Attualità

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a novembre in redazione.

di Aa.Vv.

Wyl Menmuir – Al largo (Bompiani)
trad. Tommaso Pincio

Che il mare sia una cosa misteriosa per noi esseri di terra me ne accorgo anche dopo trenta miseri minuti al largo, quando la costa della Liguria e le colline sono ancora visibili chiaramente, e anche il campanile della chiesa del Paese. Se guardo dritto davanti a me, invece, vedo solo blu, e sole e nuvole e poche altre barche. Quando esco con il gozzo di mio padre, finisco poi per concentrarmi, sempre, sull’acqua che sbatte b08255-FFHH6G6Gsulla chiglia, mentre la barca procede lenta per permettere alle canne da pesca e alle esche di fare il loro lavoro al traino. È uno sbattere ipnotico e pauroso, e la barca che galleggia a tratti mi ricorda un aereo in balia delle leggi della fisica, pronta a sprofondare nonostante la patina sottile dell’acqua. Una specie di simile terrore del mare è presente dall’inizio alla fine nel brevissimo Al largo di Wyl Menmuir, a metà tra la fantascienza e la magia, il catastrofismo climatico e il romanzo intimo sulla vita di paese, sulle nascite e sulle morti, le generazioni e le gentrificazioni. Un piccolo centro dedito alla pesca, un nuovo arrivato, un mare abitato da creature agonizzanti e tossiche, e una misteriosa fila di navi portacontainer abbandonate all’orizzonte. Ci sono pochissime cose dette, e molte sconosciute, a partire da quella fila di navi disabitate, che galleggiano a nascondere l’orizzonte di qualcosa. Ha molto senso che tutto intorno riecheggi come una minaccia costante il mare, che è la cosa di questo mondo di cui conosciamo meno, e che sa tenere meglio i segreti. (Davide Coppo)

 

Schermata 2017-11-30 alle 17.00.09Marta Zdulska – Fire Is My Favorite Colour (Cesura Publish)

Il diario è un formato letterario classico, di origine antica, ma ha conosciuto in questi anni di “ritorno all’esperienza” una fioritura che solo vent’anni fa sarebbe stata difficile immaginare. La riscoperta di classici del genere – viene subito in mente il culto contemporaneo dedicato ai Journals di Cheever – i romanzi che ne hanno mutuato la forma (Sheila Heti), il diario come tono di voce (Joan Didion), fino ai meta-diari, diari che riflettono sul diario, come Ongoingness di Sarah Manguso (da poco tradotto in italiano). In un’epoca in cui una pagina Tumblr può essere considerata una forma d’arte, il diario diventa anche un florido campo di sperimentazione di dialogo tra discipline, con l’unione di testo e immagini e altri media ancora. È il caso di Fire Is My Favorite Colour di Marta Zdulska, pubblicato da Cesura Publish, agenzia indipendente e casa editrice con un catalogo sempre da seguire (da loro era uscito pure Italy&Italy, di cui avevamo parlato qualche mese fa). Si tratta di un diario fotografico, inframmezzato da pensieri scritti a mano. È al tempo stesso un collage e una galleria di ritratti. Ha una grana intima e privata, ma restituisce il senso dell’esperienza umana propria del diario. È la “vera storia” di questa fotografa polacca nata nel 1984 e della sua esperienza di vita a Londra in una forma di costante precarietà. I cambi di case, di amici, di amanti, e i paesaggi, le nudità, le nature morte, il disordine ne fanno un luminoso groviglio in cui si combattono tristezza e felicità. (Cristiano de Majo)

 

