Attualità

I film del 2013

Dai redattori e collaboratori e amici di Studio, i migliori (e i peggiori) film visti in sala durante l'anno che sta finendo. Con motivazioni e qualche GIF.

di Redazione

Abbiamo fatto una lista dei libri, una lista dei dischi, e sarebbe stato poco cortese nei confronti della cinematografia non farne una per i film. A differenza delle altre liste, in cui redattori e collaboratori segnalavano le cose migliori di questo 2013, con i film hanno voluto segnalare anche le peggiori, senza nemmeno dirselo a vicenda o coordinarsi preventivamente. Cosa vorrà dire? Il cinema stimola un tipo di critica che la letteratura e la musica non stimolano?

Probabilmente no. Ecco i film, buona lettura.

Laura Spini

PEGGIORI ESPERIENZE AL CINEMA (COMMENTATE CON GIF)

Questi sono i quaranta, Judd Apatow

I Give It A Year, Dan Mazer

Stoker, Park Chan-wook

Diana, Oliver Hirschbiegel

Gli stagisti, Shawn Levy

 

MIGLIORI ESPERIENZE AL CINEMA:

No, Pablo Larraín

The Act of Killing, Joshua Oppenheimer

Pacific Rim, Guillermo del Toro

Re della terra selvaggia, Benh Zeitlin

Gravity, Alfonso Cuarón

Cesare Alemanni

Migliori film (in ordine sparso)

Pacific Rim, Guillermo del Toro
Non dico sia una evoluzione necessariamente positiva, ma quando tutti quanti si andrà al cinema solo per assistere a una colossale e fluorescente riproposizione in CGI degli spettacoli gladiatorii.  io potrò dire ai miei nipotini: “C’ero il giorno in cui tutto questo è cominciato”.

Mud, Jeff Nichols

The Act of Killing, Joshua Oppenheimer

This is the end, Evan Goldberg e Seth Rogen

Crystal Fairy, Sebastian Silva

No, Pablo Larrain

Cattivissimo me 2, Pierre Coffin e Chris Renaud
Il film è quello che è ma i minions se la giocano con chiunque come miglior invenzione nella storia del cinema animato.

Gravity, Alfonso Cuaron
Non so perché qualcuno abbia voluto o dovuto fare paragoni impegnativi e fuori luogo con 2001 di Kubrick, sgombrando il campo da queste str…anezze resta uno Speed in assenza di gravità e in assolo della Bullock, più immagini e piani sequenza da leccarsi le pupille. C’è di peggio.

12 anni schiavo, Steve McQueen

Il sospetto, Thomas Vinterberg
Se dipendesse da me, Mads Mikkelsen avrebbe già vinto cinque Oscar. Senza recitare. Solo per la faccia. Per il resto: il solito impeccabile dramma nordico e luterano di Vinterberg.

Film più deludenti (in ordine sparso)

Stoker, Park Chan-wook
Se aprite un vocabolario lo trovate alla voce “irritazione”.

Il grande Gatsby, Baz Luhrmann

Gangster Squad, Ruben Fleischer
Forse il più grande spreco di cast del decennio.

Only God forgives, Nicholas Winding Refn

Federico Bernocchi

Mai come quest’anno è stato difficile stare dietro alle uscite cinematografiche mondiali. Film presentati a Festival (a cui nessuno – scandalo! – mi invita) e poi scomparsi dai nostri radar. Film che escono nelle nostre sale, ma con un ritardo di due anni rispetto a quell’anteprima fatta in quel dato Festival (a cui nessuno – scandalo! – mi invita). Ancora: film che effettivamente arrivano nelle nostre sale, ma in versione doppiata da La Premiata Ditta e quindi francamente inguardabili. Infine, film che semplicemente non arrivano da nessuna parte e che quindi non riusciamo a vedere, se non affidandoci a quella cosa fuorilegge che prevede l’utilizzo di floppy disk e di un server russo che rimbalza poi il segnale sul nostro computer. Il risultato è che l’altro giorno m’è capitata sotto gli occhi la classifica dei migliori film del 2013, compilata da amici che hanno una trasmissione radiofonica che commenta solo quello che è uscito in sala da noi nell’anno in corso. E non mi ci ritrovavo per nulla. I Migliori Film del 2013 sono uno stato mentale. Sono qualcosa che dipende da che tipo di vita uno conduce o da come fruisce il Cinema. Questo per dire che la mia lista dei dieci film più interessanti dell’anno (di seguito secondo un ordine casuale) è sicuramente mancante di alcuni titoli che per qualcuno possono essere fondamentali, ma che per le ragioni sopra elencate non sono riuscito o non ho voluto a vedere. Ma non temete: ne parleremo mercoledì.

