Attualità

Hitch in Washington

Quel giorno in cui siamo andati, telecamera alla mano, a intervistare Christopher Hitchens a casa sua

di Stefano Pistolini

La vicenda all’origine di questa intervista e di questo film vale la pena d’essere raccontata, perché appartiene già a un passato che, se non è troppo distante dal punto di vista temporale (sono trascorsi meno di 7 anni), descrive però una realtà americana seccamente superata dagli eventi e anche un modo di studiarla che alcuni successivi sviluppi hanno indubbiamente destabilizzato (l’affiorare delle cronache e del dibattito politico sui social network, ad esempio). Al tempo stesso, soprattutto grazie alla performance intellettuale del suo protagonista, la nostra conversazione col caro Christopher Hitchens (passato a miglior vita il 15 dicembre 2011) contiene un impressionante dato di contemporaneità: quasi tutti i suoi ragionamenti e le analisi che ci sottopone, mantengono intatto il quoziente di veridicità, mentre le interpretazioni, le connessioni, perfino le profezie che pronuncia risultano magnificamente riuscite, come solo una visione lucida, acuta e lungimirante degli scenari sociopolitici americani e internazionali poteva permettere di presentare.

Dunque un passo indietro: novembre 2005. In Italia c’è il terzo governo Berlusconi, con la squadra Tremonti-Fini che viaggia a regime pieno e lo stesso Fini addetto alle relazioni internazionali. Da un anno esatto George W. Bush s’è aggiudicato il secondo mandato alla Casa Bianca, battendo senza troppe difficoltà un avversario inadeguato come John Kerry, nel pieno dello sforzo della cosiddetta “esportazione della democrazia” verso il labirinto mediorientale, guidato da un team le cui stelle sono Condoleezza Rice e Donald Rumsfeld. Nel paese è vivissimo lo choc per il devastante uragano Katrina, che in agosto ha colpito la regione affacciata sul Golfo del Messico e ha sommerso New Orleans. Nell’occasione, la prestazione della Casa Bianca è stata ampiamente sotto il par e gli scricchiolii che circondano la sua credibilità si fanno assai rumorosi. Eppure l’America, dopo gli happy times clintoniani e il brusco risveglio dell’11 settembre persevera nel sostenere questa gestione. La definizione “neoconservatore” è ancora lontana dal rivestirsi del senso dispregiativo e della negatività che un paio d’anni più tardi saranno alla base della disfatta repubblicana. Ad affascinare il nostro piccolo gruppo di osservatori di cose statunitensi, è proprio questa coniugazione tra la possente statura planetaria dell’America d’inizio millennio – pressoché intatta, dopo la veemente reazione d’orgoglio contro l’Asse del Terrore -, la sua incarnazione dell’idea di progresso – ancora non macchiata di errori flagranti ed insuccessi – e l’intenzione collettiva di sostenere quella concezione di Right America, ovvero il prodotto dell’idea neocon di cui George W. Bush è il supremo terminale.

Decidiamo perciò di partire per la Costa Est con lo scopo di realizzare, senza pregiudizi e con le persone giuste, un documentario tv che racconti agli italiani cosa infine sia il neoconservatorismo, come si stia modificando, quali siano le sue radici, quali le motivazioni e le ossessioni, quali le produzioni e i suoi effetti collaterali al di fuori della poitica, ad esempio nel mondo della cultura e dell’arte, o più semplicemente nel modo di pensare o di inquadrare il proprio paese da parte degli intellettuali e della gente comune. L’inchiesta si avvale di una buona troupe, di due conduttori e di un regista: Christian Rocca, all’epoca inviato negli Usa de “Il Foglio”, Francesco Bonami, critico d’arte al momento appena reduce dalla direzione di una notevole Biennale di Venezia e residente a Chicago come curatore del locale Museo d’arte Contemporanea, e il sottoscritto che, come sempre divide la sua passione per le cose americane tra la stampa e la tv. Nel giro di un paio di settimane, assecondando gli approcci diversi ma complementari di Rocca e Bonami, giriamo una trentina d’interviste, quasi sempre di grande interesse, con personaggi che vanno da Paul Berman a William Kristol, da John Podesta a David Byrne. Il titolo del film, “Dalla Parte degli Angeli” è proprio uno dei nostri migliori intervistati a suggerirlo inconsapevolmente, Peter Beinart, allora a capo della redazione del New Republic, allorquando con fervore ci spiega come buona parte di quelli che lui giudica “errori americani”, in particolare sullo scacchiere internazionale, vengano commessi assecondando una specie di originale, esoterica buona fede, che consiste appunto nell’inossidabile convinzione di agire sempre nel nome del bene comune, sotto le insegne dell’umana giustizia, con indosso i colori degli angeli di Dio, che ovviamente possono limitarsi a essere “custodi” ma possono anche tramutarsi in “sterminatori”.

