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Il Belgio

La nazionale allenata da Marc Wilmots non è arrivata in Brasile da outsider. Oltre a Kompany, Hazard e gli altri c'è un piano calcistico che passa anche per la federazione belga. Perché, come dice Wilmots stesso, «alla base c'è il gruppo, non gli individui».

di Daniele Manusia

Il Belgio sarebbe stata la squadra perfetta da tifare alla fine degli anni Novanta o inizio Duemila, in un mondo senza social network e con meno Internet in cui non se ne fosse parlato tanto. Tifare Belgio al Mondiale brasiliano di quest’estate potrebbe sembrare una scelta banale, e agli appassionati più sinceri che si impegnano a conoscere le rose delle squadre minori è diventata persino antipatica. Il Belgio del 2014 è la squadra di cui anche chi non sa nulla di calcio può dire fingendo di saperne di calcio: “Oh, il Belgio è forte quest’anno”.

Quindi, non solo ha perso tutti i privilegi di simpatia dell’outsider, ma a forza di citare la golden generation dei vari Kompany, Witsel, Fellaini, Hazard e Lukaku si è passati dal guardare al Belgio come a una possibile sorpresa del Mondiale brasiliano, a una squadra che deve far bene a tutti i costi. Il paragone corrente è con il Belgio migliore di sempre, quello di Scifo arrivato in semifinale a Messico ’86. Adesso immaginate la pressione che possono provare calciatori tutti abbastanza giovani (se si escludono Van Buyten, 36 anni, sulla cui presenza in campo però non giurerei, sono tutti sotto la trentina e tra i possibili titolari ce ne sono cinque o sei sotto i 25) a dover giocare un Mondiale con delle aspettative simili.

Anche dando per scontato che il Belgio esca dal girone iniziale come prima si troverà ad affrontare già dagli ottavi la seconda del Gruppo G: quello con Portogallo e Germania; e in caso proseguisse potrebbe incontrare Argentina ai quarti e Spagna in semifinale. Sarebbe difficile immaginare un percorso più difficile. E, in fondo, sono passati solo due anni da quando alcuni di quegli stessi giocatori non sono riusciti a qualificarsi per l’ultimo Europeo (in totale il Belgio ha mancato due Mondiali e tre Europei consecutivi). L’ultimo gol ufficiale segnato dalla Nazionale belga in un torneo internazionale lo ha segnato Marc Wilmots, che adesso la allena. Era il 2002 e l’avversario la Russia nell’ultima partita del girone eliminatorio. Invece l’ultimo gol in assoluto del Belgio in un Mondiale è un gol annullato, sempre a Wilmots, nell’ottavo di finale seguente perso 2-0 contro il Brasile. Alla mezz’ora del primo tempo, precedente quindi a quelli di Rivaldo e Ronaldo. Su un cross dalla trequarti di Simons dalla destra, Wilmots aveva fatto movimento e contro-movimento per allontanarsi da Roque Junior che lo marcava: «Ho creato quello spazio tra me e lui di modo che quando il cross arriverà io starò avanzando e lui indietreggiando, e avrò un vantaggio. È una questione molto tecnica, bisogna giocare e pensare a tutti i dettagli». Quando la palla arriva Wilmots salta e il duello aereo sembra pulito, ma l’arbitro fischia un suo fallo su Roque Junior. Ancora anni dopo, in un video che si trova su YouTube, in cui ricorda l’azione del gol in camicia bianca su un divano comodo, Wilmots non sembra aver digerito la decisione dell’arbitro.

