Attualità

Fuoriclasse

Inaugurata alla GAM di Milano questo weekend la collettiva curata da Cerizza. Artisti diversi fra loro ma con una cosa in comune: le lezioni di Garutti.

di Sara Dolfi Agostini

A Milano alla GAM c’è una mostra che unisce tre generazioni di artisti, quasi 60, e tra il più giovane e il più vecchio ci sono 25 anni. In comune hanno l’aver partecipato alle lezioni di Alberto Garutti, temibile professore e artista che a novembre sarà celebrato al PAC – che è proprio davanti – con una retrospettiva curata dall’ubiquo direttore della Serpentine Gallery, Hans Ulrich Obrist. Eppure, tutti gli artisti scelti per la mostra non appartengono a una scuola, non ricopiano uno stile né condividono un linguaggio o una tecnica preferita.

Alberto Garutti, insomma, non ha prodotto repliche di se stesso, come spesso fanno gli artisti che insegnano in accademia presi dal consueto delirio narcisistico. Piuttosto, ha allenato i suoi allievi a fare autocritica, esponendoli a un confronto serrato con i compagni di classe, li ha spinti a fare attenzione al contesto e a non trascurare la forma dell’opera. Dettaglio non trascurabile visto che la mostra è ospitata nella GAM Galleria d’Arte Moderna, che è poi la settecentesca Villa Reale con le sue preziose collezioni di dipinti, sculture e arredamenti.

Concettualmente la mostra inizia al piano terra, dove aleggia un festone fatto di fogli A4 e recante la scritta “I have to improve my work” (migliorerò il mio lavoro ndr). È una dichiarazione di intenti preventiva, mirata ad aggirare il meccanismo di valutazione del proprio operato da parte degli altri: qui è una giocosa rivisitazione del primo lavoro di Patrizio di Massimo, presentato in classe al cospetto di professore e compagni. Omaggio alla vita comunitaria dello studente è anche il lavoro di Simone Berti, che ha proposto una serie di ritratti di colleghi artisti, animati e proiettati sui pallidi fondoschiena di donne marmoree. “Artisti che si ripetono” li ha chiamati ironicamente, e tra questi si riconoscono Vanessa Beecroft, Diego Perrone e molti altri che hanno frequentato la scena milanese in un sarcastico bignami di facce e opere.

Ai bei tempi andati ci ha pensato anche Massimo Grimaldi con “Smashed red guitar inside a dismantled red tend”: un’installazione che consiste appunto di una chitarra fatta a pezzi che sbuca dai brandelli di una tenda abbandonata sul pavimento. Anche stavolta la nostalgia lascia il posto a una lettura più umoristica e nel salone elegante di Villa Reale echeggia il crudele paradigma reso celebre da Arbasino secondo cui, in Italia, ci sarebbe un momento “stregato” in cui si passa dalla categoria di “bella promessa” a quella di “solito stronzo”, e solo a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”.

C’è chi, intanto, ha avuto l’onore di confrontarsi con qualche venerato maestro attraverso le opere della collezione della GAM. Davide Stucchi, ad esempio, che ha intitolato i suoi frammenti di carta all’artista minimalista americano John MacCracken e li ha sistemati nella sala adibita a ospitare le teste di Medardo Rosso enfatizzando il cortocircuito tra astrazione e figurazione. A Petrit Halilaj è toccato, invece, di insinuarsi tra i dipinti di Giovanni Segantini con tre sculture dal sapore arcaico della serie “Can we do something together, just this and then forever”. Totem alla schizofrenica dualità dell’uomo, oscillante tra le sue inclinazioni culturali e naturali, si ergono ciascuno su un ordinato cumulo di sabbia monocromo che richiama altresì al rapporto di continuità tra pittura e scultura.

La riflessione sulla forma artistica in dialogo con la tradizione classica prosegue con l’opera di Lupo Borgonovo, “Apparizione Aquilina”: un’enigmatica testa in cera esibita su un basamento di legno che indaga il rapporto tra elemento materico e psicologico nei modi di rappresentare l’identità. Qualche stanza più in là, le forme geometriche pure del Minimalismo ritornano come referente obbligato, da cui sfuggire però nel presente, in “Untitled” di Lara Favaretto: una struttura cubica di coriandoli pressati in bilico tra perfezione e disfacimento che l’artista ha realizzato nel centro di una sala e abbandonato all’effetto mai clemente del tempo.

L’opera sembra il naturale complemento di un cubo installato in fondo al corridoio, in un contesto più raccolto: un altro “Untitled” realizzato da un giovane Giuseppe Gabellone nel 2000. In questo caso, l’oggetto ha una corazza stretta da molti bulloni avvitati a vista che spezzano la linearità della forma. Potrebbe essere un contenitore atto a nascondere o a conservare qualcosa di insondabile e prezioso, o più banalmente il duplicato di una cassa per il trasporto di opere d’arte, lasciato in un angolo come a indicare che la mostra è ancora in corso di installazione e guai a esprimere giudizi definitivi su quello che è stato e che ancora è.

All’esterno, poi, fuori dal gioco di rimandi contenutistici e formali in cui si rispecchia spesso e con compiacimento l’arte contemporanea, tra oggetti, video, audio e dipinti ma soprattutto oggetti, c’è un’opera che porta altrove. “When the moon hits your eye” di Stefania Galegati è una lunga scritta in gesso realizzata sui marciapiedi di Milano nella notte che ha preceduto l’inaugurazione della mostra. Le parole appartengono alla scrittrice Rosa Matteucci e si trovano nel romanzo “Le donne perdono tutto tranne il silenzio” con tutto ciò che le precede e le segue. Chissà se la fretta dei pedoni milanesi sarà messa alla prova dal fascino di una storia altrimenti nascosta tra le pagine di un libro.

 

 

Fuoriclasse
Diego Perrone, Giuseppe Gabellone, Lara Favaretto, Meris Angioletti, Paola Pivi, Patrick Tuttofuoco, Petrit Halilaj, Roberto Cuoghi
Villa Reale – Galleria d’Arte Moderna, Milano
06 Ottobre – 09 Dicembre 2012
ingresso gratuito