Attualità

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a maggio e cosa stiamo leggendo in redazione.

di Aa.Vv.

Emmanuel Carrère – Io sono vivo, voi siete morti (Adelphi) trad. Federica e Lorenza Di Lella

Philip Dick è lo scrittore che amavo quando ero all’università. Emmanuel Carrère è uno degli scrittori che ho più amato in età adulta. L’incrocio tra i due sembra strano e impossibile, tale è la diversità di stili, generi e, ma solo all’apparenza, di temi. Eppure l’incrocio avviene in questo libro ripubblicato da Adelphi, una biografia dello scrittore di fantascienza uscita nel 1993 in Francia e pubblicata in Italia quando Carrère non era ancora Carrère e Dick era già Dick. df75bf36820835c61774bbf4b5913197_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyDa leggere non solo perché la vita dell’autore di Palmer Eldritch è un affascinante concentrato di solitudine, controcultura e illuminazione, ma anche perché  tutto il lavoro dello scrittore di francese acquista luce e significato. Innanzitutto si capisce ancora meglio come la vocazione di Carrère sia quella del biografo (Romand, Limonov, suo nonno, le vite raccontate in D’autres vies que la mienne) in un libro dove, a differenza degli altri, la componente autobiografica è del tutto assente. Ma soprattutto,  diventa chiarissimo – e certo c’è stato Il Regno poi – come il centro delle indagini dell’autore dell’Avversario sia il rapporto con dio e la predestinazione. Se ogni scrittore è il dio dei suoi personaggi, le vite scelte da Carrère hanno sempre, in un modo o nell’altro, una tensione mistica. Così creazione letteraria e creazione in senso religioso si specchiano una nell’altra proiettando immagini di vite che, anche se non sono le nostre, ci sembra di poter toccare.

(Cristiano de Majo)

 

Haruki Murakami – Vento & Flipper (Einaudi) trad. Antonietta Pastore

cover«Non era un pensiero logico, era una profondissima intuizione». Haruki Murakami ha appena compiuto trent’anni e, come scrive nel personal essay “Romanzi nati sul tavolo della cucina” che fa da introduzione a questo libro, decide di partecipare a un concorso letterario indetto dalla rivista culturale Gunzo. Appena un anno prima, folgorato da un’improvvisa consapevolezza maturata durante una partita di baseball pur meno epica di quella di Underworld, aveva iniziato a dedicare alla scrittura i momenti liberi dalla sua attività di gestore di un bar (scriveva su una Olivetti nella cucina di casa sua, come da titolo). Ne era venuto fuori Ascolta la canzone del vento, il primo di questi due scritti “giovanili”, come li si chiamerebbe se non fossero già Murakami in purezza. La stessa mitopoiesi del suo accostamento allo scrivere, anzi, ha il sapore del romanzo di formazione, e quasi non si distingue più tra l’autore in carne e ossa e il Toru Watanabe protagonista di Norwegian Wood. Per il resto, nei primi due romanzi di Murakami ci sono il Jay’s Bar – dove il narratore passa diverso tempo a farsi servire birre da J, un personaggio piatto e assertivo, e a berle col suo amico il Sorcio, caustico e disincantato – diverse donne, riflessioni raffazzonate sul senso delle cose e, soprattutto, quelli che sarebbero diventati gli stilemi murakamiani: accostamenti al limite dell’assurdo, periodi che cadono nel nulla, non sequitur. È un inizio a metà tra pop e noir che scorre con piacevole leggerezza, giustamente e fortunatamente atipico perché, riportando le parole dell’allora giovane autore: «Mi chiamo Murakami Haruki e sono uno scrittore che ha la sua autonomia».