The Act of Killing – Joshua Oppenheimer
Ne abbiamo parlato diffusamente anche qui, proprio nella rubrica Nitrato d’Argento. Un documentario di una potenza sconvolgente, che riesce a fare luce su una parte di Storia contemporanea non particolarmente nota – le vicissitudini politiche indonesiane dalla metà degli anni Sessanta ad oggi – e allo stesso tempo a parlare del potere del Cinema e della memoria. Prodotto da due giganti come Werner Herzog e Errol Morris, The Act of Killing è un film indimenticabile che piega in due lo spettatore come un pugno dato a tradimento allo stomaco.

This Is The End – Evan Goldberg, Seth Rogen
Temi e figure del cinema comico contemporaneo americano. Tratto da un cortometraggio scritto e diretto da Jason Stone e dallo stesso Evan Goldberg, This Is The End segna l’esordio dietro la macchina del simpatico Seth Rogen. L’attore ne approfitta per giocare con l’intertestualità e per chiamare a sé tutti i suoi amici e attori per realizzare lo stoner film definitivo. A casa di James Franco c’è una festa incredibile ma sfortunatamente si scatena l’apocalisse. Quella vera. Quella col demonio che sorge dagli inferi per distruggere tutto e tutti. Tenteranno di non morire Rogen, Franco, Jay Baruchel, Danny McBride, Jonah Hill e Craig Robinson. Il rischio è l’autoreferzialità, ma raramente ho riso così di gusto.

The World’s End – Edgar Wright
Temi e Figure del cinema comico contemporaneo inglese. La conclusione della Trilogia del Cornetto, ovvero la rilettura sotto forma di commedia e parodia dei generi per mano di Nick Frost, Simon Pegg e Edgar Wright. Dopo l’horror e l’action – Shaun of the Dead e Hot Fuzz – è la volta della sci-fi. I punti di riferimento sono il Doctor Who, Douglas Adams e i vecchi film di fantascienza dei Sessanta. Ma c’è molto di più: c’è un cast stellare (Pegg, Frost, Eddie Marsan, Martin Freeman, Paddy Consdidine), una sceneggiatura esilarante, raffinata ed una messa in scena sicura ed esaltante. Oltre a tutto questo, c’è una toccante e amara riflessione sull’invecchiare. Difficile fare meglio.

Django Unchained – Quentin Tarantino
La normale prosecuzione del discorso portato avanti da Quentin con il suo precedente Inglorious Basterds e questostraordinario film che sembra uscito da molto più di un anno, e che invece era nelle nostre sale a gennaio del 2013. Lo sbandierato amore per lo Spaghetti Western è ovviamente solo uno specchietto per le allodole. In realtà, ancora una volta, Tarantino è in grado di rileggere, rielaborare e dare nuova forma e significato alla materia di cui sono fatti i nostri ricordi di celluloide, andando a creare nuovi miti e nuovi eroi. Un film godibilissimo, da guardare e riguardare in continuazione. Cast e colonna sonora, al solito, incredibili.

Frances Ha – Noah Baumbach
Ne abbiamo parlato da pochissimo sempre nella nostra rubrica. La summa del cinema di Baumbach che ha scoperto, forse proprio grazie alla sua storia d’amore con la protagonista del film Greta Gerwig la quadratura del cerchio. I difetti che appesantivano il suo cinema sembrano essere scomparsi e, pur partendo da un materiale rischiosissimo, si è riusciti a realizzare un film splendido, vitale e molto meno ottimista di quello che sembra. Ottima anche in questo caso la colonna sonora.

