Attualità

La sera dopo Tolosa

Passare davanti a una sinagoga, le perquisizioni ai tempi della scuola e la memoria che deve ingannare

di Anna Momigliano

Ho un rapporto difficile con le guardie armate. I carabinieri in divisa, i servizi di sicurezza, le perquisizioni davanti alle scuole: roba che mi ha sempre dato ai nervi, da quando mi sono accorta che per entrare in via Sally Mayer – la grande sede della Comunità ebraica milanese che ospita, tra le altre cose, la scuola materna, le elementari e il liceo – ti toccava passare per il controllo di sicurezza.

I ricordi mi dicono che ti aprivano lo zainetto, ma la memoria inganna, e alcuni vecchi compagni dicono che invece c’era solo un tizio che ti dava un’occhiata per vedere che non fossi un pazzoide o un assassino. Nella mia memoria, quel tizio è un ometto basso e grassoccio dall’accento israeliano – ma, ancora, potrei sbagliarmi, comunque mi stava antipatico. Avrò avuto 15 anni e mi capitava di frequentare Sally Mayer perché per un breve periodo il mio gruppo scout, l’Hashomer Hatzair – gente de sinistra, affiliata al partito socialista israeliano e, almeno allora, senza legami ufficiali con la Comunità ebraica – per un breve periodo era rimasto senza sede e in un paio di occasioni ci avevano ospitato quelli della Comunità. Gente seria, loro.

Noi all’HH i controlli di sicurezza non li avevamo mai fatti (che a me risulti nessuno aveva anche solo preso in considerazione l’idea, che comunque avrebbe richiesto doti organizzative al di là della nostra portata) e a maggior ragione la sicurezza di Sally Mayer mi infastidiva: adulta, borghese, paranoica. Che palle. Roba da yid, da gente che si vuole ghettizzare da sola, da ebrei della diaspora che vivono nella paura eterna dell’antisemitismo – a quei tempi, un po’ per colpa di un indottrinamento marxista-sionista, un po’ (ahem, soprattutto) per colpa mia che quella retorica da ante-guerra la prendevo un po’ troppo sul serio, mi piaceva pensare che gli ebrei europei fossero un po’ fifoni e paranoici, non come i pionieri israeliani, loro sì che avevano le palle.

Poi, forte di un paio di anni e qualche neurone in più, mi sono trasferita in Israele. Dove ho scoperto che anche lì le perquisizioni sono di casa: anzi, alla Hebrew University lo zainetto ce lo aprivano veramente ogni santo giorno prima di andare a lezione (non vi dico che fatica facevano i pusher che bazzicavano intorno all’università), e pure per rientrare in certi dormitori (mai capito perché alcuni sì, altri no). Ti perquisivano anche per entrare nella città vecchia, o al centro commerciale, in discoteca, al cinema (davanti ai negozietti sfigati e al mercato no, infatti al mercato di bombe ne sono esplose parecchie). Ancora: che palle.

 

Questo era più di dieci anni fa.

 

Poi l’altro giorno, lunedì sera, passando davanti alla piccola sinagoga del mio quartiere, ho notato che la camionetta dei carabinieri, un tempo fissa davanti all’entrata, non c’era più.

La mattina prima Mohammed Merah aveva ucciso tre bambini e un adulto davanti a una scuola ebraica di Tolosa. Una delle vittime si chiamava Miriam, aveva otto anni: un testimone dice che era riuscita a rannicchiarsi in un angolo, che Merah si è avvicinato, le ha puntato una pistola alla testa e le ha sparato. Con calma. A una bambina di otto anni rannicchiata in un cantuccio. Prego che non sia vero, che si sia sbagliato, lo shock, la memoria inganna, cazzo, deve ingannare.

Non so quando esattamente o perché hanno tolto la guardia davanti alla piccola sinagoga. Forse non serviva, forse sono sotto organico, o forse hanno concentrato la sicurezza sul tempio centrale, quello di via Guastalla, da quando quel tizio è stato arrestato a Brescia. Forse hanno vinto quelli come me, che “le camionette fanno ghetto”. So solo che aspettavo da tanto tempo il giorno in cui sarei passata davanti a una sinagoga e non avrei trovato più il picchetto armato, ma che quando questo giorno è arrivato non è stato come me l’ero aspettato.