(Davide Piacenza)

 

Hiraide Takashi – Il gatto venuto dal cielo (Einaudi) trad. Laura Testaverde

71HjyAYeWmLHo iniziato a leggere Il gatto venuto dal cielo in un pomeriggio di ferie, a casa, sul divano. Fuori pioveva forte. Non mi sono alzato dal divano per minuti, ore. Alla fine di quel pomeriggio ho finito il libro, che è un libro corto, certo, ma io d’altra parte soffro di enormi deficit di attenzione che mi portano a leggere dieci pagine di un autore, per poi leggerne dieci di un altro, per poi iniziare un articolo di giornale, e così via. Quello di Hiraide Takashi è un libro particolarmente adatto, invece, a essere consumato così, in poco tempo, meglio se in compagnia di un gatto. Alzavo gli occhi dalle pagine del libro per posarli sul mio gatto, un siamese che si chiama Henry James (avevo ventidue anni, dai) e che ha cambiato con me quattro case negli ultimi sette anni. La storia è quella di una coppia e di un gatto che non è veramente “loro”, ma entra in casa, esce di casa, non familiarizza. A un certo punto scompare. Il gatto in realtà appartiene a dei vicini di questa coppia, e la coppia è strana: è un po’ voyeur, un po’ furtiva, un po’ ossessiva nelle sue attenzioni verso quel gatto non-del-tutto-loro. Ne parlano, ne scrivono (quasi come fanno i protagonisti di I Love Dick con “l’oggetto amato” Dick), confrontano i loro sentimenti e quelli immaginati del gatto. Non so bene in che modo, ma il libro di Takashi colpisce soprattutto per come riesce a descrivere senza perdersi in analisi comportamentali o psicologiche lo strano rapporto tra un essere umano e un gatto. La seconda parte, invece, mi ha fatto immaginare, con dei brividi di terrore, cosa sarà la vita quando il mio gatto sparirà. «Chibi era come al solito: aveva la consueta espressione di chi nutre interesse per gli astri, gli animali e le piante, ma non si cura del mondo umano», si legge a un certo punto. Il legame che si instaura con un gatto è effettivamente qualcosa di molto simile: sono animali imperscrutabili, mi verrebbe da scadere in un romanticismo ridicolo aggiungendo “magici”, eppure c’è qualcosa di affascinante e misterioso in questa impossibilità di decifrarne un solo pensiero, un solo comportamento, di chiedersi il perché di questo rapporto che prosegue da millenni senza essere mai sbocciato in una comunicazione funzionale. Il gatto venuto dal cielo è un compendio di tutto questo. È un libro leggero, in un certo senso, ma contiene un groviglio intricato, ammaliante e insieme perturbante di domande silenziose.

(Davide Coppo)

 

Kim Gordon – Girl in a Band (minimum fax) trad. Tiziana Lo Porto

MF_GORDON_GirlInABand_COVER.inddGirl in a band è un memoir malinconico, dalla nostalgia invadente che contrasta con la necessità di essere felice che appartiene a ogni essere umano. Da fan dei Sonic Youth siamo stati abituati a vedere soltanto il lato sicuro e potente di una donna dalla femminilità gelida ma attraente. Kim Gordon ha sempre rappresentato la trasfigurazione di un elemento glaciale, uno specchio al cui contatto viene restituito qualcosa di freddamente feroce. Kim è apparsa sempre inavvicinabile, distaccata e difficile da decodificare. La sua naturalezza mai teatrale, l’immobilità che la contraddistingue mentre solca le assi di legno di un palco, l’ha fatta apparire troppo spesso come un personaggio privo d’emozioni. Misterioso e indecifrabile. Le pagine di questo testo restituiscono tutta la sensibilità violenta di una ragazza cresciuta in una famiglia piena di sovrastrutture, una ragazza completamente indecisa tra il risultare attraente e la paura di attirare troppa attenzione. Partendo dall’ultimo tour dei Sonic Youth in Sud America, poco dopo l’annuncio della separazione dal marito e sodale Thurston Moore, incontriamo un’anima ipersensibile, che investiga la propria condizione. Kim Gordon non è certa di essere una donna forte, nonostante in qualche modo abbia sempre fatto trasparire questo senso di sicurezza assoluta. La storia di Gordon è il racconto di anni di formazione trascorsi tra Hong Kong e le Hawaii, storie di Jazz e musica classica, di un «freudiano desiderio di morte» e di serenità domestica. Una donna cresciuta cantando la schizofrenia con cui è stata a lungo a contatto ( al fratello Keller è stata diagnosticata molto presto), con l’obiettivo di scardinare la stupida convinzione secondo cui alle donne non sarebbe permesso di essere grandiose e «sfondare un po’ di culi». Kim si è rifiutata di giocare al gioco delle convenzioni, è divenuta madre in un mondo – quello musicale – che vede spesso la maternità come ostacolo. Questo testo è un collage di momenti diversi, un viaggio alle origini di una delle donne più iconiche che la storia del rock recente ricordi.

