Attualità

Enrico Berlinguer, icona

A vedere Quando c'era Berlinguer di Walter Veltroni, il tentativo di rivivere quegli anni e quella politica e di ricordare quanto fossero "belli". Come anticipava lo stesso Veltroni nel libro La bella politica nel 1995.

di Mattia Carzaniga

Ho una spilletta di Lenin appuntata sul cappotto. Mi dico mentre pedalo verso l’anteprima di Quando c’era Berlinguer di Walter Veltroni (in sala da giovedì, a giugno su Sky – che produce – per il trentennale della morte) che presentarsi così fa troppo groupie. Peggio: cosplayer del Signore degli anelli. È una questione di eredità, mi dico poi. Il nonno – fu partigiano, fu comunista, fu – mi ha lasciato questa spilletta made in Urss e mi ha lasciato Enrico Berlinguer, made in Italy. È il cuore del documentario, questa via italiana al comunismo spiegata a chi non sa, a chi non ha mai saputo. Non c’erano spillette coi profili dorati, nel Pci. C’era l’icona pop da comizio in piazza, e in piazza pianta quel 13 giugno dell’84. Il cuore sono quelle piazze piene in vita e in morte, piene come non le vedremo più – forse solo il Circo Massimo di Veltroni medesimo, no, scusate, l’ho confuso con il Circo Massimo dello scudetto della Roma.

Sono nato un anno prima di quel 13 giugno, il nonno aveva i libri del Partito su scaffali per me troppo alti, c’era il desiderio di essere come tutti (cit.) perfino nella Brianza velenosa degli primi Ottanta. Berlinguer è stato sempre e solo icona postuma, retroattiva, rinverdita a ogni nuova stagione, a ogni nuova elezione («Ah, com’è lontana quella sinistra!»). Le icone sono state altre, per noi nati quando lui è morto, e non le abbiamo potute scegliere. Craxi appena sfiorato, ma è venuta Hammamet e quello è bastato. Berlusconi, be’, Berlusconi. Stiamo vivendo ora l’autunno dell’unico patriarca che ci siamo meritati. Berlinguer è sempre e solo evocazione, più che altro invocazione.

Veltroni ha in mente un documentario che è libro di testo, con quel piglio didattico delle videocassette del grande cinema americano vendute con l’Unità quand’era direttore.

Il film comincia con la domanda fuori campo «Chi era Berlinguer?» e con studenti di liceo (e professori, tassinari, avvocaticchi di Roma Nord) che rispondono a casaccio, uno scrittore, un francese, chissà. La migliore è la diciottenne che «Non lo so, sono sincera», e ci starebbe benissimo un «Maria» intesa come De Filippi, e alla fine dà la colpa al sistema scolastico che non lo mette nei programmi di storia. Veltroni ha invece in mente un documentario che è libro di testo, con quel piglio didattico delle videocassette del grande cinema americano vendute con l’Unitàquand’era direttore, con quella chiamata alla partecipazione collettiva che fece all’epoca dell’abortito yes we can nostrano, con quella proiezione kennediana che è diventata la cifra pure dei suoi sfottò – c’è anche Enrico in barca a vela a Stintino, Gallura’s Vineyard.

È un play-by-play della memoria, prima ancora che della Storia. Si comincia dal vento che solleva fogli di giornale, «Sarà mica che Veltroni vuol dire che la Roma di Ignazio Marino è più sporca della sua», e invece è la ricostruzione posticcia di quel che resta della folla a San Giovanni, le prime pagine con l’«Addio» dei compagni. Pure il lavoro d’archivio segue e affastella i ricordi, c’è la foto di Enrico bambino che pare Huckleberry Finn a caccia di rane, poi le pagelle del ginnasio non senza insufficienze, le lettere dal carcere con la voce di Toni Servillo as Jep Berlinguer. Si salta anarchicamente al saluto a Togliatti che prende il treno per il Cremlino, all’editto di Bulgaria ante litteram, quell’attentato che forse doveva essere e non è stato, e poi il divorzio e l’aborto, i diritti civili impossibili e la pasticciata questione femminile, ancora lì siamo, così, avanti, fino alla prima morte di Enrico, quando morì Moro.

