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Hillary: morale della favola

Tra mille difficoltà interne ed esterne, dopo la convention di Philadelphia la candidata democratica ha un cuore e un suo progetto politico con una forma più precisa.

di Paola Peduzzi

Dicono che è facile fare una convention come quella di Philadelphia, quando hai a disposizione personalità eccezionali, star della tv e del cinema, la macchina clintoniana unita a quella di Barack Obama, che è la stella dell’oratoria moderna. Dicono che è facile fare una convention come quella di Philadephia quando la settimana precedente c’è stata una kermesse improvvisata e bizzarra come quella inscenata da Donald Trump a Cleveland. Dicono che è facile, che questo show non poteva che essere perfetto, ma non è vero: con Hillary Clinton nulla è facile. La candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti ha fatto crollare il soffitto di cristallo delle donne, ha ottenuto una nomination “storica” che cambia tutto, per sempre, ha mostrato il suo cuore e il suo centro politico, ma è proprio la storia a giocare con le sue lame affilate sul futuro di Hillary, intrappolata tra il fare la storia e averla, a suo modo, già fatta.

Il passato di Hillary s’incrocia e si scontra con il suo futuro, e il palco di Philadelphia ha mostrato quanto sia spericolato intestarsi una battaglia di cambiamento con una formula che ha vent’anni orgogliosi di vita, in un mondo che nel frattempo è diventato più arrabbiato e insolente, al punto da infastidire con qualche urlo persino il discorso finale di accettazione della nomination. I manifestanti sandersiani – orfani del loro leader Bernie che non ha tradito nemmeno per un attimo la sua promessa, e ha ripetuto che questa è l’incoronazione di Hillary, finiamola con i rancori e le rappresaglie – si sono presentati con la loro tigna incerottata, bocche chiuse dalla scritta “silenced”, silenziati, e sono stati rumorosissimi, hanno rischiato di rovinare la festa del clintonismo. Questi manifestanti, con i loro cori per quanto progressivamente meno rilevanti, hanno fatto emergere una verità che le sinistre (pure le destre in realtà) del mondo nascondono da tempo, e che riguarda una lotta spietata tra il liberismo e il socialismo, tra l’apertura e la chiusura, tra l’apocalisse e la speranza. Tutto sotto gli occhi di Hillary che si picca di voler essere la sintesi di questa frattura: dopo tante carriere e avventure e cadute e risalite e campagne sfortunate e libri scagliati e lacrime ingoiate, oggi lei vuole essere l’incarnazione dell’unità.

Democratic National Convention: Day Four

Philadelphia ha fatto da scenografia a una settimana di grandi emozioni. Se l’obiettivo principale della Clinton è mostrare il proprio cuore – o meglio: dimostrare che ce l’ha, un cuore – la convention del Partito democratico è stata di moltissimo aiuto. Hillary esce da qui con una nuova anima, una leader a tutto tondo, con la dimensione personale che rafforza quella pubblica di “caretaker”, una che si prende cura della famiglia, dei figli, del Paese e del suo futuro.

Fin dal primo giorno di convention, i discorsi più importanti sono stati concepiti per costruire il cuore di Hillary. Abbiamo visto Michelle Obama, straordinaria, raccontare la storia di Hillary mamma di una nazione che vuole conservare e rilanciare il sogno americano attraverso i suoi figli, che li vuole proteggere e far crescere in nome di un progetto grandioso – non credete a chi dice che l’America non è grande. Abbiamo visto Bill Clinton rinunciare al ruolo di padre-padrone che vuole tutto il palco – la storia – per sé e raccontare una donna, una moglie, una madre, che non ha mai mollato, che ha combattuto battaglie pubbliche e private, che ne ha vinte tante, che ne ha perse alcune, «the best darn change-maker I’ve met in my life». Abbiamo visto Barack Obama, travolgente, strappare ai repubblicani l’eccezionalismo, l’ottimismo, la potenza, la sicurezza, il sogno, «quel che in America funziona bene», ribaltando in un attimo il catastrofismo trumpiano e riconsegnando «il bastone della speranza» a Hillary, «la candidata presidente più qualificata che gli Stati Uniti abbiano mai avuto». Abbiamo visto Chelsea, la ragazzina che abitava la Casa Bianca negli anni Novanta, presentare sua madre attraverso aneddoti, i bigliettini che le lasciava quando partiva, le serate sul divano assieme a guardare Orgoglio e pregiudizio, ultimo atto dello show di Hillary mamma di tutti i figli d’America.