b08303Lindsey Fitzharris – L’arte del macello (Bompiani)
trad. Roberto Serrai

Abbondano le leggende metropolitane sulla gente che sviene guardando un film, però mi piace pensare di avere battuto ogni limite, quando ho avuto un mancamento leggendo in metropolitana questa biografia di Joseph Lister. Per chi non lo sapesse, Lister è il leggendario chirurgo che alla fine dell’Ottocento ha trasformato la sua professione da un lavoro sporco degno di un macellaio a qualcosa di simile a quello che è oggi. Oltre ad essere una storica della medicina, Fitzharris è anche una superba narratrice, infatti il suo libro che pulsa di sangue, umori e morte, proprio come un ospedale della Londra vittoriana: da lì la mia reazione (a mia difesa, soffro di pressione bassa ed ero sull’affollatissima tratta della verde “redazione di Studio – casa mia”). L’autrice porta il lettore in un mondo macabro, e insieme denso di speranze e cambiamenti, dove l’uomo «annegavano nella propria sporcizia», i medici operavano in camici «incrostati di sangue e di pus» per poi riporre i loro strumenti, più simili ai trinciapolli che ai bisturi, in sudice custodie di velluto; un mondo che cambia, lentamente e non senza sforzi, anche grazie a Lister. Il giovane chirurgo, che ebbe due padri – uno putativo, il suo maestro Robert Liston, che introdusse l’anestesia in Inghilterra, e uno letterale, Joseph Liston Sr, grande inventore di microscopi – nel 1852 ebbe la brillante idea di esaminare al microscopio, strumento allora non del tutto accettato nella comunità medica, la «materia purulenta» prelevata dalle piaghe di una paziente. Notò che al suo interno esistevano «alcuni corpi di dimensioni abbastanza uniformi», cioè i microbi, causa di infezione e malattia, di cui allora s’ignorava l’esistenza. Appena un lustro prima un ostetrico ungherese, Ignác Semmelweis, aveva osato notare che, se il personale medico si lavava le mani, le chance di sopravvivenza delle partorienti aumentava a dismisura: l’avevano rinchiuso in un manicomio. Cinque anni però erano un’eternità, in quell’era di cambiamenti epocali. A sostenere l’osservazione di Lister si aggiunsero, a strettissimo giro, le scoperte di Pasteur. Oggi il grande pubblico associa la teoria dei germi soprattutto allo scienziato francese; il nome di Lister invece è immortalato in un popolare marchio di collutorio battezzato in suo onore; a Semmelweis è stata intitolata un’università. (Anna Momigliano)

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Kate Tempest – Let Them Eat Chaos / Che mangino caos (edizioni e/o)
trad. Riccardo Duranti

Quando ero al liceo leggevo moltissima poesia, perlopiù roba allegra e scanzonata tipo Leopardi, Coleridge, Novalis e Holderlin. Mi piaceva leggere i poeti maschi: erano i miei eroi, i miei Leonardo di Caprio, mi innamoravo di loro. Le poesie delle donne mi annoiavano perché le ritenevo troppo simili a quelle che avrei scritto io, se avessi saputo scrivere. Ancora oggi preferisco guardare il film con Gwyneth Paltrow sulla vita di Sylvia Plath che leggere le sue poesie: scottano troppo, non riesco a tenerle in mano. Le sento troppo vicine e dolorose. Molto diverso è leggere il lavoro della rapper e poetessa Kate Tempest, che per me è eroica e lontanissima come i poeti del liceo, anche se ha solo un paio d’anni in più di me. Il libro edito da e/o non è che la trascrizione dell’omonimo disco, con testi a fronte di Riccardo Duranti. Ma di quell’album-live osannato da pubblico e critica è un’incarnazione compatta, che mi porterei in giro nel taschino della giacca come facevo con i Dolori del Giovane Werther. Tempest è grande perché non si rifugia nel suo essere donna: fin da subito, dai primi versi, si presenta come uno sguardo che osserva la terra da lontano, fluttuando in uno spazio nero. Non è facile oggi trovare una scrittrice che non rimanga intrappolata nella sua femminilità, che abbia il coraggio di considerarsi prima di tutto un artista. Nei suoi diari Virginia Woolf scriveva che per entrare nella realtà aveva bisogno di “uscire dalla vita”. E diceva una cosa tipo «Quando scrivo dimentico Virginia, sono soltanto una sensibilità». Ecco, Tempest è una sensibilità: che venga dalle cuffie o dal pc, dal vivo o da un video, dalla carta o dallo schermo, in inglese o in italiano, la sua voce è sempre forte. A volte mi sembra ingenua, ad esempio quando pronuncia parole come “giustizia” o “umiltà”, o quando prega i suoi “loved ones” di amarsi di più. Ma sempre così mi sono sembrate, le voci degli eroi. (Clara Mazzoleni)