Attualità

Hôtel Lambert

È andato a fuoco l'ultimo pezzo di Parigi acquistato dai soliti sceicchi. Ecco la sua storia, dai Rothschild alle cene con Salvador Dalì e il Re di Danimarca.

di Michele Masneri

Sarebbe una storia molto italiana da Fenice di Venezia, ricorsi tardivi al Tar e incurie artistiche e not in my backyard, se non fosse invece francese e un po’ saudita: l’Hôtel Lambert, andato a fuoco ieri sull’Île Saint Louis a Parigi nel mezzo di una annosa polemica circa restauri arabi poco rispettosi. Il più bel palazzo privato di Parigi, progettato da Louis Le Vau, già archistar di Versailles, poi appartenuto ai principi polacchi Czartoryski, poi soprattutto a casa Rothschild dagli anni Settanta, infine acquistato nel 2007 dal fratello del solito emiro del Qatar: e gli emiri sono stati molto criticati per ristrutturazioni poco sobrie dell’edificio costruito nella metà del Seicento per il segretario di Luigi XIII, Jean Baptiste Lambert, con stop ai lavori e commissioni “Paris Historique” a bloccare tutto e poi, recentemente, riprese dei lavori meno invasivi. E infine – a lavori non finiti – l’incendio di ieri.

Era piaciuta pochissimo in particolare la trasformazione in “villa da James Bond” secondo lo storico dell’architettura Jean-François Cabestan, e con indignazioni sui progetti di parcheggi sotterranei, ascensori per automobili, rialzi dei muretti originali secenteschi; e raccolte di firme e fremiti di società civile, tra cui l’attrice Michèle Morgan, inquilina per vent’anni del palazzo, secondo cui i ricchi «se vogliono certi standard devono andare a stare fuori Parigi».

Fuori Parigi stavano anche i Rothschild, nel loro castello con treno incorporato (per portare i piatti dalle cucine alle camere da pranzo) di Ferrières, ma vennero a vivere in centro negli anni Settanta convinti da un interior decorator d’eccezione, che oggi starebbe forse dalla parte dell’emiro. Si chiamava Alexis von Rosenberg de Rede ed è stato una figura importante di quella società di aristo-marchette globali del secondo dopoguerra, che incrociava nobili, reali con e senza trono, scrittori americani e francesi e patronesse post-proustiane; società poi immortalata e sfruttata e citata da Gore Vidal, Christopher Isherwood, Capote, Cocteau e Cecil Beaton (che di Rede fece un famoso ritratto).

Figlio di un barone ebreo ancor più nuovo dei Rothschild, che si sparò al tracollo del suo impero bancario, Rede (1922-2004) si trovò adolescente con una sorella handicappata e con usi di mondo superiori alla sua liquidità. Emigrò in America e a Los Angeles, garzone di un antiquario, incontrò fatalmente Arturo José López Willshaw: il re internazionale dei concimi chimici grazie a vasti appezzamenti sudamericani di escrementi aviari, molto gay nonostante le nozze con una cugina, e secondo la definizione d’epoca di Roger Peyrefitte, «piccolo cileno un tantino pretenzioso, re del guano, amante del fasto»; «massimo fornitore di guano del nostro pianeta, cioè di merda d’uccello fossilizzata» secondo la definizione invece di Truman Capote in Preghiere Esaudite, dove Willshaw è anche sponsor di un’altra marchetta globale come Denham Fouts, poi entrata nelle vite e nelle opere anche di Vidal, Isherwood e Beaton (e morto povero a Roma in una Pensione Foggetti).

Sempre secondo Peyrefitte, Willshaw «se buttava il denaro dalla finestra, sceglieva bene la sua finestra»; e le finestre furono soprattutto quelle dell’Hôtel Lambert, che Rede una volta rotto – temporaneamente – con Willshaw e liquidato con la somma autorevole di 1 milione di dollari del 1949, mise a posto benissimo trasformandolo con fasti non minimalisti da Behind The Candelabra; e un candelabro Luigi XV in bronzo dorato e cristallo a 32 candele è stato poi il pezzo forte dell’asta Sotheby’s dedicata agli arredi baronali del 2004, subito dopo la morte.

Rede convinse i Rothschild a comprarsi l’intero palazzo, tenendo per sé un piano terra dove viveva in regime non spartano: secondo Nancy Mitford era infatti “la Pompadour del nostro tempo”; fece soprattutto balli in maschera poi rimasti storici: il Bal des têtes del 1956, con maschere disegnate da uno sconosciuto Yves Saint Laurent che lì fece il suo ingresso in società, e il Bal Oriental del 1969, con Brigitte Bardot, il re e la regina di Danimarca, e Salvador Dalì (protagonista invece del grande Bal Surréaliste del 1972 che per motivi di spazio i Rothschild tennero a Ferrières, con invito al contrario con nuvole magrittiane, e giochi di luci a simulare un incendio, come oggi all’Hôtel Lambert, però lì finto).

In quelle occasioni Rede si abbigliava volentieri da principe cataro o da Ludwig di Baviera, ma a differenza del sovrano immobiliarista e di Truman Capote con il suo ballo in bianco e nero (1966) non dissipò una fortuna e anzi si amministrò molto bene; alla morte di Willshaw, che con grande correttezza divise equamente il suo patrimonio tra Rede e la moglie, il barone arredatore comprò una banca d’affari e poi insieme all’amico Rupert zu Lowenstein – sedicente discendente di Ludwig – si mise a gestire in maniera impeccabile le finanze dei Rolling Stones (in Inghilterra è da poco uscita l’autobiografia A Prince Among Stones: That Business with The Rolling Stones and Other Adventures). Rede morì nel 2004 non in tempo per vedere il suo palazzo acquistato dagli emiri, che forse non avrebbe vituperato; giusto in tempo invece per essere nominato da Chirac Commendatore delle Arti e delle Lettere nel 2003, proprio per i restauri imaginifici del palazzo.

 

 

Nell’immagine, l’attrice Jacqueline Delubac travestita da quadro di Magritte a una festa