Democratic National Convention: Day Four

Per la costruzione di questo amore molti si sono commossi, su e giù dal palco della Wells Fargo Arena, altri hanno usato la loro ironia, e bisogna scusarsi soprattutto con Tim Kaine, candidato alla vicepresidenza in ticket con Hillary. Il senatore della Virginia è stato presentato dai media come un signore noioso utile perché porta in dote uno spagnolo fluente che serve con l’elettorato latino e uno Stato “battleground” dal 2000 decisivo per la presidenza. Kaine era frutto di un ennesimo calcolo, insomma, invece sul palco della convention ha mostrato di essere ben più di un fedele araldo del clintonismo, non ha il carisma di Joe Biden, attuale vicepresidente, ma è stato spiritoso e ha fatto un’imitazione di Trump che ha consentito a tutti, fuori e dentro l’arena, di scoprire anche la sua, di anima.

Hillary da oggi ha un cuore, dunque, anche se nell’ultimo suo discorso lo ha tenuto un po’ nascosto: molti sostengono che è così che deve andare, non può puntare sull’emotività senza essere emozionante, è meglio a quel punto essere fieramente secchioni. Hillary ha scelto questa strada, lasciandoci con il dubbio di sempre, forse il cuore che si era visto nei giorni precedenti non era davvero il suo – ve l’avevamo detto che nulla è facile, con Hillary. Di certo però oggi Hillary ha il suo progetto politico con una forma più precisa. Nei primi due giorni di convention, la candidata ha cercato di conquistare quella sinistra che non si sente per nulla rappresentata da lei. I Bernie-Bros, per intenderci, che qui hanno mostrato il loro lato meno simpatico, forse perché si sono ritrovati in disaccordo con il loro stesso leader Bernie. È stato il senatore del Vermont a consegnare ufficialmente la nomination a Hillary, ed è stato sempre lui che ha cercato di spiegare ai suoi che la battaglia è stata persa, ma la guerra no, perché lo spirito sandersiano più radicale è stato inglobato nella proposta politica della Clinton. Tra i tanti temi su cui Sanders si aspettava di dettare la linea, in realtà il più importante è quello che riguarda la contrariertà al libero scambio, quel famigerato Ttp, accordo commerciale transpacifico, che risuona come il male assoluto sia nel campo sandersiano sia in quello trumpiano. Anche Hillary, in una delle sue giravolte, si è schierata contro il Ttp, mossa tattica di riavvicinamento all’ala sinistra del Partito che in realtà potrebbe ritorcersi contro di lei.

US-VOTE-DEMOCRATS-CONVENTION

Dalla metà della convention in poi, il passaggio verso il centro è stato molto più netto, e non soltanto perché sul palco sono saliti esponenti pragmatici del riformismo democratico, a cominciare dal fondatore Bill Clinton. Hillary deve conquistare quel centro liberale che fugge dal Partito repubblicano in mano a Trump – come ha spiegato alla perfezione Michael Bloomberg, ex sindaco di New York indipendente tornato nell’arena democratica in chiave anti trumpiana – per vincere con una coalizione elettorale che assomigli il più possibile a quella di Obama, con indipendenti e repubblicani delusi a punire il rivale repubblicano.

Il discorso di Obama, straordinario, gli è servito per difendere il proprio mandato, ricordando che l’America non ha bisogno di essere più grande, è già enorme nonostante il catastrofismo “endogeno” contrabbandato da Trump. Allo stesso tempo Obama ha fatto appello ai moderati, ai progressisti, agli interventisti in politica estera, rilanciando un progetto – che alcuni hanno definito addirittura reaganiano – in cui l’America non si sente fragile e indebolita e arrabbiata, ma piuttosto in grado di uscire vincente anche dalla crisi economia e di sicurezza di adesso. Hillary ha fatto lo stesso, parlando un pochino di sé stessa e di sua mamma, che è il suo punto di riferimento di sempre (“mi manca ogni giorno”) ma soprattutto dell’America più forte quando è unita, della forza dei gruppi, delle comunità, dei popoli, della grande famiglia di cui lei sarà madre, scagliandosi contro l’«I can fix it alone» ripetuto spesso da Trump: no, le cose non si raggiustano da soli. Gli attacchi al rivale sono stati affilati – diamo i codici nucleari a uno che si infastidisce con un tweet? – e anche scontati, perché ora la battaglia presidenziale non è più soltanto Hillary contro Trump, ma l’America tutta contro un corpo estraneo come il candidato repubblicano. La luce e il buio, dicono i commentatori americani, che fa di Hillary di nuovo un candidato inevitabile e predestinato – la sua maledizione – quando cita il musical più celebre del mondo, Hamilton, «non vivremo abbastanza da vedere la gloria» ma ci uniremo in battaglia e lasceremo ai nostri figli «i semi di un giardino che non vedremo mai».

A Hillary è toccato il lavoro sporco di attaccare il suo avversario: il potenziale di un’America grande su un palcoscenico blu caldo da oggi diventa sondaggi Stato per Stato, campagna elettorale brutale e serrata, attacchi velenosi, la poesia è finita. Ci fa sempre tornare con i piedi per terra, Hillary, è la sua virtù, è la sua croce, è il suo centro ed è il suo cuore, e no, nulla è facile per lei, nulla è facile con lei.

Foto Getty Images.