Insidious: Chapter 2 – James Wan
Il regista e sceneggiatore di Saw, iniziatore di quel genere ormai dimenticato che è il Torture Porn ha cambiato decisamente rotta. Dopo aver insistito inutilmente su luci strobo e effetti splatter scialbi e noiosi, ha deciso di diventare il re incontrastato di quello che possiamo chiamare “l’effetto bubusettete”. Si tratta della solita rilettura dell’horror goticheggiante con tanto pianoforti che si chiudono da soli e nebbia in grossa quantità. Lo stesso che ha già fatto nel primo Insidious e, sempre quest’anno, con l’ottimo The Conjuring. Ma, prima di tutto, il risultato è più che soddisfacente (leggi: fa paura) e a livello di sceneggiatura si va nella giusta direzione. Lo aspettiamo con il settimo Fast And Furious, sfortunatamente funestato dalla morte del povero Paul Walker.

Gravity – Alfonso Cuarón
Ci sono registi in grado di trovare una propria strada man mano che procedono nella loro carriera. Registi che abbozzano idee, cominciano a muoversi nella direzione giusta e che poi, dopo tanti anni, ritrovi in sala con un film che potrebbe essere il loro capolavoro. Alfonso Cuarón ha preso confidenza con Hollywood, ha capito come gestire al meglio la sua passione per la tecnica e gli effetti speciali. Il risultato è un film capace di parlare di temi universali, come la relazione tra l’Uomo e l’Universo, ma al tempo stesso di inchiodare lo spettatore alla poltrona per 90 minuti incredibilmente serrati.

Prisoners – Denis Villeneuve
Il regista canadese de La Donna che Canta, insieme allo sceneggiatore di Contraband Aaron Guzikowski, arriva a Hollywood per girare uno splendido thriller con un cast che mette insieme Paul Dano, Viola Davis, Hugh Jackman, Maria Bello, Terence Howard e un mai così bravo Jake Gyllenhaal. Da una parte c’è una detection che richiama le ossessione più pure del genere, come quella messa in scena da Fincher per il suo Zodiac, dall’altra un film di vendetta cupo e disperato. Messa in scena fredda e glaciale, a servizio di un film che si prende tutti i suoi tempi per spaventare e angosciare lo spettatore. Ottimo.

Pacific Rim – Guillermo del Toro
Chi ha passato l’infanzia a guardare cartoni animati in cui robot giganti annunciavano i colpi prima di sferrarli (ELBOW ROCKET!) per abbattere mostri orribili, non può non rimanere affascinato dall’ultima fatica del geniale Guillermo del Toro. Un film sicuramente imperfetto, ma che va difeso ad oltranza anche di fronte all’evidenza. Il regista si muove in direzione opposta rispetto a Michael Bay e realizza un film che riesce contemporaneamente a citare Lovercraft e a divertire come non mai. Maestoso, gigantesco, esaltante.

The Kings of Summer – Jordan Vogt-Roberts
Opera prima che racconta la fuga di tre adolescenti che decidono di vivere isolati in una casa da fiaba costruita nel cuore di una foresta, per scappare dalle loro insoddisfacenti vite. Un indie movie forse troppo estetizzante, ma che ha una forza e un’onestà tutt’altro che banale. E che soprattutto ci presenta uno dei personaggi più incredibili degli ultimi anni: lo stralunato Biaggio, interpretato da un folle che risponde al nome di Moises Arias.