(Oscar Cini)

 

In lettura

Citazioni da cose che stiamo leggendo

Olivia Laing – The Lonely City (Canongate)

9781782111238_The_Lonely_City-xlarge_trans++qk2ROpugF3c1ETx1Pmz9fMQnt3Do9q32eBGQ3uCh9EUIl punto di vista è spesso definito voyeuristico, ma ciò che le scene urbane di Hopper rappresentano è anche una delle esperienze centrali dell’essere soli: il modo in cui il sentimento di una separazione, dell’essere esclusi o inclusi, si combina con un senso quasi intollerabile di esposizione […] Questo è lo specifico di una città, quella sensazione che anche se sei all’interno sei esposto alla clemenza dello sguardo altrui.

 

Jenny Offill – Le cose che restano (NN Editore) trad. Gioia Guerzoni

image_bookPer tutta l’estate non scese una goccia d’acqua. Mia madre piazzò delle pietre lisce in cortile e lo battezzò giardino. Alec e io ci mettemmo a ribaltare le pietre una a una, ma non c’era mai niente sotto. Mia madre diceva che le pietre erano cose che durano e che sarebbero rimaste molto tempo dopo che le persone se ne fossero andate. «Altre cose che restano sono gli oceani, il metallo e i corvi» disse. Pensavo che se avessi riempito una vasca per gli uccelli con l’acqua di mare e ci avessi buttato dentro una moneta, avrei potuto intravedere la fine del mondo. Mia madre disse che era un’idea sentimentale. Mio padre sosteneva che gli scarafaggi avrebbero vissuto molto più a lungo di noi, e anche quella era un’idea sentimentale.

 

Fabrizia Ramondino – Althénopis (Einaudi)

6927753_1535898Trovavamo sulla spiaggia o scendendo al mare su terre pietrose, gli scheletri del tronco dei fichi d’India, che parevano resti di animali preistorici; oltre la barbarie delle forme si scopriva, quando pulivamo i resti della scorza, la delicata meraviglia dei bianchi merletti legnosi, che in vari strati ne avvolgevano il segreto; perché quella pianta quasi animale aveva un suo segreto lunare e a noi piaceva immaginare, oltre ogni evidenza, che non di resti dilaniati di carnosi fichi d’India si trattasse, ma di una meteora vegetale caduta da un pianeta in una di quelle estive notti stellate in cui, se si guarda il cielo, pare di lievitare verso di esso e di ruotare nella luminosa polvere dei mondi. Scostati con delicatezza i vari strati di merletto, attenti il più possibile a non rovinarne la trama, si scopriva una bianca sostanza, disseminata di semi neri, che aveva la consistenza dell’ovatta e la straordinaria proprietà della fosforescenza. Ce le portavamo nelle grotte della Marina, quando c’era la bassa marea, e nel fondo più buio ce ne cospargevamo il corpo, che emanava allora un lucore celeste. Così vestiti di magica sostanza correvamo nella grotta levando le braccia, e volavamo verso il segreto dei pianeti; o, scivolando piano, come sonnambuli, esploravamo il fondo dei mari.

 

Foto Jewel Samad (AFP/Getty Images).