Attualità

Elogio del fallimento

Il mondo del business e i pregiudizi di un paese in cui è sempre colpa degli altri. Cosa si può imparare da Michael Jordan e Sergey Brin?

di Davide Piacenza

«Ho sbagliato più di 9000 tiri nella mia carriera, ho perso quasi 300 partite, 26 volte hanno lasciato a me il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito più e più volte nella mia vita, ed è per questo che ho avuto successo». Sono le parole di Michael Jordan in un celeberrimo spot Nike del 1997. La frase ebbe una tale fortuna che nel 2010, eletta a simbolo imperituro della leggenda sportiva di Brooklyn, venne stampata nell’intersuola delle Air Jordan.

Torna in mente, in questi giorni, leggendo un dato inquietante e significativo: in Italia da gennaio di quest’anno ad oggi hanno chiuso 42 imprese al giorno, con un incremento di più del 12% sul dato del 2012. Se questo trend dovesse confermarsi, rivela un rilevamento di Cerved Group per conto del Sole 24 Ore, a fine anno sarebbero 14.000 le imprese costrette a chiudere i battenti (2000 in più rispetto all’anno scorso).

«La ragione per cui l’italiano stenta sempre a dimettersi è perché non può accettare l’ipotesi di aver sbagliato»

Ma come fare in modo che almeno alcune di queste si rimettano in moto? Molto difficile, se ed aggravare una situazione già così complicata ci si mette anche un certo pregiudizio nei confronti di chi fallisce, stigmatizzato non solo come perdente, ma spesso come un traditore di fiducia, quasi un truffatore –  abbastanza incredibile, se si pensa che, nel solo 2012, poco meno di un terzo delle imprese italiane che hanno fatto questa fine vi sono state costrette da ritardi nell’incasso dei pagamenti.

Oltre a tutto il resto, questo ha una ripercussione diretta: prendere atto del proprio fallimento è cosa rara, in Italia, come se la pratica socialmente non fosse ancora accettata. «La ragione per cui l’italiano stenta sempre a dimettersi è perché non può accettare l’ipotesi di aver sbagliato», scrive Alessandro Piperno sull’ultimo numero di IL magazine.

Ci sono alcune evidenze che confermano questa tesi. Basti pensare, ad esempio, che fino al 2006 (anno della riforma della legge che regola la materia) chi falliva doveva ottenere dal giudice una dichiarazione che lo riabilitasse dalle «incapacità» di natura personale e lo cancellasse da un registro dei falliti. Non solo: prima di questa data, la disciplina voleva che l’imprenditore non potesse neanche votare nei 5 anni successivi alla sentenza o allontanarsi dalla sua residenza senza previa autorizzazione del Tribunale.

La conseguenza è palese: quando si fallisce (anche in senso non strettamente giuridico), difficilmente ci si prende le proprie responsabilità: meglio scaricare il celebre barile – pena la reprimenda di pubblico, addetti ai lavori, elettorato.

L’anno scorso Volunia, una start-up che sulla carta doveva essere «la sfida italiana a Google», fece molto parlare di sé. Il progetto, però, incassò l’addio del suo fondatore Massimo Marchiori, informatico dell’università di Padova e inventore di uno degli algoritmi su cui si basa Google, dopo soli tre mesi.

Marchiori inviò una lettera a Repubblica, che recitava: «Quello che forse non sapete è che io non sono l’Amministratore Delegato di Volunia […] Contro il mio parere è stato introdotto nel progetto l’elaborazione di un motore di ricerca proprietario. […] Lascio la direzione tecnica di Volunia perché qualcun altro vuole farla al posto mio. Vuole poter decidere tutto, senza di me.» Il colpevole del naufragio, insomma, era un etereo AD di cui non veniva specificato il nome.

«Gli studi mostrano che le imprese che devono cominciare da zero una seconda volta ottengono risultati migliori e sopravvivono più a lungo»

L’ex ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, parlando all’ultima conferenza annuale degli start-upper italiani, ISDAY, l’ha detto senza mezzi termini: manca la cultura del fallimento, qui. Dello stesso avviso è apparso Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione europea, parlando in favore di nuove procedure riguardanti l’insolvenza (dicembre scorso): «Gli studi mostrano che le imprese che devono cominciare da zero una seconda volta ottengono risultati migliori e sopravvivono più a lungo rispetto alla media delle start-up; soprattutto, esse hanno una crescita più rapida e creano un maggior numero di posti di lavoro».

«Uno dei cardini che hanno fatto la fortuna dell’economia americana è la capacità di metabolizzare il fallimento e considerarlo un passo verso l’affermazione»

A tutti gli effetti, il fallimento altrove non solo è tollerato, ma è parte integrante del sistema. Come ha scritto Niall Ferguson nel suo L’ascesa del denaro, uno dei cardini che hanno fatto la fortuna dell’economia americana è la capacità di metabolizzare il fallimento e considerarlo uno step del cammino che porta all’affermazione. «La teoria è che la legge americana esiste per incoraggiare l’impresa – facilitando la creazione di nuovi business. […] Molti degli uomini d’affari americani di maggior successo fallirono nelle loro prime imprese, compreso il re del ketchup John Henry Heinz, il boss del circo Phineas Barnum e il magnate dell’automobile Henry Ford. Tutti questi uomini alla fine diventarono immensamente ricchi, anche perché gli venne data l’opportunità di provare, fallire e ricominciare».

Il mito della Silicon Valley, El Dorado dei geek e capitale della start-up mania mondiale, è tale anche perché le imprese che la abitano spesso sono gestite da persone che hanno imparato (e molto) dai propri errori. È il caso di successi planetari come Instagram e Foursquare, ad esempio.

Senza contare che non tutto il male vien per nuocere: l’anno scorso Sergey Brin, cofondatore di Google,  parlando di questo tema ad un summit di Google Ventures (il braccio della sua compagnia che si occupa degli investimenti), ha raccontato che originariamente, prima di conoscere il suo socio Larry Page e lavorare al progetto di un nuovo motore di ricerca,  si era occupato di un servizio via fax per l’ordinazione di pizza a domicilio. Ma la cosa non decollò, perché – pare – gli esercenti non controllavano abbastanza spesso il loro terminale.

Sembra che Sergey Brin, come anche Michael Jordan, alla fine ce l’abbiano fatta.