Il Mondiale in Brasile potrebbe, quindi, essere lo scenario perfetto per consumare una vendetta che è sia di tutto il Belgio sia personale di Wilmots, che dopo un breve passaggio in politica ha fatto da secondo ad Advocaat e a Leekens e ha cominciato a guidare la Nazionale proprio a partire dal percorso di qualificazione (dal maggio 2012, cioè). Ed è subito un successone: otto vittorie in dieci partite e quattro gol subiti in tutto. La qualificazione matematica ottenuta in Croazia, vincendo 2-0 una partita difficile che è sembrata una specie di esame di maturità. Le aspettative che circondano il Belgio, l’eccitazione che gli anglofoni esprimono con il termine «hype» che sa anche di ingenuo che segue la moda o la strategia marketing di qualche multinazionale, in parte sono giustificate. Sono giovani, ma non del tutto privi di esperienza: la maggior parte di loro gioca nelle squadre di prima fascia del campionato più competitivo d’Europa, quello inglese. Alex Witsel, che gioca in Russia nello Zenit, è stato pagato 40 milioni di euro. Eden Hazard si permette di criticare pubblicamente il gioco del Chelsea di Mourinho influenzato forse da un’offerta del Paris Saint Germain. Thibaut Courtois, ad appena 22 anni, secondo alcuni è già il miglior portiere al mondo. Agli altri nomi che già si sapevano va aggiunto Adnan Januzaj, classe ’95, che potendo scegliere ha preferito il Belgio all’Inghilterra. Persino alcuni giocatori rimasti fuori dalle convocazioni per troppa abbondanza (tipo il fratello di Eden, Thorgan Hazard, votato quest’anno come miglior giocatore del campionato belga) o perché davvero troppo giovani (Zakaria Bakkali classe ’96; Youri Tielemans classe ’97) sono sulla bocca di tutti e sarebbero finiti nella lista di molte altre Nazionali.

A Wilmots però va soprattutto il merito di aver trasformato un insieme di talenti in una squadra vera e propria. È passato troppo poco tempo perché qualcuno si sia dimenticato di quando nel 2011 Hazard ha snobbato Leekens che lo aveva sostituito ed è uscito a mangiare un hamburger in un chiosco sul piazzale dello stadio. All’interno la partita con la Turchia era ancora in corso.

Lo scorso aprile il canale fiammingo Eén ha mostrato alcuni estratti di una serie Tv girata durante le qualificazioni al Mondiale. Scene di vita privata: Benteke che guarda Californication a letto, con il MacBook Air sulle gambe e il cuscino dietro la schiena; Courtois che gioca alla Playstation da solo; Fellaini che ride guardando un’intervista di Lukaku in tv e il Lukaku in carne e ossa sdraiato su un lettino per massaggi che sembra troppo piccolo per lui. Si vede anche Wilmots aspettare Hazard che arriva in ritardo in albergo e chiede scusa. Successivamente Wilmots spiega che una delle regole del gruppo è che chi arriva in ritardo offre una coppa di Champagne ai compagni (invece di pagare una multa). «Se qualcuno tradisce lo spirito del gruppo vola dalla finestra. Chiunque esso sia», dice l’allenatore. «Tutte le regole ruotano attorno allo spirito di gruppo. Alla base c’è il gruppo, non gli individui».

Poche settimane fa il trequartista dell’Everton Kevin Mirallas (in Nazionale da sempre, faceva parte della squadra olimpica che a Pechino nel 2008 ha eliminato l’Italia di Giuseppe Rossi, Montolivo e Giovinco) ha ipotizzato che al posto dell’infortunato Benteke (rottura del tendine d’achille) avrebbe potuto giocare Vossen e che secondo lui non c’era bisogno di Januzaj. La risposta di Wilmots è stata fin troppo chiara: «Non è il suo lavoro [di Mirallas, nda]. Deve stare zitto». E riguardo a un altro possibile convocato, Michy Batshuayi, Wilmots ha detto di averlo trovato «troppo egoista» durante i playoff del campionato belga: «Pensa troppo poco al collettivo».

