Attualità

I borghesi di Istanbul

Sempre più lontana dall'Europa, sempre più dinamica e rampante. Capire la virata islamica della Turchia a partire dall'ascesa di una nuova classe benestante.

di Anna Mazzone

ISTANBUL – «Se guardi il Bosforo capisci la Turchia». Si sentono spesso queste parole quando si sbarca per la prima volta nel Paese-porta d’Oriente e, tornandoci, si scopre man mano quanto siano vere. Istanbul è il Bosforo, con le acque di tre mari diversi che si abbracciano in una quieta e apparente convivenza, i vaporetti carichi di turisti e pendolari che, instancabili, viaggiano ogni giorno dalla costa asiatica a quella europea e il ponte che unisce le due anime della città che, come una scatola cinese, ne racchiude a sua volta mille altre. Istanbul specchio della Turchia che cambia ed è già cambiata. Specchio della Turchia che corre in avanti, a volte senza nemmeno guardare dove sta andando, ma si muove velocemente.

Dinamica, colorata, festante. Il Paese della Mezzaluna è in costante trasformazione e le strade principali della città sul Bosforo testimoniano una felicità rampante. Basta fare una passeggiata tra la marea umana che affolla la Istiklal Caddesı, la lunghissima arteria del quartiere europeo di Beyoglu che, dalla piazza delle manifestazioni comuniste un tempo vietate (Taksim), porta fino alla Torre di Galata.
In ogni ora del giorno e della notte la Istiklal è piena zeppa di giovani che hanno un unico obiettivo: divertirsi. Sono lontani i tempi degli stenti e delle limitazioni. Oggi la Turchia è una delle economie più forti del Vecchio Continente, la sesta per essere precisi, e ha ridotto il suo debito dal 74% al 39% in poco meno di cinque anni, tanto che il suo governo sta cercando di adottare piani che deprimano la corsa, per paura di un’inflazione stellare che si potrebbe rivelare fatale. Tra dieci anni, secondo le previsioni, il Pil turco dovrebbe doppiare quello tedesco.
In poche parole: neo ottomanesimo. Sembra proprio che questo termine dal sapore antico, coniato dagli studiosi americani e sognato dall’attuale ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu, tra le strade di Istanbul sia oggi più che mai palpabile. Si può vedere, toccare, nell’incredibile ottimismo dei ragazzi che guardano verso il futuro e che cercano di disegnare la linea di un orizzonte che pian piano sta voltando le spalle all’Europa per guardare verso Oriente.
Negli ultimi anni il numero delle donne velate a Istanbul è cresciuto in maniera esponenziale. Proprio qui, nella città più occidentale di tutta la Turchia, dove i gusti e le architetture dei palazzi ricordano i vicoli di Parigi, tante donne scelgono ogni giorno di coprirsi il capo. Sono veli di ogni genere: neri e scuri, da conservatori, oppure in tinta pastello o impreziositi da ricami fiorati. Una moda? Anche, ma sicuramente c’è qualcosa di più; il velo identifica, crea un’appartenenza che non è solo religiosa.

Musulmane e Borghesi. La maggior parte delle “nuove” donne di Istanbul possono essere classificate con questi due aggettivi. Signore dal capo coperto e ingioiellate, occhiali griffati che coprono l’unica parte del viso lasciata alla luce del sole.

«Un tempo non si vedevano così tante donne coperte», racconta Eti Motola, una truccatrice per il cinema e la televisione, «Oggi, invece, sono tantissime e hanno molti soldi. Vengono da me per prendere lezioni su come truccarsi ed essere più belle, insomma, non rinunciano alla loro femminilità». Musulmane e borghesi. La maggior parte delle “nuove” donne di  Istanbul possono essere classificate con questi due aggettivi.
Molte di loro hanno avuto la possibilità di frequentare le università che fino agli anni ’90 erano esclusivo appannaggio dei figli (e delle figlie) dei burocrati e dei militari. In parole povere, della classe borghese laica che reggeva la Turchia. Ma poi, quegli atenei si sono aperti anche alle fasce considerate socialmente più basse, che hanno avuto la possibilità di gettare uno sguardo al di là del muro. Così, mentre in passato frotte di donne partivano da Fatih, il quartiere musulmano e conservatore sul Corno d’Oro, per andare a Nişantaşı e a Beşiktaş, i quartieri dei ricchi, magari a prestare servizio presso famiglie laiche e abbienti, oggi percorrono la stessa strada per affollare i negozi dei centri commerciali più in della megalopoli sul Bosforo, dove si affrettano a comprare gioielli e biancheria intima audace, da vestire sotto i loro veli. Signore dal capo coperto e con le dita vistosamente ingioiellate di brillanti e perle. Occhiali all’ultima moda griffati Christian Dior che coprono l’unica parte del viso lasciata alla luce del sole. È questa l’immagine della nuova borghesia turca, che ha acquistato forza e visibilità sin dal 2002; anno in cui è salito al potere l’attuale premier Recep Tayyip Erdogan, leader del partito “Giustizia e Sviluppo” (AKP), che si auto-definisce islamico e moderato che per la terza volta ha vinto le elezioni nel 2011.