Fu un lavoro fantastico, per quanto ci permise di penetrare – ciascuno dal suo punto di partenza – dentro la valutazione di appartenenza, di eccezionalità e di preservazione dello spirito americano che stavano alla radice dell’orgoglio neoconservatore. Ma su tutti, per ciò che scriveva, per come argomentava e per quanto tutti concordammo nel giudicare decisive le sue riflessioni sulla cosa americana, a colpirci fu l’incontro con Christopher Hitchens, il commentatore britannico che da tempo aveva messo radici a Washington, Dc, per studiare la bestia dal di dentro e raccontarla coi suoi corsivi su una miriade di prestigiose riviste e di saggi illuminanti, dando fondo al suo spirito di polemista nella frequenti apparizioni televisive. Contattato con una semplice e-mail, Hitchens aveva dato rapidamente disponibilità all’intervista, con un particolare: unico tra le dozzine di colleghi da noi avvicinati, chiese un modesto compenso per il suo tempo. Una cifra abbordabile anche per una modesta produzione come la nostra, ma che, dal suo punto di vista, probabilmente doveva servire a motivare e a regolamentare la pletore di richieste che bussavano alla sua porta, dal momento che una sua apparizione o un suo intervento contribuiva quasi sempre a qualificare la portata di un evento o di un’analisi.

Raggiunto l’accordo e fissato l’appuntamento, una volta a Washington ci siamo avviati a incontrare Christopher nella sua bizzarra casa di eleganza radical. Per Christian Rocca, l’appuntamento era particolarmente atteso: l’incontro era l’occasione di verificare in prima persona la raffinatezza di un approccio alle cose del mondo politico che sapeva plasmarsi sulle verità e sui fatti, lontano dalle ideologie, dai pregiudizi e dai canoni della correttezza prefabbricata. Motivi per i quali Hitchens era un osservatore politico a costante rischio d’accusa di contraddizione: perché per comprenderne il ragionamento, bisognava ascoltare con attenzione e connettere le parti e i piani della sua visione. Perché il suo patrimonio culturale era sterminato e la rapidità di accesso alle informazioni e alle citazioni che padroneggiava era sbalorditivo. E poi, semplicemente, anzi, cinematograficamente, perché il personaggio era straordinario, già titolare di una sua dimensione mitica, almeno tra gli addetti ai lavori (e presto tra schiere sempre più vaste di ammiratori), perché c’era letteratura e teatro nella sua figura, c’era rock’n’roll e Shakespeare nella sua voce, c’era rivoluzione e restaurazione nel vagabondare delle sue elucubrazioni.

E l’incontro mantenne le promesse: Christian pose il suo arsenale di interrogativi e un Hitchens lucido, caustico e formidabile fumatore (un pacchetto in fumo nel corso della conversazione), ancor più diligente proprio in rispetto al piccolo onorario richiesto, ironico e teatrale nella gestione della battuta e del ritmo, trasformò quella mattinata in una notevole esperienza. Che è il motivo che ci ha spinto, tempo dopo, a tirare fuori dall’archivio questo filmato, del quale solo un minuscolo boccone era finito nel montaggio del documentario e che altrimenti rischiava di restare per sempre inedito. Adesso che Hitchens se n’è andato, che ha gestito con tale maestria perfino il suo commiato, adesso che i suoi scritti fioccano in una malinconica dimensione postuma, noi abbiamo rivisto il lavoro di quel giorno di Washington. E siamo rimasti sbalorditi: o Christopher era uno stregone, o forse, semplicemente, possedeva un’intelligenza superiore in una mente libera. Merce rara, oggi. Da ascoltare perciò anche in un futuro che deve, nel contempo, dolersi della sua assenza. Perché le cose stanno andando come lui le immaginava e ci dispiace solo che non sia ancora tra noi, a dirci invece, sornione, che cosa ci aspetti tra le brume del futuro.