Attualità

Francis Scott Fitzgerald a Hollywood

Il rapporto difficile fra lo scrittore americano e il cinema, un mondo che in realtà aveva capito molto meglio di altri colleghi intellettuali dell'epoca.

di Fabio Guarnaccia

È un vero peccato che nella sbornia fitzgeraldiana degli ultimi anni non sia stato ritradotto e promosso Gli ultimi fuochi, il romanzo che Fitzgerald ha lasciato incompiuto colto da infarto la mattina del 21 dicembre 1940. L’edizione che ci rimane è quella storica curata da Edmund Wilson nella traduzione fortemente invecchiata di Bruno Oddera, Mondadori 1959.

Hemingway paragonò il libro a una fetta di bacon sulla quale si è formata la muffa, al solito poco generoso quando si trattava dell’amico Scott. Pur essendo un romanzo lasciato a metà, con evidenti problemi di punto di vista del narratore, Gli ultimi fuochi ha un protagonista indimenticabile e mantiene una sorprendente contemporaneità. Merito del talento, certo, ma anche del tema che aveva catturato la fantasia non meno della vita del suo autore, Hollywood. Trattata per quello che era, lontano dagli stereotipi e dai pregiudizi dell’epoca, Fitzgerald è riuscito nel compito impossibile di raccontare dall’interno, con una sensibilità unica, la fabbrica dei sogni e i meccanismi della scrittura cinematografica.

Il romanzo, l’unico ambientato lontano dagli Anni Venti, giunse in un periodo difficile della vita dell’autore. Schiacciato dai debiti, da un’acutizzarsi della tubercolosi, dalla malattia di Zelda e dall’alcolismo, il cinema gli era parsa l’unica possibilità di salvezza. Nonostante venne accolto con entusiasmo nel 1937 dalla Mgm con un assegno di mille dollari alla settimana, Hollywood non fu mai benevola con l’autore de Il grande Gatsby. Gli riservò un nuovo fallimento, dopo quello fresco di Tenera è la notte, e aspre umiliazioni – come quando, alla prima del film I Tre Camerati, Fitzgerald scoprì che la sceneggiatura da lui scritta era stata completamente cambiata da Mankiewicz. A Perkins, editor e angelo custode della Scribner’s, scrisse che gli studios erano pieni di uno «strano conglomerato di pochi uomini eccellenti ed esausti che facevano film e alla base la squallida folla di truffatori e pennivendoli che può immaginare».

Ma in California, Fitzgerald, incontrò anche Sheila Graham, la cronista di Hollywood di cui si innamorò e che rese più lieti gli ultimi anni della sua vita; e Irving Thalberg, potente produttore della Mgm, un «uomo eccellente ed esausto», morto a soli 37 anni, che gli ispirò la figura di Monroe Stahr, il protagonista del libro. Forse grazie a questi due incontri, The Last Tycoon riesce a essere un romanzo lucido su Hollywood e la sua gente nel quale non si respira mai quel risentimento che biografie e scritti critici gli attribuiscono. Come disse egli stesso in una lettera a Perkins poco prima di morire, il suo libro avrebbe suggerito un nuovo modo di guardare all’industria del cinema. «Si può accettare Hollywood qual è, come facevo io, o si può ignorarla con il disprezzo riservato a ciò che non riusciamo a capire. Si può anche capirla, ma solo confusamente e a tratti», dice in apertura del libro Cecilia, la voce narrante.
Prototipo di una donna nuova, ispirata all’autore dalla figlia Scottie, Cecilia non ha più niente in comune con le eroine degli anni Venti: intelligente, seria, cinica, esprime la sua spregiudicatezza in forme più consone alla nuova epoca. In quanto figlia di un produttore, tenuta a battesimo da Rodolfo Valentino, capisce la gente del cinema e non la giudica. Innamorata di Monroe Stahr, è attraverso i suoi occhi adoranti che ne facciamo la conoscenza.