Erdogan, “islamico illuminato”?
Erdogan viene percepito come un “leader illuminato”, perché musulmano e non solo. Di religioso il premier ha ben poco, tranne la visibilissima moglie velata, Emine, perennemente al suo fianco, ma dal 2002 in poi, da quando cioè sulla scia del suo successo come sindaco di Istanbul fondò un nuovo partito, ha dato voce agli abitanti dei gecekondu, i quartieri ghetto dove la gente si è ammassata sin dai primi anni ’60, quando ha avuto inizio l’urbanizzazione della città sul Bosforo. Gente che proveniva dai più lontani villaggi del Sud-Est della Turchia, con la speranza di trovare un lavoro e di poter avere una vita migliore. Reietti per moltissimi anni, che non hanno avuto la possibilità di emigrare e si sono trovati costretti a vivere ai margini della società o poco più dentro. Oggi sono cresciuti, hanno studiato e hanno anche trovato un loro leader, con il quale è stato facile far fruttare il loro talento, in qualsiasi campo. E, si sa, i turchi sono dei gran lavoratori. Un cocktail, questo, che ha ridisegnato i contorni stessi della borghesia della Mezzaluna, velandole il capo e rendendo facoltosi proprio quelli che affondano le loro radici nei gecekondu. E i turchi la storia la conoscono bene e, soprattutto, non la dimenticano.
Sono loro la gente che viene dai gecekondu, quelli che rispettano le festività religiose, che sono ossequiosi durante il ramadan e preferiscono non affollare i locali notturni che durante il mese di digiuno musulmano sono vuoti come non mai. «Un tempo non era così a Istanbul», ci racconta John, un americano che qui insegna l’inglese. «Anche durante il Ramadan si poteva tranquillamente uscire e andare a ballare o a bere qualcosa, ma ultimamente molti locali, i migliori, chiudono perché non hanno clienti e la vita si ferma per un po’».
E che locali! Istanbul non ha nulla da invidiare a Londra o New York. La notte sul Bosforo è sfavillante e gli eccessi possono essere tranquillamente vissuti. Ma non è tutto oro quello che luccica. Non dimentichiamoci il Bosforo e le sue acque che si abbracciano, ma solo in superficie. Sotto, sui fondali, le correnti sono molto forti e raccontano una storia diversa, fatta di contraddizioni che si affastellano fino a raggiungere punti di rottura. «Viviamo in uno Stato che non esito a definire post-fascista», dice Bülent Gultekin, oggi docente di Economia e Finanze alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania ed ex governatore della Banca Centrale di Turchia, oltre che ex consulente in capo per le riforme attuate dal predecessore di Erdogan, Mesut Yılmaz, messo sotto processo per corruzione e poi assolto dalla Corte Suprema nel 2006.
Bülent Gultekin è un laico e un riformatore, oltre che un uomo che nutre un profondo rispetto per le istituzioni, almeno quanto conserva un profondo amore per il suo Paese pur vivendo dall’altra parte dell’oceano. «Anche sul modo in cui sono stati trattati i militari, pur non avendo io in simpatia la classe dei militari, ci sarebbe molto da dire». Sua moglie, Zeynep, è figlia di un ufficiale dell’esercito turco; di religione cattolica, è cresciuta nei salotti buoni europei e rappresenta la parte migliore di una borghesia che adesso in Turchia sembra essere caduta in disgrazia: «I musulmani non conoscono il senso della solidarietà e della carità – dice – ma conoscono solo il significato dei soldi».

«Il testimone è passato dalla borghesia laica a quella islamica, ma il Paese non è certo meno corrotto di prima, solo che adesso sono i musulmani a mandare avanti il business, sostenuti da questo governo».

Un tempo la classe corrotta era quella dei militari, che dopo troppi anni al potere hanno dimenticato i loro valori originari, adesso i corrotti sono musulmani. Il testimone è passato dalla borghesia laica a quella islamica, ma il risultato è sempre lo stesso: il Paese non è certo meno corrotto di prima, solo che adesso sono i musulmani a mandare avanti il business, sostenuti da questo governo». Un’analisi stringente e impietosa, che però non si rivela lontana dalla verità.
Negli scorsi anni il cuore di Istanbul è stato preso d’assalto da migliaia di persone che hanno manifestato contro le misure repressive attuate da questo governo. Troppe cose non sono chiare e, come se non bastasse, la politica censoria di Erdogan continua a colpire indiscriminatamente internet. Per più di un anno è stato oscurato YouTube, perché potevano essere scaricati video offensivi nei confronti del Corano e della religione musulmana. Poi è stata la volta dei siti gay, tuttora al buio anche a Istanbul, città notoriamente aperta ai vari generi e dove i transessuali trovano rifugio dalle aree più lontane e povere del Paese, dove vengono sbeffeggiati, se gli dice bene, o subiscono vili aggressioni fisiche. Tutti in piazza, dunque, per protestare contro il governo che, quando si tratta di proteggersi, non usa certo il guanto di velluto.

