cast.

Ecco, quello è il Ledger in una giornata dove c’era qualcosa da festeggiare, una notizia da bruciare. E questi sono i fatti che confermano la sua importanza. Sarà anche un pessimo quotidiano, lo è, ma finisce per essere temuto, considerato una forza con cui fare i conti, più dei colleghi che giocano pulito o contano sul rispetto intellettuale dei propri pari. L’equivalente del New York Times nel suo mondo è il New York Sentinel – l’ho scoperto solo mentre preparavo questa rubrica.

E ora, un passo avanti.

Il tentativo di approfondire questo clima da parte dei creatori originali è fallito. Il papà di Law & Order gli diede uno spin-off, Deadline, ambientato nella redazione del Ledger, ha chiuso dopo 13 episodi nel 2001. (Sono certa che fosse orribile e l’avrei seguito con ardore e devozione.) Ma il virus si è sparso che è una bellezza, e ha avuto conseguenze non previste.

Una serie noir cancellata quasi subito che io ho guardato quest’estate, NYC 22, trovava un mezzo protagonista in Ray “Lazarus” Harper, il più vecchio ultimo arrivato nel dipartimento di polizia di New York, sezione Harlem. (Sui titoli di testa immagini di Morningside Park e Jay-Z a palla, a suggellare il messaggio «qui non stiamo facendo televisione, questa è REALTÀ STILIZZATA»). Ma cos’ha mai fatto di tanto estremo il Lazarus per meritarsi il soprannome? E’ un ex cronista di nera del Ledger, licenziato in tronco dopo dieci anni di onorato servizio. Colpa dei tagli al budget. Un giorno è arrivato in ufficio e gli avevano già sgombrato la scrivania. (Lui ha reagito «restando ubriaco per un anno», e poi diventando poliziotto con lo spirito di chi si arruola nella Legione Straniera e chiede alla moglie se mentre è via gli registra Fahrenheit).

In eredità gli è rimasta la conoscenza di prima/seconda mano della storia della città, al di là dei singoli isolati, e il giornalista si trasforma in un puntuale Amico Spiegazione per tutta la squadra. (Forse, azzardando, era un personaggio-specchio per il creatore Richard Price; dopo Eric Cash, un nuovo «se non mi fosse andata bene, forse sarei finito così») Lo stesso. L’informazione resta: il Ledger sta lasciando a casa la gente. Padri di famiglia, redattori con provata anzianità. Iscritti al sindacato. Nessuno è più al sicuro.

Col panico morale come moneta di scambio giornaliera, credevo che il Ledger potesse contare su una base salda di copie vendute – un pubblico affezionato, che vuole sempre leggere l’ultima sull’imprendibile stupratore dell’East Side, indignarsi perché le forze dell’ordine non proteggono le brave persone. Il Ledger, come il Post, serializza qualunque cosa, e sbatte foto segnaletiche in prima pagina molto prima di sapere se quello là c’entri davvero qualcosa. Il quotidiano ha zero integrità, i lettori ne hanno bisogno. Non lo comprerebbero, se di colpo diventasse cauto e corretto. (Giocate anche voi:  «Ehi, il Sentinel dice che qui l’aria è contaminata.» «Chi se ne frega, io leggo il Ledger.»)

Ma più che cercarne un equivalente reale, è giusto immaginare il New York Ledger come  l’equivalente noir del Daily Bugle, e il suo direttore come un maniaco che suona la campana dei pompieri a ogni minorenne scomparso da casa. (Oppure rompe uno specchio a pugni e urla “MANUEL! PORTAMI ALTRO SANGUE!”, vi piace così? Ho dormito male.)  E i suoi editor, magari, te li immagini come ossessionati da qualcosa che non riescono ad afferrare, anche loro perseguitati dalla storia fantasma che non hanno potuto pubblicare – ma più generosi con il loro staff, fatta salva la cialtroneria generale. Più protettivi e paterni rispetto a J. Jonah Jameson. Vero, il Ledger non formerà giornalisti rispettosi dei fatti, ma anche l’ultimo degli stagisti uscirà da quelle porte ripetendo a pappagallo «non sono tenuto a rivelare le mie fonti». Nessuno scandalo per plagio, scopiazzature o invenzione pura. Non c’è alcuna pressione verso l’eccellenza, solo verso la freschezza; l’importante è arrivare primi.

Eppure. Lazarus non lavora più lì.

Per me, introdurre la crisi in quel contesto dice più di quattrocento speciali di Ballarò sui lavori che stanno scomparendo. In generale, vedere un cronista che si rimette sul mercato – a fatica e con rancore – mentre cerca di ricucire il rapporto con la figlia teenager e già dotata di fidanzatino spacciatore (per giunta bianco, per giunta ricco) poteva sembrare un eccesso di informazione, un grosso “ho capito, grazie, passiamo ad altro”, se ce lo si trovava davanti negli stessi giorni in cui David Carr raccontava la probabile morte dei settimanali, dopo i quotidiani, con un pezzo reale e circostanziato. Non importa. Due realtà hanno regole diverse, e possono convivere serenamente. E allora il Ledger cambia struttura, ma non muore mai. La gente continua a parlarne, a leggerlo, a lasciarlo in metrò. Come se non fosse mai scomparso.