Attualità

Filosofia Togni

Da Correggio alla Persia, la vita nomade di una dinastia circense nata con Don Camillo che ha trovato l'Eldorado in Iran (aspettando ancora l'India).

di Manuela Ravasio

Ogni imperatore ha il suo rosso. Valentino il suo, Livio Togni pure. È un rosso metallico mischiato al giallo fluorescente. E lui, ex senatore, potrebbe essere uno dei pochi imperatori rimasti. Le bestie da show ce le ha, il titolo di domatore anche, quindi gli spetta di poter istituzionalizzare anche il rosso circense.

Il rosso, quello che si sposta in carrozzoni, ormai più che altro container di latta, spesso imbarcati su navi. I colori – fosforescente e sfarzosa presenza del circo nel mondo – sono da sempre riassunti immediati delle locandine cult del Circo Togni. Il patron dei tendoni più famosi d’Italia dichiara che il suo circo di certo non mette i manifesti sotto ai ponti «o in tutte quelle location strategiche dove gli altri circensi, peracottai, mettono le loro. Se lo facessimo noi, i Togni, prenderemmo multe pazzesche, come su tutto. Siamo sotto osservazione da sempre, non uno sgarro, perché sono multe profumatissime. Ma è il pregio e il difetto di avere avuto così tanto successo». Risponde calmo il figlio del celebre Darix, mitologico domatore di belve che sembrava uscito da un set di Spartacus e che ha lasciato al figlio il vizio di entrare nella gabbia con le tigri: «È stato il dono più bello che potesse farmi, è per questo che io con i miei figli ho fatto la stessa cosa, regalargli un’emozione fortissima. Se ho paura per loro? Certo, ma sarebbe più incosciente non regalargli il lusso di rischiare, di godersi qualcosa del genere. Vale più di ogni rischio. Non bisogna essere attaccati a nulla». Neanche alla vita? Mi sorride. Mi sta dicendo di no. «Non sono cattolico, non nel senso della Chiesa attuale, ma invidio molto la performance scenica che hanno. Tutto quel velluto, quella coordinazione, quella scenografia. Incredibile», mi dirà poco dopo, quando ci sposteremo nell’hangar dove chi si occupa della manutenzione sta saldando dei tavolini liberty usati per gli spettacoli.

La vita del circo Togni ha attraversato lustri migliori, quelli iconici appunto, fatti di locandine neon, kitsch, invasive; quelle che i colleghi che ama definire peracottai si ostinano a mettere sotto ai ponti con tigri disegnate in arancio accecante mentre quelle dei Togni sono tigri fotografate dal vivo. E questo fa la differenza. Un segno grafico che è diventato un must copiatissimo ai Togni, famiglia circense che con le locandine gioca ancora, vedi le ultime, che sfoggiano un anacronistico font Herculanum e che, compattate come fossero tappeti intrisi di inchiostro, riempiono con il loro odore acido il deposito dove si conservano le attrezzature in riparazione tra uno spettacolo e l’altro. Come a dire: il circo si deve vedere. Anche questo è il grande, inscalfibile déja-vû del circo in Italia. E all’estero. Perché la comunicazione arcaica per i più, irrinunciabile per loro, è uguale qualunque radice etnografica si abbia. Nel quartier generale a pochi chilometri da Correggio, il Circo Togni è a mezzo regime, metà delle carovane sono partite, l’altra è in arrivo dall’Est, prossimo rientro e spostamento sarà quello di Milano, «dove cerchiamo sempre di passare del tempo, anche se noi circensi abbiamo le ruote nel cervello. Io a Milano ci sono cresciuto, al Collegio San Carlo».

Livio Togni parla piano, con quello smaccato accento emiliano, camicia di seta, giubbino di renna e marsupio in vita si fatica a vederlo uomo dei record nella gabbia della tigre bianca, e sì, viene difficile anche vederlo seduto in Senato «a schiacciare tre tasti, macché stanza dei bottoni, è una noia mortale, e poi come ogni partito, anche quello (Rifondazione Comunista, Ndr) definisce le linee a seconda del caso, e allora no, il vero pensiero alto è di sinistra, ma deve essere davvero alto». Un riassunto conciso per raccontato la liaison con la politica di Livio Togni, andata avanti per quasi cinque anni durante i quali il circo è stato in stand-by. Poi è tornato, stanco del sole di Roma, e conscio che il suo è un peregrinare costante – per quanto la campagna in provincia di Reggio Emilia sembri un set cinematografico molto più stabile di quanto si possa pensare.

Portare animali esotici in paesi come l’Iran è stato un rischio enorme, eppure ho riscoperto il piacere di regalare qualcosa di mai visto, come il circo tradizionale che là non era mai arrivato.

È tornato a fare il circense conscio anche che l’Europa non era più la stessa e si è allontanato da certi automatismi (vedi luoghi, città) che ti assicurano un trionfo di botteghino ma che sono in grande contraddizione con la natura itinerante della sua professione. Lontano soprattutto da quella Francia, da cui imitazioni e gelosie da primedonne hanno scacciato i circhi italiani da Parigi – con leggi che impediscono ai circhi non nazionali di soggiornare troppo a lungo, e che hanno colpito dopo anni di residenza il circo Togni che lì rilanciò il Florilegio, circo in versione retro.