Esercito, curdi, armeni
Proteggersi da cosa? Da un possibile nuovo golpe ordito dai militari, che getterebbe il Paese nel caos, questo è sicuro, e stroncherebbe sul nascere qualsiasi sogno di Erdogan, come quello di diventare presto presidente della Repubblica.
Balyoz, in turco significa “mazza” o “martello”. È il nome di una presunta operazione militare volta a destabilizzare il Paese attraverso una serie di attentati a moschee e aeroporti e disegnata dai vertici dell’esercito turco, che ambiscono a riprendersi il potere perduto e a eliminare Erdogan e il suo partito islamico dalla scena politica della Mezzaluna. Detta così fa rabbrividire e il ricordo va a tempi recenti, all’ultimo golpe militare nel 1980, che fu il più sanguinario e cruento. I prigionieri politici furono migliaia. Giornalisti, intellettuali del partito comunista, artisti; furono arrestati in massa e torturati per estorcere delle confessioni. Adesso molti di loro sono tornati a una vita normale, ma le ferite di quelle torture, racconta Ruşan Çakır – giornalista per la televisione NTV ed esperto di “questione curda” – non si sono rimarginate e fanno ancora male.

I militari non sono ben visti e per questo in molti, pur essendo fieri oppositori dell’AKP di Erdogan, gli hanno permesso di arrestare nel 2010 novanta ufficiali con l’accusa di “tentato colpo di Stato”

«Lo scontro qui non è tra democratici e autoritari, ma tra laici e non laici», dice, mentre si tocca il petto dove porta le ferite fisiche delle torture del golpe degli anni ’80, quando era un giovane attivista e come tanti altri fu incarcerato su decisione di una corte marziale.
Insomma, i militari a Istanbul non sono ben visti e per questo in molti, pur essendo fieri oppositori dell’AKP di Erdogan, gli hanno permesso di arrestare nel 2010 novanta alti ufficiali, con l’accusa di “tentato colpo di Stato”. Peccato che quel golpe se c’è stato è stato realizzato solo oniricamente dai militari, ma non esiste nessun riscontro concreto alle accuse che sono state scagliate dal premier e che hanno portato in carcere quasi un centinaio di ufficiali. Tutto è partito dalle pubblicazioni di Taraf, un giornale ultraconservatore probabilmente sostenuto economicamente da Fethullah Gülen, un predicatore che ora vive negli Stati Uniti, ma che non si sottrae a raccogliere fondi per accrescere il peso politico della comunità islamica in Turchia. La documentazione pubblicata da Taraf è “bastata” per mettere sotto processo i vertici militari del Paese, ma di prove, al momento, non ne è saltata fuori nemmeno una e c’è chi dubita persino dell’autenticità dei fogli pubblicati dal quotidiano.
I fondali del Bosforo, dicevamo, e le sue correnti che si intrecciano e si scontrano, rendendo molto difficile comprendere dove si trovi la verità. Sul “piatto” turco le questioni aperte e le ferite che fanno ancora male non si fermano qui.
Basti pensare alla questione curda o a quella armena, tuttora rimaste irrisolte. Dal 1993 il Paese ha chiuso le frontiere con l’Armenia, in segno di “fratellanza” con il governo del musulmano Ilham Aliyev in Azerbaijan. Nel 2007, il giornalista armeno Hrant Dink è stato freddato da un colpo di pistola all’uscita della redazione del giornale in lingua armena da lui fondato e diretto, in pieno centro a Istanbul, proprio davanti alla sede del partito repubblicano (CHP), al potere fino all’avvento di Erdogan. Il ragazzo che l’ha ucciso sembra sia stato appoggiato dall’intelligence turca – non si sa quanto deviata – e tuttora regna il mistero sulla dinamica di un omicidio che ha profondamente scosso l’opinione pubblica turca. Durante i funerali di Hrant Dink, migliaia di persone piansero la sua morte. Per non parlare dei curdi che, nonostante il loro leader storico Öcalan sia tuttora in carcere, non accennano a voler camminare lungo la strada del dialogo e si “esercitano” in continui attentati a mezzo bomba per mantenere alto il livello della tensione e far comprendere al governo che loro ci sono e non si danno per vinti, e continueranno a combattere finché non vedranno riconosciuti i loro diritti civili.