Scrivere di questo Belgio prima del Mondiale è particolarmente rischioso per cui devo dire che le sconfitte in amichevole con Giappone e Colombia successive alla qualificazione e il pareggio recente con la Costa d’Avorio hanno fatto sorgere più di un dubbio sull’effettivo valore della Nazionale di Wilmots. Da un punto di vista strettamente calcistico è una squadra strana, senza terzini, con molti trequartisti dalle caratteristiche simili e un solo centravanti a disposizione (Lukaku, a cui però piace lasciare la posizione centrale), oltre ad alcuni giocatori dalla difficile collocazione tattica come Fellaini e Dembelé. Forse più da contropiede (come con la Croazia) che da possesso palla e fuochi d’artificio negli ultimi venti metri.

D’altra parte non può essere solo moda se il Belgio è passato dal settantunesimo posto nel ranking Fifa del giugno 2007, al quinto dello scorso ottobre.

D’altra parte non può essere solo moda se il Belgio è passato dal settantunesimo posto nel ranking Fifa del giugno 2007, al quinto dello scorso ottobre (la classifica viene aggiornata ogni mese e adesso che scrivo sono in undicesima posizione). Michel Sablon, ex direttore tecnico della federazione belga, ha raccontato allo Sportsmail la storia di come, sulla spinta del deludente europeo ospitato nel 2000 (eliminati al primo turno) abbiano cominciato a organizzare riunioni con i loro colleghi francesi, olandesi e tedeschi, per capire cosa non andava nel loro sistema formativo. Hanno anche filmato 1.600 ore di partite del settore giovanile prima di trarre le loro conclusioni e convincere i club a far giocare le loro giovanili con il 4-3-3 invece del 3-5-2. «Ci sono voluti cinque o sei anni prima che si convincessero davvero. Perché per la maggior parte degli allenatori e delle società l’unica cosa che contava era vincere la partita».

Inoltre va considerato che molti dei giocatori in rosa sono figli di immigrati arrivati in Belgio negli anni ’80. Il padre di Lukaku ha partecipato alle qualificazioni di Usa ’94 con la maglia dello Zaire e il padre di Fellaini era venuto dall’Algeria per giocare a calcio, ma dopo aver avuto problemi con il transfer è rimasto a fare l’autista di autobus a Bruxelles. Benteke è nato in Congo e la sua famiglia è emigrata durante il regime di Mobutu mentre Kompany è figlio di padre congolese e madre belga. Oltre a delle nuove caratteristiche fisiche (una forza che ricorda quella della Francia del ’98, altro simbolo di felice integrazione) e all’influenza del “calcio di strada” sulle skill tecniche in dotazione alle nuove generazioni, i figli degli immigrati sembrerebbero immuni alle divisioni interne tra fiamminghi e francofoni che hanno lasciato il Belgio senza governo per 541 giorni (dal 2007 al 2011, battendo il precedente record dell’Iraq). «Non sono metà belga e metà congolese», ha detto il capitano Vincent Kompany, «Sono cento per cento belga e cento per cento congolese». E non è escluso che questo nuovo sentimento identitario, unito al potere del calcio possa avere degli effetti sul piano politico. Nel 1986, dopo il successo di Scifo & co., si è verificato un aumento del quindici per cento all’interno della comunità fiamminga nel sondaggio annuale che misurava, appunto, il sentimento nazionale.

Probabilmente per capire se il Belgio è diventato sul serio una nuova potenza calcistica, apprezzare in pieno il lavoro di strategia della federazione e l’evoluzione del nuovo spirito belga, bisognerà aspettare l’Europeo del 2016 o il prossimo Mondiale in Russia. Magari un fallimento completo porterà alla scissione del Belgio in due entità politiche separate con due Nazionali di calcio; in quel caso la morale della favola è: Don’t believe the hype (cioè non fidarti delle mode). Cercate comunque di non giudicare troppo severamente il vostro amico che durante le partite per fare l’informato se ne esce con: “Oh, il Belgio è forte quest’anno”.

 

Dal numero 1 di Undici, in edicola