Attualità

Giocare al singolare

L'ennesima nuova rinascita di Antonio Cassano, tornato il miglior Cassano a Parma perché «mi fanno fare quello che voglio». Storia di una carriera in cui troppe volte il "fuori dal campo" è stato un pregiudizio per bollare anche "il campo".

di Giuseppe De Bellis

Ovviamente la cosa più bella fatta da Antonio Cassano domenica a San Siro non è stato il secondo gol. Né il rigore, né l’esultanza con Donadoni. È stata la prima cosa che ha fatto, praticamente la prima vera palla toccata, l’essenza del suo essere calciatore, la giocata che preferisce: l’assist che ha messo Schelotto di fronte ad Abbiati, che ha provocato il rigore, che ha dato una direzione precisa alla partita.  Tocco di prima in profondità, senza guardare, sulla corsa del compagno. Non serve spiegare altro, basta ricordare che ha la parte variabile del suo stipendio collegata non ai gol che fa, ma a quelli che fa fare. È davanti per distacco alla classifica degli assist: 53 in 24 partite, il secondo è Pjanic a 48 in 25 partite. I gol invece sono 11, che forse è un dato ancora più straordinario per raccontarci che è in una delle fasi migliori della sua carriera. Nella stagione numericamente migliore della vita, quella 2003-2004, fece 14 gol in campionato con la Roma. Nell’anno complessivamente più importante, invece, il secondo a Genova – quello dell’arrivo in Champions – i gol furono 12. Questo per dire che ci siamo, adesso. Tutto questo non serve a entrare nel dibattito del Mondiale sì-Mondiale no, per il semplice fatto che con uno che gioca a questi livelli il problema non bisognerebbe porselo. Del resto, cioè del carattere, delle follie, della maleducazione non ne parliamo perché sono idiozie, sono pretesti, sono scuse. Se poi è vero che ci siano i sondaggi con i giocatori più esperti della Nazionale, com’è che li chiamano? Ah, sì, senatori. Comunque se fosse vero in analisi non dovrebbe andare lo stesso Cassano, ma chi fa i sondaggi. Siccome qui ci si fida delle persone fino a prova contraria, si dà per scontato che il sondaggio sia un’invenzione, una di quelle leggende che ogni tanto girano e funzionano perché fanno molto dibattito da lunedì mattina al bar.

Non bisogna avere il carisma di Franco Baresi per essere un leader. Cassano è un tipo di leader diverso dall’accezione comune. È uno che ha bisogno che qualcuno gli dica: tu sei il numero uno.

I fatti sono un’altra cosa. I fatti sono che Cassano funziona. Gioca, segna, fa segnare, guida una squadra, trasforma giocatori modesti in giocatori più che accettabili. Prima di giocare con lui, Christian Maggio era niente. È diventato titolare della nazionale vicecampione d’Europa. A Parma, quest’anno, gioca in una squadra che è fatta da scarti di altre squadre. Prendiamo Schelotto, che a Milano domenica è stato fondamentale: arrivato all’Inter via Atalanta, poi scomparso, dimenticato, perso. Finito al Sassuolo, poi ripescato dal Parma: in quattro partite ha fatto due gol, gli stessi che ha fatto in 23 partite divise in due squadre nell’anno e mezzo precedente. Poi chi c’è? Biabiany, Amauri, Parolo, Gobbi, Paletta, Lucarelli, Obi. Una squadra praticamente identica a quella che  l’anno scorso fece 49 punti in 38 giornate. È arrivato Cassano, i punti sono 46 in 28 giornate. Antonio migliora gli altri, checché ne dica la gran parte dei commentatori pallonari. Ora, posto che è abbastanza facile e pure un po’ scontato odiarlo, ma è oggettivo che sia uno dei casi in cui il talento coincide con la definizione orribile ma efficace di “uomo squadra”. Perché è l’appiglio, la certezza, la consapevolezza di avere uno al quale ti aggrappi quando c’è bisogno: dalla a lui e stai tranquillo. Non bisogna avere il carisma di Franco Baresi per essere un leader. Cassano è un tipo di leader diverso dall’accezione comune. È uno che ha bisogno che qualcuno gli dica: tu sei il numero uno. Chiunque l’abbia fatto s’è ripagato l’investimento. D’altronde dal Milan è andato via per l’inverso. Perché dopo la cessione di Ibrahimovic, Cassano s’aspettava che società e allenatore gli dicessero: tocca a te. È una spiegazione, non una giustificazione. È il tentativo di raccontare chi è e come si comporta questo giocatore del quale in molti hanno parlato usando uno schema che con lui è inapplicabile.