Una figura come quella di Stahr oggi a Hollywood non esiste più, somiglia forse più ai produttori di certe serie tv che assoggettano ogni altro ruolo alla loro influenza

Stahr è un produttore potente. Di origini ebraiche come i più importanti produttori dell’epoca – Harry Cohn, William Fox, Carl Laemmle, Louis B Mayer, Jack e Harry Warner, la cui epopea è raccontata molto bene da questo libro – Stahr è un uomo combattivo. Giunto al potere ancora giovane è stato uno degli artefici della nuova Hollywood, coeva a Fitzgerald, dove a comandare non sono più i registi ma gli «[Stahr] era un punto fermo dell’industria cinematografica come Edison e Lumière e Griffith e Chaplin. Aveva innalzato i film molto al di là della portata e delle possibilità del teatro, raggiungendo una sorta di età dell’oro, prima della censura. La prova della sua supremazia consisteva nello spionaggio che lo circondava, non solo per entrare in possesso di notizie riservate o di procedimenti segreti brevettati; se ne spiava il fiuto per determinati orientamenti nel gusto, la capacità di prevedere come si sarebbero messe le cose». Una figura come quella di Stahr oggi a Hollywood non esiste più, somiglia forse più ai produttori di certe serie tv che assoggettano ogni altro ruolo alla loro influenza. Come alcuni di loro, Stahr è un personaggio che può pronunciare battute come questa: «L’unità artistica sono io», ed essere perfettamente credibile agli occhi di due attoniti sceneggiatori in vena di lamentele. Stahr potrebbe tranquillamente avere ispirato alcune delle battute – e degli aspetti – più affascinanti di Don Draper, per intenderci. L’ultimo tycoon rivela chiaramente la fascinazione di Fitzgerald per gli uomini carismatici ma fragili, a cui non risparmia un destino tragico. Proprio come Thalberg, anche Stahr è «esaurito dal lavoro eccessivo e mortalmente stanco; domina con uno splendore che è quasi moribondo nella sua fosforescenza. È stato avvertito che la sua salute è in pericolo, ma poiché non teme nulla, ignora l’avvertimento», dice di lui Fitzgerald nella già citata lettera a Perkins.

Stahr è il personaggio che più somiglia a Gatsby: «se un libro potesse essere “simile” a un altro, direi che questo è più “simile” a Il grande Gatsby di ogni altro mio romanzo”.» Nonostante la parzialità della stesura, lo stato di prostrazione per il fallimento umano e artistico (The Crack-Up è del 1936), la magia da cui era nato Gatsby è ancora lì, come confermò lo stesso Perkins. L’eccezionalità di Stahr è ben espressa da questo passaggio, uno dei primi a lui dedicati nel romanzo: «Giovane, aveva volato molto in alto, su ali robuste, per vedere il mondo; e di lassù aveva contemplato tutti i regni, con quella sorta di sguardo capace di fissare il sole. Battendo con tenacia le ali – disperatamente in ultimo – era rimasto là in alto più a lungo di quasi tutti noi e poi, ricordando tutto quello che aveva veduto della verità delle cose da quella grande altezza, si era ribassato a poco a poco sulla terra». Lo sforzo di penetrare l’anima di Hollywood attraverso quella di uno dei suoi esponenti più importanti, ha permesso a Fitzgerald di scrivere alcune delle pagine più belle mai lette sul mondo del cinema. Senza ombra di dubbio le più ispirate, insieme al tracollo di Stahr, dell’intero libro.

