Attualità

I finti software della fantascienza

Chi c’è dietro la realizzazione di alcune delle interfacce uomo-macchina più spettacolari del cinema?

di Alessandro Romeo

Nei film d’azione e di fantascienza c’è sempre un momento in cui qualcuno dice “Controllo il database” lanciandosi con la sedia sotto al primo computer disponibile e dimostrando di padroneggiare perfettamente un software mai visto in giro, diverso da film a film e con delle caratteristiche così straordinarie da farci gettare uno sguardo malinconico al nostro portatile chiuso sul tavolo.

In realtà i software che compaiono nei film sono pensati per fare il minimo indispensabile nella maniera più chiara e spettacolare possibile. Appartengono alla categoria delle user interface (abbrev. “ui”) e nella maggior parte dei casi entrano in gioco nei momenti chiave, quando tra gli indizi manca un’informazione fondamentale per poter passare all’azione. A volte, se la tecnologia svolge un ruolo significativo all’interno della trama, accompagnano l’azione vera e propria, fornendo un appoggio determinante.

Il cinema degli ultimi vent’anni abbonda di esempi celebri, come la ui utilizzata da Keanu Reeves in Johnny Mnemonic, o quella di Tom Cruise in Minority Report, o ancora quella di Robert Downey jr. in Ironman 2. Risalendo indietro nel tempo si può citare Terminator, dove Arnold Schwarzenegger utilizza un’interfaccia meno elaborata, chiamata HUD (che sta per Heads-up display, e non è altro che una versione personalizzata di quella utilizzata in aviazione) per recuperare le informazioni necessarie a integrarsi tra gli esseri umani, non molto diversa da quella più vecchia di sette anni in dotazione all’Alleanza Ribelle in Star wars.

Al di là della maggiore o minore complessità, il tratto comune a tutte le interfacce della storia del cinema è quello di essere progetti informatici commissionati dalla produzione a qualche ui designer esterno e quindi, sostanzialmente, di non esistere.

Queste interfacce rispecchiano, spesso involontariamente, l’epoca in cui sono state create e in molti casi la conseguenza è un invecchiamento precoce. Possono bastare pochi anni per suscitare negli spettatori un po’ di compassione o di imabarazzo, a seconda che stiano vedendo quel film per la prima volta o che l’abbiano già visto magari trovandolo, all’epoca in cui è uscito, molto convincente. Altre volte, invece, si ha la sensazione che alcune interfacce della storia del cinema abbiano saputo anticipare le evoluzioni che la tecnologia ha poi seguito.

In realtà le cose non stanno esattamente così. Mark Coleran, visual designer coinvolto nella realizzazione di interfacce per (tra gli altri) Bourne Identity, Tomb Rider e Mission Impossible 3, racconta come il suo lavoro, in fondo, non consista in altro che “disegnare insieme i vari elementi e combinarli nel tentativo di ottenere un risultato realistico” e come la sensazione che alcune interfacce anticipino i tempi non sia dovuto tanto a particolari doti visionarie da parte dei progettisti, quanto al fatto banale che realizzare software finti è più semplice che realizzare software veri: “Mi basta dare un’occhiata a quello che combinano i programmatori professionisti nei loro laboratori; poi prendo spunto e realizzo dei programmi finti un paio d’anni prima che quelli veri escano nei negozi. Non si allontana molto dalla realtà, solo che i confini sono più netti.”

Può accadere anche il contrario, cioè che una tecnologia in fase sperimentale ispiri la fantasia di un regista.

Nel 1999 John Steven Underkoffler, proseguendo le ricerche sulla sua tesi di dottorato, iniziava a elaborare il sistema G-Speak, pensato per interagire con il computer attraverso una serie di gesti articolati nello spazio. Va detto che già quattro anni prima, in Johnny Mnemonic, Keanu Reevs metteva a dura prova la più grande multinazionale farmaceutica mondiale e la Yakuza, gesticolando davanti a uno schermo. L’idea in sé non era quindi nuova: la novità sta nel fatto che Underkoffler sperimenta realmente, per lavoro, l’interazione tra mondo digitale e mondo fisico.