Clara Miranda Sherffig

Per caso o forse per una tendenza che diverrà sempre più comune al cinema, quest’anno sono usciti diversi film che si interrogano sul ruolo narrativo del mezzo cinematografico. Lo fanno in modo tra loro molto diverso, ma in generale integrando il discorso finzione/realtà in modo funzionale alla trama e, sempre più spesso, per la gioia della spettatore (e non solo del critico ossessionato dalla teoria e dalle citazioni paracule). Ecco i film che hanno portato in sala questo bel gioco visivo. An episode in the life of an iron picker è il primo di questo breve compendio ed è stato diretto da Danis Tanovic (autore del mirabile No man’s land), che ha proposto una sorta di “staged documentary”, seguendo una strategia registica cara anche al portoghese Pedro Costa: quella di lavorare con attori non protagonisti, osservandoli nel loro “habitat naturali” e poi chiedendo di re-interpretare lapropria vita. Due le sole giornate messe in scena, eppure ci bastano per assistere alla tragedia etico-sociale di una famiglia rom che combatte contro i pregiudizi del sistema sanitario serbo e, ciononostante, si rifiuta di rinunciare ad un atteggiamento culturale che in Europa trova difficilissima integrazione. Premio speciale della giuria a Berlino, è uno dei film che meglio risolvono i problemi legati alla rappresentazione degli zingari in Europa. Se Tanovic ha creato un film che si interroga sul ruolo della realtà al cinema, una divertentissima commedia ha deciso di affrontare il discorso inverso.

Come si parla di cinema sul/nel cinema, facendo ridere (importantissimo)? This is the end l’avrete visto tutti ma è doveroso menzionarlo in questa categoria. Con un cast fantastico nel ruolo di se stesso (Franco, Rogan, Hill, McBride, Cera e altri), si scimmiottano i film apocalittici recenti e allo stesso tempo si riassume lo zeitgeist apparentemente demenziale ma essenzialmente iperconsapevole di questa generazione di attori/ sceneggiatori. Spero rimarrà negli annali e sì, spero un giorno di poter dire ai miei figli che This is the end è uno dei film da vedere per capire i tempi che furono.

Senz’altro però non la sparo grossa se propongo The act of killing come uno dei documentari migliori degli ultimi dieci anni. Anch’esso realizzato in stretta collaborazione con i suoi protagonisti, è la ri-rappresentazione dei massacri avvenuti in Indonesia nel 1965 per mano del “matterello” Anwar Congo e dei suoi scagnozzi. La crew di assassini – personaggi impressionanti, primo fra tutti Anwar che, duole dirlo, ha un umorismo degno dei migliori Monty Python – si interrogano sui misfatti commessi, mentre trattano malissimo tutti, sia per davvero, che per finta, davanti a scenografie bizzarre e addobbati con costumi al limite dell’offensivo. Documentario grandioso sulla storia (intesa sia come Storia, sia come l’atto del narrare), The act of killing fa emergere una quantità tale di strati e livelli – etici,cinematografici, storici, antropologici e oh… molti altri – che diventa un film da visione obbligatoria! Per rimanere in ambito storico, quest’anno un altro documentario mi ha fatto girare la testa. È un lavoro più specifico, più marginale, ma non per questo meno ambizioso: Majub’s Journey è un film semplicemente perfetto. L’autrice Eva Knopf ha ricostruito la vita di una comparsa africana nei film di propaganda nazista, un uomo che dalla Tanzania è arrivato a Berlino ed è riuscito a integrarsi facendo leva sulla propria identità, all’epoca esoticissima. Per metà immagini d’archivio, per metà riprese di oggetti che simboleggiano la vicenda umana e politica del personaggio, il risultato finale è sì, un documentario sul post-colonialismo ma anche e soprattutto sul ruolo di coloro che, al cinema come nella Storia, stanno all’ombra dei “grandi” eppure ne sono a volte protagonisti. Per finire, un film scoperto al festival del cinema di Venezia che utilizza il problema del bullismo per esplorare i limiti del trinomio finzione/realtà cinematografica/realtà. InThe reunion la regista svedese Anna Odell non viene invitata ad una rimpatriata di classe e immagina come sarebbe stato parteciparvi. Volano parole pesanti e tutti quelli che non sopportano i prepotenti godranno moltissimo. Ma non è finita: la seconda parte, la più strabiliante, mostra il making-of di un documentario mai realizzato proprio sulla rimpatriata mancata: è possibile imparare a digerire un passato difficile, semplicemente immaginando una storia diversa? Sono più vere le storie che sono accadute realmente o quelle che abbiamo immaginato? Al cinema l’ardua risposta.