Lo troviamo alle prese, dopo una giornata sfiancante, con la visione dei giornalieri insieme ai tecnici di tutti i reparti tranne i registi, ufficialmente perché non necessari ma di fatto intimoriti dalle critiche feroci di Stahr. Nell’arco di poche ore chiede di rimontare una scenografia per girare nuovamente una scena rovinata da un’inquadratura sbagliata, arrivando a dare indicazioni su come disporre le comparse; chiede di riscrivere i dialoghi di un gangster movie girato a New York; di eliminare un primo piano che avrebbe attirato le ire del pubblico; fornisce indicazioni su come trattare il viso di un’attrice; chiede di allungare una sequenza perché crede che sarà proprio quella a rimanere impressa nella memoria dello spettatore eccetera. Film dopo film, inesausto, distribuisce ordini ai tecnici che lo ascoltano come si ascolta un oracolo. Poi cerca di mettere una pezza per calmare due scrittori imbestialiti per aver scoperto che la sceneggiatura su cui stanno lavorando è stata affidata anche a un’altra squadra di sceneggiatori… Dal momento che questa era una di quelle cose spiacevoli che capitavano di continuo a Fitzgerald, le parole che pronuncia Stahr sono ancora più significative: «Oh, è vero, possiamo firmare contratti a chi vogliamo, ma quando vengono qui dimostrano di non essere più così bravi… di conseguenza, dobbiamo ricorrere ai nostri collaboratori». Per collaboratori intende: «Tutti coloro che sono disposti ad accettare il sistema e a non ubriacarsi troppo ». È evidente che Fitzgerald sta parlando di sé; mette la coppia di scrittori alla berlina di Stahr, proprio come lui lo era stato al cospetto di Irving Thalberg alla Mgm.

Sul rapporto tra scrittori e Hollywood Fitzgerald torna spesso in The Last Tycoon. Quasi mai è tenero nei confronti dei suoi colleghi, ci mette, anzi, un accanimento sospetto che a volte sembra una forma di autopunizione per aver fallito l’impresa

Sul rapporto tra scrittori e Hollywood Fitzgerald torna spesso in The Last Tycoon. Quasi mai è tenero nei confronti dei suoi colleghi, ci mette, anzi, un accanimento sospetto che a volte sembra una forma di autopunizione per aver fallito l’impresa. È incredibile vedere come nel confronto tra i due mondi si sforzi di far valere le ragioni di Stahr. Ci regala così una scena di forza straordinaria in cui Boxley, il romanziere, affronta Stahr che valuta di poco conto la sceneggiatura da lui scritta. Ne riporto la parte conclusiva:

«Io credo che voi del cinema non leggiate mai niente. I protagonisti stanno duellando mentre si svolge la conversazione. E alla fine uno dei due precipita in un pozzo e deve essere tirato su con un secchio».
Abbaiò di nuovo e si calmò.
«Scrivereste questo in uno dei vostri libri, Signor Boxley? »
«Cosa? No, certo. »
«Lo giudichereste troppo volgare. »
«I criteri del cinema sono diversi» disse Boxley scantonando.
«Andate mai a vedere qualche film? »
«No… quasi mai»
«Non è forse perché i personaggi non fanno che duellare e precipitare nei pozzi? »
«Già… e atteggiare il viso a forzate espressioni facciali, e parlare con dialoghi incredibili e assurdi. »
«Lasciate stare i dialoghi per un momento» disse Stahr. «Ammetto che i vostri dialoghi sono più eleganti di quelli che sanno scrivere quei due sceneggiatori… vi abbiamo fatto venire qui per questo. Ma immaginiamo qualcosa che non sia né un pessimo dialogo né un salto nel pozzo. C’è una stufa nel vostro ufficio, una di quelle che si accendono con un fiammifero? »
«Credo di sì» rispose Boxley, sulle sue. «Ma non l’adopero mai. »
«Supponete di trovarvi in ufficio. Avete duellato e scritto per tutto il giorno e siete troppo stanco per continuare a duellare o scrivere. Ve ne rimanete seduto, guardando nel vuoto… intontito, come capita a tutti qualche volta. Una graziosa stenografa che già conoscete entra nella stanza e voi la guardate… apatico. Lei non vi vede, benché le siate molto vicino. Si sfila i guanti, apre la borsetta e ne rovescia il contenuto su un tavolino… »
Stahr si alzò, gettando sulla scrivania il mazzo delle chiavi.
«Ha due monetine d’argento, un nichelino… e una scatoletta di svedesi. Lascia il nichelino sul tavolo, rimette le monetine nella borsetta, prende i guanti neri, si avvicina alla stufa, l’apre e vi mette dentro i guanti. Nella scatoletta c’è un solo fiammifero e lei fa per accenderlo inginocchiata davanti alla stufa. Voi notate che la finestra aperta lascia passare una forte corrente d’aria… ma proprio in quel momento suona il telefono. La ragazza prende il ricevitore, dice pronto… ascolta… poi, in tono reciso, dice al telefono: “Non ho mai posseduto un paio di guanti neri in vita mia”. Riattacca, si inginocchia di nuovo davanti alla stufa e, proprio mentre accende il fiammifero, voi vi voltate, di colpo, e vedete che nell’ufficio c’è un altro uomo, a spiare ogni movimento della ragazza… »
Stahr tacque. Prese le chiavi e se le mise in tasca.
«Avanti» disse Boxley sorridendo. «Che cosa succede? »
«Non lo so» rispose Stahr. «Stavo soltanto facendo del cinema. »
Boxley sentì di essere stato messo nel sacco.
« Non è altro che melodramma » disse.
« Non necessariamente » replicò Stahr. « In ogni modo, nessuno si è mosso con violenza o ha avuto una qualsiasi espressione facciale, né vi è stato alcun dialogo volgare. V’era una sola battuta, e uno scrittore come voi potrebbe migliorarla. Comunque, sembravate interessato. »
« A che serviva il nichelino? » domando Boxley, evasivo.
« Non lo so disse Stahr. » A un tratto rise. « Ah, sì… il nichelino serviva per andare al cinema. »
I due invisibili uscieri parvero mollare Boxley. Egli si rilasciò, si appoggiò alla spalliera e rise.
« Perché diavolo mi pagate? » Domandò. « Non capisco tutta questa faccenda. »
« La capirete » disse Stahr, sorridendo « altrimenti non mi avreste fatto la domanda sul nichelino ».

Questa scena è così carica di significati da essere anche un piccolo saggio sulle differenze essenziali tra scrittura e cinema: “IL PERSONAGGIO È AZIONE”, scrive in maiuscolo Fitzgerald come ultimo appunto prima di morire. Ma è anche un esempio convincente dei pregiudizi intellettuali che circondavano il mondo del cinema (oggi potremmo dire lo stesso di quello televisivo). Scrisse anche: «Agli intellettuali, che dovrebbero trovarsi su un piano di superiorità, piace sentir parlare delle pretese, delle stravaganze e delle volgarità; provate a dir loro che il cinema ha una sua grammatica, come la politica, o l’industria automobilistica, o la società, e ne vedrete le facce divenire inespressive».

Monroe Stahr, uno dei personaggi più affascinanti e indimenticabili creati da Fitzgerald, è lì a testimoniare il suo rispetto verso Hollywood. Lungi dal disprezzarla, Fitzgerald soffrì moltissimo per non essere riuscito a farsi amare come avrebbe voluto. Forse era un’impresa impossibile, perché impossibile risulta adattare l’incommensurabile grazia del suo stile alla pura azione cinematografica – nonostante Gatsby e The Last Tycoon abbiano una trama “hollywoodiana” se ridotti a essa subito evaporano, come dimostra il recente film di Luhrmann. Ma anche se a Hollywood non ebbe successo, Fitzgerald fu molto lontano dall’essere una patetica vittima dell’industria cinematografica come troppo spesso è stato dipinto. The Last Tycoon dimostra, invece, quanto a fondo avesse capito quel mondo e quanto intensamente abbia saputo restituire il senso di tragedia che da sempre vi incombe.

 

Nell’immagine: il francobollo commemorativo emesso dal Us Postal Service nel 1995