C’è una verità che ha capito anche lui. Ha bisogno di una cosa media che lui possa trasformare in grande. Se lo metti in un contesto più complesso, più competitivo, Cassano cambia, si deprime, poi sbrocca. È un limite? Forse. Eppure la storia del nostro calcio ha già avuto altre storie così: Gigi Riva, il quale ebbe l’intelligenza di non provarci nemmeno ad andare in una grande. Cagliari fu un amore e una grande opportunità: lo trasformò nell’idolo contemporaneo e poi futuro di quell’Italia anti-grandi. Anche Antognoni a Firenze fu la stessa cosa. Persino Baggio ha avuto lunghe fasi della vita in cui è stato così: tolta la Juve, le sue esperienze nelle squadre in cui c’erano altri campioni sono state peggiori di quelle in squadre piccole.

Se Parma concede a Cassano delle libertà è semplicemente perché il mercato glielo impone: vuoi uno che è decisamente sopra i tuoi standard? Dagli quello che altrove non potrebbe avere. Gli hanno dato benefit  fuori e dentro il campo.

Nessuno dice che Cassano sia figo per questo. Ma non si capisce perché debba essere il contrario. «Io sto bene a Parma perché mi fanno fare quello che voglio», ha detto dopo la partita di San Siro. È una di quelle frasi che chi lo detesta interpreta come guascona, supponente, arrogante. Antonio dice verità che altri non ammettono. Esistono privilegi evidenti anche nelle società più importanti e meno tolleranti coi campioni, se Parma concede a Cassano delle libertà è semplicemente perché il mercato glielo impone: vuoi uno che è decisamente sopra i tuoi standard? Dagli quello che altrove non potrebbe avere. Gli hanno dato benefit  fuori e dentro il campo. «Gioco dove posso correre meno». Tutta la verità e nient’altro che la verità che potrebbe danneggiarlo in prospettiva del mondiale. Perché non ci sarebbe scusa migliore che il non corre quanto gli altri per non convocarlo. Allora perché lo dice? Semplicemente perché non può essere diverso da com’è. Lo dice, punto. Il che lo rende diverso da chi chiede e ottiene gli stessi privilegi, ma poi non li rivendica pubblicamente.

Totti da anni ha giustamente chiesto di sprecare meno energie possibile nella fase dinamica del gioco, ma la sua evoluzione è stata raccontata come l’adattamento della squadra alle sue nuove caratteristiche. Cassano degli ultimi anni partiva un po’ largo a sinistra, con quella inversione piede preferito-collocazione in campo che è diventato un dogma del pallone contemporaneo. Succedeva con Mazzarri e con Delneri alla Sampdoria e succedeva anche nel Milan e nell’Inter. A Parma la posizione è molto più centrale, non da centravanti ma da trequartista più statico. L’unica domanda che bisognerebbe farsi quando si parla di lui in Nazionale è proprio questa: potrebbe giocare così al Mondiale? Se il modulo che Prandelli vorrà usare in Brasile è quello visto contro la Spagna la risposta più probabile è no. Perché questo Cassano per sfruttarlo meglio non puoi farlo giocare da interno offensivo che poi è come hanno giocato Candreva e Cerci a Madrid. Però se Prandelli decide di giocare con Balotelli, un altro attaccante e due esterni, allora sì. Dieci metri alle spalle del centravanti è il suo mondo attuale, il suo giardino.

Il carattere è un accessorio. «Di tutto quello che di sbagliato ho fatto nella vita, forse rifarei tutto, tranne la sceneggiata col Torino (la maglia lanciata in faccia all’arbitro e la sceneggiata post espulsione, nda). Se mi dici che cosa è successo, rispondo che se guardo le immagini mi riconosco, vedo che sono io quello lì, ma anche se mi sforzo di ricordare non ci riesco. Ho visto un telo nero davanti». Non cerca alibi, e questa è una delle sue parti migliori. Cassano è in grado di irritare chiunque, compresi i cassanisti. Qualche settimana fa gli hanno chiesto quali fossero le squadre importanti della sua vita. Ha risposto: «Sono legato a Inter, Sampdoria e Parma». L’Inter perché è la squadra per cui ha sempre tifato, la Sampdoria perché l’ha rimesso in campo quando tutti lo davano per finito a 25 anni, il Parma perché ha creduto in lui dopo le esperienze negative di Milan e Inter. Non c’è la Roma che lo strapagò quando aveva 18 anni, non c’è proprio il Milan il cui staff medico gli ha salvato la vita. Non c’è soprattutto il Bari che per quanto conti poco per tutti dovrebbe contare per lui: la squadra della sua città e la squadra senza la quale probabilmente sarebbe rimasto il più incredibile talento da strada e basta. Ovvio che ti incazzi, ovvio che lo reputi un ingrato. Ma tutto questo col pallone che c’entra?