Mariarosa Mancuso

Django Unchained di Quentin Tarantino

Holy Motors di Leos Carax

Venere in pelliccia di Roman Polanski

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche

Gravity di Alfonso Cuaron

Marta Casadei

Hitchcock di Sacha Gervasi
Perché tutti (o quasi) hanno visto Psycho ma pochi ne conoscono i dietro le quinte. Perché tutti conoscono Alfred Hichcock, ma pochi sanno che dietro la sua fortuna, il suo successo c’era una donna di nome Alma. E poi perché entrambi gli attori protagonisti – Anthony Hopkins ed Helen Mirren – recitano in modo magistrale.

No – i giorni dell’arcobaleno di Pablo Larrain
Affronta uno dei nodi chiave della storia cilena, il referendum popolare che mise fine alla dittatura di Pinochet nel 1988, e lo fa in modo deciso, intenso. E ci ricorda che le battaglie che contano possono essere vinte.

Philomena di Stephen Friars
Sconvolge, commuove, fa sorridere, fa riflettere. Il film di Friars porta sul grande schermo una storia vera, molti dubbi che riguardano la religione, l’Irlanda e gli Stati Uniti, l’amore per un figlio e quello per la propria professione, la paura e i sensi di colpa. E Judi Dench è parte integrante della riuscita del film.

Giovane e bella di François Ozon
Il regista affronta un tema attuale – quello delle baby prostitute – ma anche un argomento senza tempo, quello della crescita e della maturazione. Lo fa con attenzione, scavando a fondo nella psicologia dei personaggi e nelle dinamiche delle relazioni. I brani della colonna sonora firmati da Francoise Hardy fanno il resto.

Fabio Severo

Tra le scelte grigie e timorose della distribuzione, le sale vecchiotte oppure quelle lucide e piene di pop corn dei multiplex e la piaga del doppiaggio (e dei titoli italiani: vincitore di quest’anno senza dubbio Spring Breakers, che in Italia è sbarcato con il sottotitolo Una vacanza da sballo), andare al cinema è un’esperienza che in questo paese ha perso ormai quasi ogni sapore. In altre nazioni invece prosperano ancora sale ben curate e indirizzate a persone normali, dove è possibile vedere film di qualità in locali piacevoli, belle poltrone, ottimo audio e video, né Warner Village né cinemino triste, bei posti dove si promuove ancora la nobile (e relativamente obsoleta) arte dell’andare al cinema. Qui ci si va più o meno per passare il tempo.

Per queste e altre ragioni i film sono diventati quelle cose che sono un po’ più lunghe di un episodio di una serie televisiva e che spesso finiamo col vedere nello stesso identico modo: su uno schermo di computer. Eppure il cinema ha ancora bisogno della grandezza della proiezione, del buio, del suono avvolgente, anche se poi la realtà è che la maggior parte dei film si possono tranquillamente vedere (e liquidare) su un computer. Quest’anno non ne ho visti molti ma ho cercato di vedere tutti quelli che mi sembrava lo meritassero, anche se poi ho dedicato molto (troppo) tempo alla visione dell’ultima stagione di Homeland o di Breaking Bad oppure a una full immersion, del tutto fuori tempo e non necessaria, dell’integrale (otto stagioni) di Entourage. La mia attenzione per il cinema purtroppo non è stata sicuramente adeguata, ma sono sicuro di aver visto i tre film dell’anno, più qualche comprimario su cui possiamo discutere.

– Il podio

The Act of Killing (link consigliato dall’autore)
L’unico film che all’uscita non ha prodotto crocchi imbarazzati di amici che fumano sigarette, presi in dibattiti stentati. Con lo sguardo vagamente allucinato si chiacchiera per capire bene cosa si è appena visto, faticando a credere che sia tutto vero. Senza una sola scena di violenza materiale lascia una sensazione di crudeltà e di profonda umanità mai viste così legate tra loro, un film così importante che a Roma l’hanno distribuito in un solo cinema, con una sola proiezione al giorno, per un mese o poco più.

