Attualità

Generation War

Polemiche, critiche, forze e debolezze della serie tedesca andata in onda su Rai 3 e che racconta la Seconda Guerra Mondiale dalla prospettiva della Wehrmacht.

di Cesare Alemanni

La prima persona a parlarmi di Generation War, il film Tv in due puntate passato su Rai3 nel weekend dell’8 e 9 febbraio, è stata una mia conoscente tedesca. Si era ad aprile dell’anno scorso e Unsere Mütter, Unsere Vätter (“Le nostre madri, i nostri padri”, questo il titolo originale) era da poco andato in onda su ZDF con il 24% di share. Gli domandai come fosse. Non ricordo i dettagli della sua risposta ma potrei riassumerla altrettanto bene con un “imbarazzante”.

Per nulla scoraggiato – sono un divoratore di libri e film di guerra – qualche tempo dopo decisi comunque di guardare il film (sottotitolato in inglese) e anche se devo ammettere che a visione ultimata non mi sentivo di condividere un giudizio così negativo, potevo comunque capire le ragioni che avevano portato la mia conoscenza ad esprimerlo. Come ha scritto David Denby sul New Yorker: «Generation War ha tutte le forze e le debolezze delle opere mediamente colte: può essere goffo ma mai noioso, e una volta che inizi a guardarlo è impossibile smettere». E in effetti la cosa più simile a Generation War che io ricordi sono due serie HBO prodotte da Steven Spielberg e Tom Hanks: Band Of Brothers e The Pacific. Proprio come queste due, come intrattenimento GW funziona benissimo. È un buon film di guerra nel solco dell’iperrealismo – camera vicina all’azione – tracciato nel 1998 da Salvate il soldato Ryan. Anche come dramma Tv, pure nella sua stucchevolezza, perlopiù regge. Insomma è indubbiamente un prodotto televisivo di buona/ottima fattura.

Affrontare un dialogo del genere, per molti tedeschi post WWII, poteva significare scoprire che le loro madri e i loro padri erano direttamente colpevoli o complici di atti mostruosi.

Il fatto però è che, trattandosi di un film di guerra girato dal punto di vista della Wermacht, gli elefanti nella stanza sono ovviamente molteplici e non è sufficiente realizzare “semplicemente” dei buoni effetti speciali per mimetizzarli con la tapezzeria. Specie se l’intento dichiarato dai produttori era di «ricostruire un dialogo trasparente tra la generazione che ha vissuto quegli anni e quelle successive». Come ha commentato con un po’ di cinismo sempre lo stesso Denby: «Questa idea avrebbe forse avuto più senso una decina di anni fa, quando erano rimaste un po’ più di persone con cui parlare». Ironie a parte, è ovvio che un dialogo del genere in Germania è stato soffocato da un gigantesco imbarazzo per decenni e decenni ancora dopo la guerra. Perché affrontarlo, per molti tedeschi delle generazioni successive, poteva significare scoprire che le loro madri e i loro padri erano direttamente colpevoli o complici di atti mostruosi. L’intento di Generation War, seppure forse anagraficamente tardivo, era quindi nobile. Il problema semmai è che l’opera finale lo tradisce in più punti.

La storia comincia nella primavera del 1941 in un locale di Berlino. Qui ci vengono introdotti i cinque giovanissimi protagonisti del film: tre uomini e due donne poco più che ventenni. Li incontriamo nell’atto di darsi l’arrivederci prima di partire per i propri destini – due di loro sono sul punto di essere mandati in Russia, una terza di diventare infermiera sul fronte orientale – e di brindare alla promessa di rivedersi nuovamente già entro Natale, da eroi vittoriosi.

Nel ’41 in effetti la Germania era reduce dai successi delle Blitzkrieg in Polonia e Francia e niente e nessuno sembrava poterne ostacolare l’avanzata, neppure il fango delle steppe russe. È quindi plausibile che dei ventenni, con l’ingenuità di quell’età, immaginassero di passeggiare fino a Mosca in pochi mesi. Cio che è meno plausible e di certo storicamente inattendibile è che quattro ventenni “ariani”, cresciuti nella Berlino degli anni ’30 e passati attraverso quasi un decennio di indottrinamento nazista e mito della razza intrattengano relazioni con un ebreo. Già perché il quinto membro della compagnia, Viktor, è ebreo. È affascinante e ben voluto da tutti, e a quanto pare può andare in giro per Berlino in compagnia dei suoi amici come se nulla fosse. Come se le leggi razziali che già da anni avevano segregato gli ebrei, semplicemente – nella realtà parallela del film – non fossero mai state promulgate, o esistessero solo per essere vagamente accennate (il padre “ingenuo”, il malvagio ufficiale della Gestapo che dà la caccia a Viktor).

Lo storico Ulrich Herbert ha rilevato come Generation War non faccia altro che avvallare il “mito” per cui Nazisti sono stati sempre gli “altri” e non proprio “le nostre madri e i nostri padri” del titolo.

Ammesso e non concesso che un’amicizia del genere potesse esistere all’epoca – e voglio immaginare/sperare che in diversi casi sia davvero esistita – è stato l’inserimento nella trama di questa e di parecchie altre “mosche bianche” rispetto a quella che era il clima politico della Germania di allora – così come è stato ricostruito dagli storici – ad aver sbalordito numerosi tedeschi (non comunque la maggioranza dei 7 milioni di spettatori della serie – che l’ha accolta con entusiasmo); tra cui la mia “giovane” conoscente.