«Anche al Bari, arrivato là, primo anno, fascia di capitano e numero dieci. Ma è normale. Dopo due giorni comandavo già io. Chi ha personalità anche da bambino si fa rispettare».

Il problema è che per tutta la carriera, la lettura s’è sovrapposta. Dentro e fuori, come un ago che tiene insieme pezzi di tessuto che  insieme non ci vogliono stare. Ogni volta è stato punito, però mai perdonato davvero: «Se non avesse giocato a calcio, sarebbe finito nei guai». Certo, perché uno che nasce a Bari Vecchia non ha chance: o vince alla lotteria o va in galera. È da quando ha cominciato a giocare che sente la frase: rischia di rovinarsi. A 19 anni l’avevano già dato per spacciato: «Farà la fine di Maradona». È arrivato a fine carriera o quasi e il repertorio delle frasi su di lui non è cambiato. Ha cambiato anche strategia comunicativa. Se ci pensate, fino all’autobiografia scritta con Pierluigi Pardo, Antonio non parlava. Una volta sul Foglio scrissi: «Infastidisce perché è immarcabile: nasconde la sua vita come un pallone a un avversario». Era vero: non parlava, non reagiva, non si sfogava mutuando fuori dal campo quel suo unico modo di proteggere il pallone col corpo, caratteristica tipica e straordinaria del suo modo di giocare. Poi ha cambiato: s’è aperto. Il libro, poi il secondo, le partecipazioni a Sanremo e a Che tempo che fa: volete sentire Cassano, eccolo. E tutti s’aspettavano da lui una battuta politicamente scorretta. «Venivano in tre-quattrocento persone a vedermi. Magari avevo cinque anni e mi cercavano i ragazzini di dieci-undici, perché io li facevo vincere. Allora era normale che pensassi di essere il più forte. Anche al Bari, arrivato là, primo anno, fascia di capitano e numero dieci. Ma è normale. Dopo due giorni comandavo già io. Chi ha personalità anche da bambino si fa rispettare. Mi avevano già dato le chiavi della squadra: facevo cinque o sei gol a partita, non potevano fare diversamente».

Io al posto del noi. Sempre. Forse è questa una delle sue colpe: l’essere un anti-ipocrita, uno che sa di essere diverso, più forte, più capace e te lo fa vedere. Sbruffone, ecco. Però sincero, perché così gli ha insegnato non si sa bene chi e non si sa bene dove. Lo ripete spesso, anzi sempre. Come se il suo codice di comportamento prevedesse di raccontare prima agli altri che lui non è come gli altri, ma più folle. Come con la storia della bandierina rotta il giorno di Roma-Juventus. Quattro a zero, doppietta a Buffon. La sua partita, una delle sue, difficile e perfetta. Secondo gol: corsa verso la bandierina e calcione. «La dovevo spezzare. Collina, il grande Collina, è venuto e mi ha detto “Anto’ non mi puoi fare queste cose qua”. E io gli ho detto: “Gigi capiscimi”, avevo fatto una promessa. Al secondo gol che facevo avrei rotto la bandierina. Che dovevo fare? Alternative non ne avevo. Le parole si mantengono e ho rotto la bandierina». Antonio non si giustifica. Se uno vuole capirlo deve accettare un modo di pensare che inevitabilmente non è quello di tutti gli altri. Adesso gli chiedono della Nazionale con due obiettivi: o facciamo i suoi sponsor e se poi Prandelli lo porta sarà merito nostro, oppure ne dice una delle sue e abbiamo la notizia con cui campiamo una settimana. Sceglie la uno, dopo aver scelto il campo. Undici gol, 53 assist: stiamo parlando del Parma. Una squadra, lui. Come continuare a parlare sempre al singolare.

 

Nell’immagine, Antonio Cassano contro il Milan, 16 marzo 2014. Claudio Villa / Getty Images