Upstream Color (link consigliato dall’autore)
Shane Carruth ha realizzato due film in carriera, con un intervallo di nove anni tra l’uno e l’altro. Non è chiaro cos’abbia fatto nel frattempo oltre a sprecare la sua vita (parole sue) cercando di realizzarne un altro. Dirige, recita, fa l’operatore, il distributore, il produttore e scrive anche le colonne sonore delle sue opere. Schiva chiamate degli studios per fare indie più appetibili, non ha famiglia, non è neanche chiaro dove viva di preciso. Ricetta ideale per un culto di nicchia, ma non è per questo che merita elogi: Usptream Color è incomprensibile quanto emozionante, una carrellata di misteriose visioni come persone rapite a cui vengono impiantate larve, poi ci sono maiali, flussi di materia colorata, orchidee e sguardi tra amanti come solo il migliore Terrence Malick prima di finire ingabbiato nella sua recente spiritualità estetizzante, forse frutto della troppa frequenza con cui sta girando film. In quest’intervista per Grantland Carruth parla di un nuovo film che avrebbe dovuto girare ad agosto, dal bellissimo titolo The Modern Ocean. Su IMDB alla fine dell’anno non c’è ancora traccia della lavorazione, speriamo che non passino altri nove anni.

L’inconnu du Lac (link consigliato dall’autore)
La claustrofobia espressa dal sole dei pomeriggi estivi e dallo specchio d’acqua di un lago, al riparo da sguardi indiscreti. Alain Guiraudie ha creato una sorta di thriller all’incontrario, dove la lentezza prende il posto dei colpi di scena, le immagini riposano sullo schermo invece di inseguirsi e dissolve il tabu visivo dell’amore omosessuale maschile con una semplicità impressionante. Una lunga sequenza di fotografie in movimento, dove lo spazio è protagonista forse più degli attori stessi, insiema alla luce, al vento e al buio.

– Piazzamenti di rilievo (per merito o meno)

Blue Jasmine
A tutti piace vedere un incipit di un film di Woody Allen, il jazz d’epoca, i nomi degli attori tutti insieme su quelle didascalie da film anni ’20, la semplicità delle inquadrature, il cast sempre eccellente. Periodicamente si saluta la sua nuova opera come una rinascita, un ritorno ai fasti creativi di un tempo, e lo si è fatto anche con questa ascesa e caduta di una donna presa tra speculazioni finanziarie e bugie. Ben svolto e ben recitato, ma se ne sarebbe parlato così tanto fosse stato il film di uno sconosciuto qualsiasi?

Frances Ha
Carino al punto da incarnare la definizione di carino cinematografico, indie cool tanto da non far sentire la mancanza di Wes Anderson (lui e il regista Baumbach escono quasi a anni alterni), con una virata verso la Nouvelle Vague piuttosto che la decorazione d’interni, le simmetrie e i ralenti Tenembaumiani: l’unico dubbio che mi è rimasto è per quanto tempo potrò continuare a interessarmi a un film che teneramente racconta le tribolazioni dei ventenni newyorchesi, con un realismo tanto accurato nei dettagli quanto assente nella parabola risolutoria e quasi natalizia.

Gravity
Ok è fatto benissimo, si volteggia nel vuoto e a volte manca il respiro, sembra minimal e kolossal insieme perché ha solo due attori e si svolge nello spazio profondo. Ma vederci il massimo che la grande produzione americana può offrire è accontentarsi: bello mentre lo si vede, probabilmente superfluo a una seconda visione.

La Grande Bellezza
Parlando con un amico che lavora in produzioni cinematografiche gli chiedevo ragione della Roma sorrentiniana e delle sue luci false e dei suoi scorci preconfezionati. «È un film pensato per l’estero, altrimenti non c’è ragione di farlo così», mi ha detto. Aveva ragione.

– Film di successo di cui non parlerà più nessuno dopo quest’anno

Sacro GRA
Bello e brutto, ambizioso e conservativo, premiato molto in fretta.

– Film che non ho visto e che probabilmente non vedrò mai

La Vie d’Adèle
Tanto poi chi l’ha visto parla solo delle scene di sesso.

 

Nella foto, un drive-in a Copenhagen, nel 1961. Keyston/Getty Images

Il logo della videocamera è di Erick De La Rosa via The Noun Project