Come tra il pubblico, anche su quotidiani e riviste tedesche il film ha ricevuto un’accoglienza “mista” da parte di storici e giornalisti. Se per testate conservatrici come lo Spiegel e la FAZ il film brillerebbe per la sua aderenza ai fatti e per il non aver “nascosto” la complicità della Wehrmacht nei crimini delle SS, dalle pagine della liberale TAZ di Berlino, lo storico Ulrich Herbert ha rilevato come Generation War non faccia altro che avvallare il “mito” per cui Nazisti sono stati sempre gli “altri” e non proprio “le nostre madri e i nostri padri” del titolo.

E in effetti questa è un po’ la morale che si evince dalle storie dei quattro protagonisti (Viktor, il giovane ebreo è per ovvie ragioni un “caso” a parte), che ci vengono presentati come giovani e splendidamente inconsapevoli vittime di un sistema che in fondo non hanno scelto, di un disegno di cui in fondo non facevano davvero parte. Al punto che, come ha scritto una giovane collaboratrice di un settimanale ebraico tedesco, alla fine si ha quasi l’impressione che «non siano solo gli ebrei a essere stati vittime di Hitler, ma in primis… i tedeschi stessi». Il che si può sostenere seriamente solo usando un quantitativo di ironia storica di svariate magnitudini maggiore di quello inteso dall’autrice.

Come ha dichiarato a Stern Habbo Knoch, un altro storico del nazismo, «quello che manca completamente nel film sono i 30-40 anni di allora che in piena coscienza hanno costruito il sistema dal basso, mattone per mattone, traendone grandi vantaggi».

La “scorrettezza” di GW risiede proprio nella “campionatura” dei suoi personaggi. È troppo semplice empatizzare con gli errori d’ingenuità di cinque ventenni, risulta troppo facile perdonarglieli, compatirli per il modo in cui vengono annientati dalla Storia uno dopo l’altro. Come ha dichiarato a Stern Habbo Knoch, un altro storico del nazismo, «quello che manca completamente nel film sono i 30-40 anni di allora che in piena coscienza e con grande calcolo hanno costruito il sistema dal basso, mattone per mattone, traendone grandi vantaggi».

Non è invece un mito ma un fatto storicamente provato (segnalo di recente il molto controverso Bloodlands di Tymothy Snyder) che in molte nazioni dell’Europa orientale conquistate dai nazisti prima di marciare sulla Russia, a organizzare i Pogrom e a cavalcare l’onda antisemita portata dagli occupanti siano stati gli abitanti di quegli stessi paesi (un fatto propagandato dallo stesso Goebbels all’epoca). Vale però la pena di sottolineare come – con l’eccezioni un paio di episodi decisamente forti – in Generation War si ponga quasi più enfasi sul collaborazionismo delle popolazioni locali piuttosto che sul diretto coinvolgimento dei tedeschi; al punto che in Polonia hanno boicottato completamente la pellicola.

In generale il film mostrando i suoi giovani “anti-eroi” come complici/vittime degli errori di uomini più maturi ed efferati di loro, sembra voler scagionare la generazione di tedeschi degli anni ’20, quella che aveva 20 anni durante la Guerra, l’unica a essere ancora in vita con numeri significativi. Il film sembra dire: non preoccuparti, tuo padre o tuo nonno non hanno fatto nulla di male volontariamente, sono stati trasformati loro malgrado in assassini; una morale che a qualcuno è parsa troppo comoda e fuori luogo.

Casualmente o forse no, GW è uscito proprio in un momento in cui in Germania si discute molto dell’eccessivo disimpegno militare degli ultimi governi in contesti come Libia, Mali, Siria e di come questo atteggiamento sia un “portato” della tragica storia del novecento, e in tal senso la pellicola sembra inserirsi in questa “conversazione” offrendo il suo sostegno all’argomento di chi sostiene che, 69 anni dopo la fine della guerra e a completo ricambio generazionale ormai ultimato, per la Germania è arrivato il momento di trasformare la vergogna in una forma di memoria con cui sia meno arduo convivere. GW sembra quindi anche dire: finalmente in Germania possiamo filmare la nostra versione dei fatti, girare il nostro Band Of Brothers, mostrare al mondo e al grande pubblico la “nostra” Seconda Guerra Mondiale come se fosse uno spettacolo come un altro, come hanno fatto da sempre gli americani, i vincitori. È giusto mostrare l’Operazione Barbarossa con lo stesso linguaggio cinematografico dell’Operazione Market Garden? Non secondo tutti. Non secondo me, di sicuro.

Generation War si conclude con la fine della guerra, il ritorno di alcuni protagonisti a Berlino, la vita che lentamente riprende e un voice over che può suonare come una condanna o un’assoluzione, e forse è entrambe: «Presto qui ci saranno solo tedeschi, e non un singolo Nazista».

 

N.B. Mentre arrivava in Italia, Generation War usciva anche in alcuni cinema americani, suscitando più o meno le stesse perplessità che ha suscitato in alcuni commentatori tedeschi. A tal proposito, a mò di piccola rassegna interna, oltre al già citato articolo sul New Yorker, segnalo anche questa bella critica apparsa su New Republic.