Ossessionata dal significato dell’esistenza, Clarice Lispector ha passato la vita a porsi domande a cui non poteva avere risposta; meno risposte riusciva a trovare, più scriveva frasi smarrite o inebriate. Quando la paragonavano a Virginia Woolf disapprovava, finché una volta rispose esplicitando la differenza tra lei e la scrittrice inglese cui tanto somigliava: «Il compito terribile è andare fino in fondo», disse, intendendo in fondo alla vita. La bellezza di Acqua viva, considerato da molti critici il capolavoro dell’autrice brasiliana, si fonda su un equilibrio precario, che lo rende il compendio perfetto di un’esistenza affaticata, sempre in bilico tra lo stupore e il misticismo, incapace di conoscere le mezze misure e di tradurle in una scrittura “normale”. Tra le sue pagine Clarice Lispector, cinquantenne all’epoca della prima pubblicazione del libro, diventa la medusa – água-viva, in portoghese – che gli dà il titolo (e che permette ad Adelphi di comporre una delle più belle copertine degli ultimi anni, per inciso): come l’animale marino è sospesa, incantata, immersa in un’eternità immobile. Osserva rapita la natura. Dice: «Scrivo perché voglio profondamente parlare», e parla in un flusso magmatico di personale e universale, di amore, di senso, di armonia e di sofferenza, di mattine d’estate e di silenzi, di giubili immotivati e di sconforti. Acqua viva si legge come un lungo discorso allucinato, e più che un libro a tratti sembra una sinestesia rivelatoria di un santone orientale. Però di certo non è un testo né mistico né filosofico. Si può definire con precisione soltanto ciò che non è, per poi abbandonarsi alle sue descrizioni degli istanti, l’altra grande ossessione che ha segnato la vita e la scrittura di Lispector: «Adesso silenzio e un leggero spavento. Perché alle 5 del mattino di oggi, 25 luglio, sono caduta in stato di grazia. […] Non ero affatto in meditazione, non c’era in me alcuna religiosità. Avevo finito di bere caffè e stavo semplicemente vivendo lì seduta con una sigaretta che si consumava nel posacenere». (Davide Piacenza)
Dara, un giovanotto con una cresta di capelli impomatata di gel, s’illumina sentendo qualcuno smuovere esitando la maniglia della porta e pensa: «Un cliente, era ora». Quelle cacchio di leggi sulla guida in stato d’ebbrezza sono una iattura per gli affari, scapoli e ammogliati che abitano su in campagna si scolerebbero volentieri un paio di pinte, ma ci vanno cauti perché i vigili gli contano i sorsi, privando la vita delle gioie più elementari.
– Buonasera, – dice quando apre la porta e si affaccia fuori commentando il tempo da lupi, poi i due, simulando un abbozzo di cameratismo, restano sulla soglia a riempirsi i polmoni da veri uomini.
Dara sentì il bisogno di genuflettersi quando guardò meglio la figura, una specie di santone con la barba e i capelli bianchi e un lungo cappotto nero. Aveva guanti bianchi, che si sfilò lentamente, un dito per volta, guardandosi attorno a disagio, come se si sentisse osservato. Dara lo invitò ad accomodarsi sulla poltrona buona di cuoio vicino al fuoco, e lanciò un a pila di bricchette e una punta di zucchero per attizzare le fiamme. Era il minimo che potesse fare per uno straniero.