«Il circo lo amo perché facciamo viaggiare chi non può. Portare animali esotici in paesi come l’Iran per esempio, è stato un rischio enorme, eppure quando abbiamo aperto quella porta ho riscoperto il piacere di stupire, di regalare qualcosa di mai visto, come il circo tradizionale che in Iran non era mai arrivato». Un divertissement tutto all’italiana, che però a volte infastidisce anche quando riesce a stuzzicare l’economia e le abitudini del luogo in cui si trova tanto da essere poi copiato. Come l’exploit delle compagnie circensi francesi dopo aver visto il circo italiano dei Togni: «Siamo stati vittima del nostro stesso successo. Alla fine davamo fastidio e abbiamo cercato altri scenari. Il nostro è un circo ingenuo. Avremo meno possibilità – per assurdo – di chiudere rispetto a un Cirque du Soleil, grande fenomeno che subisce le mode, il fatto di essere unico nel suo esseresolo un grande show, ma non è circo, è come un bellissimo musical. Non tornerebbe a vederlo tre volte, giusto?»

Chi va ancora al circo in Italia? Non ci bastano i reality? Ride. «L’ha notato anche lei? Non credo sia vero del tutto… comunque… abbiamo il nostro dna, nasciamo qui, è nella nostra tradizione culturale praticare e frequentare il circo». Ma dopo pochi minuti guarda alle mie spalle e alzando di poco gli avambracci dai braccioli della poltrona girevole che è il suo trono low profile indica la cartina impallinata con puntine che coprono i primi Paesi dell’Est e qualche Stato arabo: «Nel 2001 ho deciso che volevo portarci in India, ma passando attraverso tutti gli Stati in mezzo, quando ci siamo avvicinati al Pakistan è scoppiata la guerra in Afghanistan e allora ci siamo dovuti fermare. Con gli anni è venuto il resto, come l’Iran dove siamo stati i primi a esibirci, dopo due anni di tournée e alcuni problemi con i passaporti dei nostri animali… siamo riusciti a lasciare il Paese grazie all’intervento di un magnate del Qatar che comprò tutti i nostri animali. Poi siamo andati a esibirci lì. E siamo risaliti senza le bestie».

In questo ufficio mobile sembra che nulla si sposti da secoli. Le foto di Livio Togni con Papa Giovanni Paolo II, i ritratti di famiglia e i faldoni con le spese di produzione di anni in cui il circo su Raitre non si poteva nemmeno lontanamente immaginare. «Il nostro circo non è finito, la generazione dei miei nipoti è la migliore che abbiamo mai avuto, e il mio sogno di arrivare in India via terra non è morto, il mio Far West è il Far East». Mentre parliamo nel container ufficio c’è il veterinario che aspetta calmo e tranquillo quasi fosse lui in coda per essere visitato dal gran visir del Circo. «Se gli animalisti hanno boicottato il circo in Italia? Certo, ci hanno criminalizzato, accusando non solo noi ma soprattutto chi va al circo, definendoli assassini, ma le chiedo, come fa a dire che quella tigre è infelice? Parla? Comunica? Chi decide in maniera oggettiva che questa tigre è triste o felice? Il domatore deve per forza amare queste bestie, perché ci vive costantemente insieme».

La sua ironia si insinua a pari passo con la strana sensazione che il Far East sia un Eldorado costruito per fare di necessità virtù, ma senza rinunciare ai fasti e alle illusioni insite nel circo. Più che l’Eldorado, l’Iran sembra un compromesso per fuggire più che dalla Lav («una fabbrica di soldi investiti dove? Per gli animali o per mandare nuove persone in Parlamento?») dal tempo assassino italico che per il Circo non ha più né la seconda serata né le praterie dove accamparsi. A chi gli domandava perché era sceso in politica, lui che viene dalla terra del dualismo Don Camillo e Peppone – unico grande cliché politico regionale che sta ancora in piedi – Livio Togni un tempo rispose che voleva «mettere a posto una volta per tutte gli argini del Po che continuano a mandare in crisi il Paese, qualunque persona di buon senso dovrebbe farlo». A quasi sei anni di distanza rettifica: «Ora credo che si debba cambiare la legge elettorale».

C’è un piccolo canguro rimasto in un recinto isolato, a fianco una tigre enorme che si aggira in un loft di lamiera, un ragazzo con la t-shirt dei Green Day sta pulendo le gabbie del leone, che sonnecchia, e quella delle tigri più piccole. In fondo in un recinto che, visto le campagne attorno potrebbe essere quello di un ranch nell’Idaho, ci sono due zebre esteticamente perfette. Le zebre, la campagna emiliana, un inserviente che pulisce la carrozza toilette: il circo fermo. Magico? No, la magia non c’è più. C’è l’allenamento, la produzione di uno spettacolo che in Italia generazioni intere non hanno mai visto, perché da anni il Circo è diventato quello di Buttafuoco, sinistro, in errore, niente più sconti alla “carrozzone di Renato Zero”. «Ricordo le prime volte in cui ho visto Amarcord come i film di Don Camillo, come si fa a non amare una cosa del genere? Le mie figlie non lo guardano neanche a morire, io invece vorrei farglieli vedere, li guarderei ogni volta.» Un abitudinario tradizionalista? «Temo di no, anche se poi per sfuggire alla prigione di una casa stabile sono schiavo del muovermi. E la mia prigione diventa la mia testa».

 

 

Dal numero 5 di Studio

Fotografie di Luigi Fiano per Studio