Attualità

Guido Nicheli e l’invenzione del milanese

A 10 anni dalla morte, un libro che tiene insieme la figura del cumenda meneghino e l'affresco di una Milano ancora spensierata.

di Giuliano Malatesta

Se Guido Nicheli, per gli amici il Dogui, fosse stato un personaggio di finzione, le sue gesta sarebbero quasi certamente state raccontate da Giancarlo Fusco, il principe degli irregolari, uno che Manlio Cancogni una volta definì il più grande narratore orale del II dopoguerra. E chissà che i due non si siano realmente incontrati almeno una volta nella vita, in quella Milano degli anni Sessanta dove la notte si passava in strada, si girava in bande e poi alla fine, nell’incertezza, si finiva sempre al Derby, la culla del cabaret italiano, a casa di patron Gianni Bongiovanni, detto Bongio. Ma mentre lo scrittore e giornalista spezzino girava sempre accompagnato dalla sua fedele grappa Nardini, ne beveva in quantità industriali al punto che la ditta spediva le ordinazioni a casa sua con l’indirizzo “bar Fusco”, Dogui l’alcol era costretto a venderlo, per campare. Le bottiglie di gin, campari e vermut per il celebre Negroni sbagliato del bar Basso, simbolo della città, le procurava lui.

In precedenza aveva fatto anche altri lavori, come l’odontotecnico e l’impiegato in una ditta che produceva termometri, ma lo spacciatore di bevande alcoliche fu il lasciapassare perfetto per entrare a far parte del mondo dello spettacolo dalla porta di servizio e per condurre una vita in prima classe, naturalmente senza averne i mezzi. Ma sempre a testa alta, con il sorriso e la battuta pronta. Ora la storia di Guido Nicheli, uno più grandi caratteristi del cinema italiano, nonostante abbia di fatto interpretato nella sua lunga carriera un solo eterno ruolo, seppur con differenti sfumature, quello del cumenda meneghino, un po’ bauscia un po’ viveur, arriva in libreria a 10 anni dalla morte nel racconto di Sandro Paté (See you later. Guido Nicheli, vita di un cumenda), bravo a tenere insieme la figura dell’attore e un affresco di una Milano ancora spensierata, dove nello stesso locale potevi incontrare indifferentemente Luciano Bianciardi, Renato Pozzetto o Luciano Lutring.

«Guido ha incarnato alla perfezione il luogo comune dell’industriale meneghino – scrive Gianni Canova nell’introduzione – una maschera capace di sintetizzare non solo una tipologia socio-antropologica ma anche un insieme di mode e di modi, di idiomi, di modelli sociali». Un limite, dal punto di vista strettamente cinematografico, ma un pregio per chi in fondo cercava di inventarsi una vita che altrimenti non avrebbe mai potuto permettersi. Viaggi, racconti, battute, cinema e ancora viaggi, in Costa Azzurra cercando invano di emulare le gesta del playboy Gigi Rizzi, in Spagna, in compagnia del suo amico del cuore Teo Teocoli, in pellegrinaggio da un certo Salvator Dali, affascinato da quell’apoteosi di autocelebrazione e di paradossi che erano il marchio di fabbrica del pittore catalano. Fa sorridere oggi vederlo in una foto d’epoca in quel di Cadaques tra lo stessi Dalì e la modella Veruschka, nota anche per aver avuto un padre che partecipò al fallito attentato ad Hitler.

Elegantissimo, raccontano che assomigliasse a Peter Sellers, sempre a bordo di macchine sportive, «cambiar car è una scelta di vita» era una delle sue massime cinematografiche, a forza di smerciare alcolici e di farsi anche lui qualche bicerin era diventato un elemento imprescindibile del foyer del Derby, dove era diventato amico di tutti (Cochi e Renato, Pozzetto, Jannacci e tanti altri) e dove in quel periodo stava prendendo forma un linguaggio ibrido che teneva insieme gergo di strada e di mala e che lui avrebbe fatto proprio per dare consistenza a un personaggio altrimenti improbabile, l’industrialotto sbruffone, invadente, bonariamente razzista, che leggeva a malapena le quarte di copertina dei libri e parlava solo di fuoriserie, ma a cui in fondo era difficile non voler bene. Quando in “Sapore di Mare” la bellissima moglie Virna Lisi tenta di risvegliare in lui dimenticate memorie dell’amore che fu, «ti ricordi quella volta in macchina?», il cumenda, serioso, risponde: «Non mi ricordo cosa avevo, l’Alfone 1900 o l’Aurelia Spider? Ah, la Porsche, macchina di grande libidine». Eppure, nella sua casa a sud di Milano, su una delle pareti del bagno ha campeggiato per anni proprio il poster di Virna Lisi, quasi a ricordare a se stesso che stava conducendo una vita che non si sarebbe potuto permettere. Guai però a farglielo notare. Il Dogui avrebbe risposto: «no dico, son messo male?».

«Nessuno tra noi amici poteva immaginare che questo personaggio, un curioso venditore di superalcolici, sarebbe un giorno diventato un attore», ricorda il suo amico Jerry Calà, evidenziando come le sue battute non terminavano con i titoli di coda di un film ma continuavano a funzionare anche estrapolate dal contesto, perché capaci di «raccontare un mondo interiore che lui riusciva a rappresentare meglio di altri». Era stato Jannacci, che stravedeva per lui, lo aveva soprannominato il presidente (della parola), ad arruolarlo per la prima volta in uno spettacolo, “La Tappezzeria”, con testi di Beppe Viola. Ma fu il cinema, prima con “Eccezzziunale… veramente” («mi dia due ana!») e poi con la  famosa accoppiata vanziniana “Sapore di mare” e “Vacanze di Natale” a consacrarlo come un principe caratterista di quella stagione cinematografica, l’antagonista meneghino del Mario Brega di verdoniana memoria.

Eppure Guido Nicheli non fece altro che limitarsi a portare davanti alla macchina da presa i modi di fare e di dire acquisiti nella lunga stagione cabarettistica. Non studiava recitazione, non faceva parte dei suoi interessi, e non aveva tempo e voglia neanche di imparare le parti a memoria. Andava a braccio, spesso discostandosi parecchio dal copione originario. Era in quelle occasioni che tirava fuori dal cilindro alcune delle sue battute più memorabili, su tutte la celeberrima «Alboreto is nothing». «Guido era un personaggio straordinario e contemporaneamente un attore mediocre, ma non era necessario fosse un grande attore», racconta Carlo Vanzina. «Tuttavia, trattato come un figlio e messo a proprio agio, dava il meglio. Molte delle battute di Guido nei nostri film sono invenzioni sue».

In seguito fece molto in televisione (“I ragazzi della terza C”), lavorò anche con Monicelli e Dino Risi, senza particolare successo, e addirittura rifiutò la parte di un omosessuale nel film “Paprika”, per paura che quel ruolo così diverso avrebbe finito per sporcare l’immagine del personaggio del cumenda. In questo fu sempre molto coerente. Scelse di trasformare se stesso in un lavoro e finì con il recitare per sempre. Come conferma l’epitaffio inciso sulla sua lapide: «see you later».