Quando Spielberg lo contattò per realizzare l’interfaccia di Minority Report non si trattava più di inventare un finto software a scopo cinematografico, ma di utilizzare all’interno del film una tecnologia che esisteva davvero. Secondo Underkoffler, se la gente si ricorda ancora quella sequenza a distanza di più di dieci anni il merito è soprattutto del produttore Alex McDowell: “Ci ha fatto riflettere sulle questioni di design come se si trattasse di vere questioni di design”.

Il rapporto tra Underkoffler e il cinema si intensifica negli anni successivi. Sarà al fianco di Mark Coleran per la realizzazione dell’ui touch usata nel film The island e coinvolto nelle produzioni Hulk (quello di Ang Lee del 2003), di Aeon Flux e infine del primo Iron man.

La produzione di Iron man II, invece, si è avvalsa del contributo dei designer della Prologue, tra le più importanti aziende americane di visual effects, attiva già alla fine degli anni Ottanta. Estremizzando l’idea di Underkoffler (e riportandola nel terreno della finzione), quelli della Prologue hanno immaginato un’ui che occupasse fisicamente lo spazio attorno a Tony Stark (Robert Downey jr.), senza la necessità di uno schermo e di veri e propri pixel. Del resto, lo stesso principio che sta alla base della tecnologia di G-Speak è che il software riconosca che i pixel sono letteralmente nella stanza. Lo schermo non è un semplice insieme di pixel che rispondono a coordinate x e y. Ogni pixel è in realtà individuato dalle coordinate x, y e z che sono le stesse condivise dall’utente e dagli oggetti nella stanza.

Anche se è più affascinante pensare che un’interfaccia permetta di fare qualunque cosa, in realtà è stata pensata per fare (o per far finta di fare) solo quello che serve in quel determinato momento della narrazione. Per questo ogni film ha bisogno della sua interfaccia specifica.

John Wuerfel, che insegna semiotica della radio e della televisione alla Media Academy di Dortmund, non si è limitato a questa constatazione e su Quora ha fornito le sue risposte alla domanda: “Perché nei film e nei programmi televisivi spesso appaiono finti sistemi operativi e finti software?”.

I software veri vengono naturalmente considerati proprietà intellettuale e sono protetti da copyright. Questo fa di loro dei prodotti a tutti gli effetti e la presenza di prodotti di qualunque genere all’interno dei film è regolata dalle norme sul product placement, necessarie per arginare il rischio di pubblicità occulta. Un contratto tra l’azienda proprietaria del software e i produttori del film violerebbe queste norme, pur sapendo che a volte è impossibile stabilire i confini tra la pubblicità occulta e l’utilizzo del prodotto, motivato dal contesto in cui la storia si svolge.

Ma c’è soprattutto un duplice problema di immagine. Se per esempio il software all’interno della storia viene hackerato con molta semplicità oppure se il protagonista non può portare a termine una ricerca fondamentale perché il sistema operativo è troppo lento e il tempo stringe, l’azienda produttrice potrebbe non esserne troppo contenta. Al contrario se il protagonista, magari avvolto da un alone di mistero e fascino e circondato dalla tecnologia più avanzata, interagisse con un’interfaccia troppo familiare e ordinaria, magari con Skype attivo in un angolo del desktop, perderebbe di credibilità e a subire un danno di immagine questa volta sarebbe il film stesso.

La grande diffusione delle ui nel cinema d’azione ci ha abituati a non porci troppe domande e a prenderle per quello che sono. Ciò non toglie che misurarne la loro reale applicabilità possa portare ad  alcune considerazioni interessanti. Ad esempio, perché i caratteri delle interfacce dei film sono sempre giganteschi? Perché quando qualcuno scarica un file questo si apre automaticamente? Perché l’unica mail che arriva nella casella di posta è sempre quella determinante? Perché investire tanto lavoro su delle interfacce 3D quando lavorare al computer in piedi con le braccia sollevate è così faticoso?