C’è anche l’album privato di Veltroni, la Fgci (nei documentari firmati Renzi avremo i boy scout), Giuliano Ferrara con meno chili e più pugni chiusi, persino un ralenti stile C’era una volta a Roma Prati su Walter e Flavia al tempo della stagione dell’amore per la sinistra, ovvero quando la sinistra prendeva i voti. Di quell’album privato, corredato di musica mélo molto assordante e molto brutta effetto Gandhi, fanno parte pure le interviste a coloro che Veltroni sceglie come testimoni, nella luce di una terrazza che pare Scola – quello vero si vede sui titoli di coda insieme agli altri registi, una sigaretta per parlare delle riprese dei funerali. C’è Bianca la figlia che frena l’emozione, Napolitano il presidente (dunque con sfondo di Giardini del Quirinale) che allora si scontrò (ma non si dice) e oggi si commuove alle lacrime, Scalfari con camicia alla coreana quadrettata di ottima sartoria che distrae dalle parole, Aldo Tortorella (fu responsabile della cultura per il Partito) che lascia intendere che i dirigenti di allora trovarono Novecento di Bertolucci una gran palla, Claudio Signorile (fu braccio destro di Craxi) che del craxismo conserva un’abbronzatura sfacciata, e non serve altro. O forse sì: le stupende immagini di Enrico e Bettino che non osano guardarsi, come l’altro Enrico con Matteo durante l’ultima cerimonia della campanella.

È un coro non da tragedia greca, semmai da alzati che si sta alzando la canzone popolare, allora succedeva davvero. Perciò la cosa più bella sono le facce che piangono ai funerali, il ricordo del caposcorta che sembra scritto da Age a Scarpelli («’Mazza quanto te danno da magna’ i genovesi»), il controcanto dell’operaio padovano che fu tra gli ultimi a raccogliere quel sogno di una sinistra che cercava d’includere, prima dei baci a Capalbio, delle bicamerali, di altri 34%, percentuale bassissima nel 2008, quando invece fu altissima in quegli anni per il Pci formidabili.

Ha l’intuizione di far dire a Lorenzo Jovanotti che il comunismo (meglio: la parola «comunista») non solo era una cosa bella: era una cosa.

Ha delle intuizioni, Veltroni. Quando recupera dagli archivi il convegno di fine anni Settanta, il primo a colori, il primo in videoconferenza Milano-Roma, il Partito che non ha paura della tecnologia, pensavo all’attuale premier che si fa due risate guardandolo oggi, twittando dall’iPad. (Pensavo anche a Veltroni che firmò la prefazione di L’amore ai tempi di Facebook di Pippo Civati e mio, correva l’anno 2009, pensavo alla festa per i suoi amici di Facebook in cui gli abbiamo chiesto quelle righe, a Berlinguer che davvero non c’era già più.)

Ha l’intuizione di far dire a Lorenzo Jovanotti che il comunismo (meglio: la parola «comunista») non solo era una cosa bella: era una cosa. In una recente intervista televisiva il ministro Boschi ha risposto alla domanda «Esistono i comunisti?» con un convinto «Be’, no». In barba al comunismo all’italiana come strada possibile, pur nel dialogo impossibile tra quella spilletta di Lenin e la Nato. Non faccio il regista di documentari, né facevo l’uomo che used to be the next president del consiglio, ma avrei messo meno signori di Partito e più Lorenzi Jovanotti, per suggerire agli studenti (e ai neoministri) la risposta alle domande a cui non sanno rispondere (o a cui rispondono male).

C’è ancora da qualche parte nella mia libreria La bella politica, pubblicato da Veltroni nel 1995, sorrentinismi prima di Sorrentino, la bellezza prima dell’abuso della bellezza. È il segno che Quando c’era Berlinguer vorrebbe lasciare. Erano belle quelle parole, belle quelle scelte, bella pure la cravatta viola che Enrico indossa durante una tribuna politica di allora. È bella l’icona senza spillette, senza geometrie sovietiche come quelle dei teatri di Mosca dove il Pci restava schiacciato e incompreso, bello l’ultimo comizio a Padova, soffocato da un fazzoletto e però concluso, fino all’ultima riga, fino all’ultima parola, come voleva l’ortodossia di Partito. È bella l’icona, o l’icona che non è mai stata.

L’icona che non è mai finita sulle magliette, nelle canzoni un po’, nei film con Benigni sì, ma era più di trent’anni fa, prima degli Oscar e dei salti sulle poltrone. L’icona che, dice il film, avrebbe meritato di più. Penso, nel mondo di Uolter, a una scuola intitolata a Enrico Berlinguer con lo stesso valore immaginifico che ha l’istituto Marilyn Monroe in Bianca di Nanni Moretti. Berlinguer come le Vhs dei western di Sergio Leone in allegato col quotidiano, come il faccione di Che Guevara, come le serigrafie di Andy Warhol. Come una spilla da appuntare sul cappotto, «Ah, ma è Enrico», non c’è neanche bisogno di chiederlo.

 

Nell’immagine, Enrico Berlinguer nel giugno 1976. Hulton Archive / Getty Images