Con la rivalsa della gente dei gecekondu, i quartieri ghetto, nei confronti della borghesia laica decaduta, Istanbul è la fotografia di un potere che sta cambiando il volto della Turchia.

Correnti che si scontrano, la rivalsa della gente dei gecekondu contro la borghesia laica che sta decadendo. Istanbul come fotografia di un potere che sta cambiando il volto della Turchia e che la sta portando lontana dall’Europa, avvicinandola agli altri Paesi dell’area, dalla Siria all’Iran.
È qui che il sogno del capo della Diplomazia turca, Ahmet Davutoglu, può diventare realtà oppure infrangersi definitivamente.
Nella sua visione “neo-ottomana” l’ex professore di Relazioni internazionali all’università del Bosforo ed ex ambasciatore a Washington, islamico convinto e uomo tutto d’un pezzo, aveva contemplato la possibilità di smetterla di bussare alle porte di un’Europa che sembra non avere alcuna intenzione di far entrare la Turchia nel suo club, e di guardare, invece, verso Oriente. «Zero problemi con i vicini». È questo il motto del ministro degli Esteri di Ankara che però, almeno al momento, non sembra essere riuscito a dare una forma concreta alle sue visioni.

L’unico effetto della nuova politica estera della Mezzaluna è stato il rapido congelamento dei rapporti con l’“amico” Israele, in seguito all’episodio della Mavi Marmara, la nave della Freedom Flotilla assaltata nel 2010 dagli israeliani mentre si avvicinava a Gaza e in cui morirono 8 cittadini turchi. Da allora i rapporti tra Ankara e Gerusalemme, prima straordinariamente vitali e amichevoli, sono diventati un rovo di spine e più volte la Turchia ha voluto mostrare i muscoli.

L’Europa è sempre più lontana.
Ma, se da una parte del Bosforo c’è l’Asia, dall’altra c’è l’Europa, che troppo spesso si è rivelata una madre-matrigna. Stanchi di aspettare fuori dalla porta e di vedere passare davanti altri Paesi, come la Bulgaria e la Romania, i turchi di oggi stanno progressivamente abbandonando l’idea dell’Europa come mito. In sostanza, perché entrare in un club che non ti vuole e non riconosce i tuoi valori o, molto più semplicemente, non li apprezza?

«Agli europei non piace la nostra cultura, e allora perché dovremmo volere diventare europei? Alla fine siamo turchi e turchi restiamo»

«Entrare in Europa sarebbe una bella cosa», dice Ayşe, una giovane studentessa di Scienze Politiche alla Bilgi University, anche detta la “Harvard del Bosforo”, «Ma – continua – Bruxelles sembra disprezzarci. Agli europei non piace la nostra cultura, e allora perché dovremmo volere diventare europei?». Anche perché poi, in fondo, Ayşe conferma che «alla fine turchi siamo e turchi restiamo e se non andiamo bene a loro non vuol dire che non abbiamo un valore». Non fa una piega. Ed ecco che lo sguardo vola verso Oriente, dove ci sono molte donne velate e dove i ricchi sono islamici, proprio come adesso lo sono qui, in Turchia.
A chi preconizza una rivoluzione in salsa iraniana anche in quei di Ankara è meglio dire subito che questa possibilità sul Bosforo non c’è. Innanzitutto perché la Turchia oggi non è l’Iran del 1979; e in secondo luogo perché qualsiasi destabilizzazione comprometterebbe l’incredibile boom economico che sta vivendo il Paese e che sta cambiando il volto della sua nuova borghesia. E questo non lo vuole nessuno, né ai livelli alti né a quelli bassi.
Il rischio grosso è che, invece, non mettendo mano alle piaghe interne con i curdi e con gli armeni, queste suppurino fino a spaccare la società nella direzione opposta a una pacifica integrazione e convivenza, che poi è la vera ricchezza della Mezzaluna. Quanto potrà ancora reggere la Turchia ad essere tenuta costantemente sotto scacco dalle minacce di attentati e ritorsioni anti-governativi? Il Sud-Est del Paese è nelle mani di una maggioranza curda che si esprime attraverso un suo partito, costretto a cambiare spesso nome perché viene messo costantemente fuorilegge. Questo quadro mal si associa con la stabilità e la serenità che il premier vuole trasmettere agli investitori esteri, soprattutto in previsione della realizzazione di colossali progetti che porteranno molti dollari nella casse turche, non da ultimo il mega gasdotto South Stream, realizzato in pool con Italia e Russia. Insomma, la Turchia, velata o meno, non può permettersi di essere instabile e ora più che mai dovrebbe sedersi a un tavolo e risolvere le questioni insolute, attraverso la negoziazione e non con gli arresti brutali e improvvisi, attraverso il dialogo e non con la censura sul web.

 

Fotografie di Marco Rizzi

Articolo tratto dal numero 3 di Studio

 

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